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DIALOGO

DI TIMANDRO E DI ELEANDRO.

Timandro. Io ve lo voglio anzi debbo pur dire liberamente. La sostanza