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to, che per apprendere, e così visse fino all'età di venti anni. Qui rimase senza Giovanni suo zio, il quale morissi, ed esso Gabriello andò a Savona a vedere e farsi rivedere da' suoi, e fra pochi mesi ritornossene a Roma. Allora, vendendo un giardino al cardinal Cornaro camerlingo, prese l'occasione, ed entrò in sua corte, e stettevi alcuni anni. Avvenne poi, che senza sua colpa fu oltraggiato da un gentiluomo romano, ed egli vendicossi, uè potendo meno, gli convenne d'abbandonar Roma, nè per dieci anni valse ad ottener la pace, ed egli si era come dimenticato di Roma. Assunto dal grande ozio in patria, erasi dato alla dolcezza degli studii, e così menò sua vita senza altro pensare; e pure in patria incontrò, senza sua colpa, brighe, e rimase ferito leggermente; la sua mano fece sue vendette, e molti mesi ebbe a stare in bando; quietossi poi ogni nimista, ed ei si godette lungo riposo. Prese moglie, sui cinquant'anni della sua vita, Lelia Pavese, figlia di Giulio Pavese e di Marzia Spinola, ed allora egli ebbe a perdere tutto il suo avere in Roma, ivi condannato per Pasquini chi maneggiava suoi affari: il fisco gli occupò il tutto; ma con mostrar ragioni, e col favore del cardinal Cintio Aldobrandini, il trasse di nuovo a sè, e finalmente con riposo visse in patria secondo il suo grado, e con esso sua moglie oltre ottanta anni, ma senza figliuoli, sano in modo, che oltre quelle febbri primiere raccontate, non mai stette in letto per infermità, salvo due volte, per colpa di due febbri terzanelle, nè ciascuna di loro passò sette parossismi: in questo fortunato, ma non già nell'avere, perchè nato ricco anzi che no, disperdendosi la roba per molte disavven

ture, egli visse, non già bisognoso, ma nè tampoco abbondantissimo. Ebbe un fratello ed una sorella legittimamente nati, i quali morirono innanzi a lui, ed il fratello non mai si maritò. Questo è quanto si possa raccontare di Gabriello, come di comunale cittadino, e poco monta il saperlo. Di lui, come di scrittore, forse altri avrà vaghezza d'intendere alcuna cosa, ed io lealmente dirò in questa maniera.

Gabriello da principio, che giovinetto vivea in Roma, abitava in una casa giunta a quella di Paolo Manuzio, e per tal vicinanza assai spesso si ritrovava alla presenza di lui, ed udivalo ragionare. Poi crescendo, e trattando nello studio pubblico, udiva leggere Marc'Antonio Mureto, ed ebbe seco famigliarità. Avvenne poi che Sperone Speroni fece stanza in Roma, e seco domesticamente ebbe a trattare molti anni. Da questi uomini chiarissimi raccoglieva ammaestramenti. Partito poi di Roma, e dimorando nell'ozio della patria, diedesi a leggere libri di poesia per sollazzo, e passo passo si condusse a volere intendere ciò ch'ella si fosse, e studiarvi attorno con attenzione. Parve a lui di comprendere, che gli scrittori greci meglio l' avessero trattata: si abbandonò tutto su loro; e di Pindaro si maravigliò, e prese ardimento di comporre alcuna cosa a sua somiglianza, e quei componimenti mandò a Firenze ad amico. Di colà fugli scritto, che alcuni lodavano fortemente quelle scritture. Egli ne prese conforto, e non discostandosi da'Greci, scrisse alcune canzoni, per quanto sosteneva la lingua volgare, e per quanto a lui bastava l'ingegno, veramente non grande, alla sembianza di Anacreonte e di Saffo,

Aut. che

rag.

di sè.

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e di Pindaro e di Simonide. Provossi anche di rappresentare Archiloco, ma non soddisfece a sè medesimo. In sì fatto esercizio parvegli di conoscere, che i poeti volgari erano poco arditi e troppo paventosi di errare, e di qui la poesia loro si faceva vedere come minuta, onde prese risoluzione, quanto ai versi, di adoperare tutti quelli, i quali da' poeti nobili o vili furono adoprati. Di più avventurossi alle rime, e ne usò di quelle le quali finiscono in lettera da' gramatici detta consonante, imitando Dante, il quale rimò Feton, Orizzon in vece di dire Fetonte, Orizzonte : similmente compose canzoni, con strofe e con epodo all'usanza de' Greci, nelle quali egli lasciò alcuni versi senza rima, stimando gravissimo peso il rimare. Si diede ancora a far vedere, se i personaggi della tragedia tolti da' poemi volgari e noti, più si acconciassero al popolo che i tolti dalle scritture antiche; e mise Angelica esposta all'orca in Ebuda, quasi a fronte di Andromeda; ed ancora alcune egloghe, giudicando le composte in volgare italiano troppo alte, e troppo gentili di facoltà; e ciò fece non con intendimento di mettere insieme tragedie ed egloghe, ma per dare a giudicare i suoi pensamenti. Similmente ne' poemi narrativi, vedendo che era questione intorno alla favola ed intorno al verseggiare, egli si travagliò di dare esempio a giudicare. Intorno alla favola, stimavasi non possibile spiegare un'azione, e che un sol uomo la conducesse a fine verisimilmente; ed egli si travagliò di mostrare, che ciò fare non era impossibile. Quanto al verseggiare, vedendo egli che poeti eccellenti erano stati ed erano in contrasto, e che i maestri di poetica

non si accordavano, egli adoperò la ottava rima, ed anche versi rimati senza alcun obbligo. Stese anche versi affatto senza rima; provossi in oltre di far domestiche alcune bellezze de' Greci poco usate in volgare italiano, cioè di due parole farne una, come: oricrinita Fenice, o riccaddobbata Aurora; parimente provò a scompigliar le parole, come: Se di bella ch'in Pindo alberga Musa. E, ciò fatto, essendo già vecchio, radunò alcune canzoni in due volumi, e componimenti in varie materie in due altri, raunò similmente un volume di poemetti narrativi, e sì fatte poesie egli scelse, come desideroso che si leggessero; il rimanente lasciò in mano d'amici. Con sì fatto proponimento, e con sì fatta maniera di poetare, egli passò la vita sino al termine di lunghissima vecchiezza, ed acquistossi l'amicizia di uomini letterati, quali a suo tempo vivevano, ed anco pervenne a notizia di principi grandi, da' quali non fu punto disprezzato; e da ciò puossi far questo conto. Essendo lui in Firenze con amici per sollazzo, Ferdinando I chiamollo a sè, e fecegli cortese accoglienza, e poi comandógli fare alcuni versi per servire sulla scena ad alcune macchine, le quali voleva mandare al principe di Spagna per dilettarlo. Avutili, mandò a Gabriello una catena d'oro con medaglia, ov'era impressa l'immagine sua e di madama sua moglie, ed insieme una cassetta con molti vasi di cose stillate per delizie e sanità. Poi per le feste della principessa Maria, maritata al re di Francia, comandógli che avesse cura delle poesie da rappresentare in sulla scena; ed allora avvenne che provandosi alcune musiche nella sala de' Pitti, vennervi ad udirle la Sere

nissima sposa, madama la gran Duchessa, la Duchessa di Mantova, il cardinal Monti, ed altro numero di chiari personaggi, e finalmente venne Ferdinando, e vedendo egli Gabriello, il quale con altri suoi pari stava in piedi e colla testa scoperta, comandógli che si coprisse e che sedesse. Fornite poi le feste, commise ad Enea Vaino suo maggiordomo, che notasse fra'gentiluomini della corte Gabriello con onorevole provvisione, e senza obbligo niuno dimorasse dovunque egli volesse. Nè meno Cosmo suo figliuolo mostrò di prezzarlo, anzi provandosi per le sue nozze pubblicamente una favola in scena, e vedendo Gabriello, chiamollo e fecelo sedere a lato a sè finchè finisse di provarsi quel componimento; e sempre, per lo spazio di trentacinque anni, diedero segno quei Serenissimi signori di averlo caro, nè mai lo abbandonarono delle loro grazie. Carlo Emmanuele duca di Savoia, vedendo che Gabriello scriveva l' Amadeida, invitandolo a farsi vedere, gli fece per bocca di Giovanni Botero intendere, che s'egli voleva rimanere in sua corte gli darebbe qualunque comodità egli desiderasse, ma Gabriello, scusandosi, rifiutò, ed il Duca, dettogli quanto desiderava intorno a quel poema, lasciollo partire e donógli una catena, e di sua stalla commise che se gli apparecchiasse una carrozza a quattro cavalli: dimostrazione di onorevolezza la quale soleva farsi ad ambasciatori de' principi. Ancora scrivendogli, gli scriveva direttamente, parlandogli il Duca e non il segretario; e sempre che Gabriello fu alla corte, gli faceva contare lire 300, ch'egli diceva per il viaggio, il quale non era che lo spazio di cinquanta miglia. Ben è vero che non

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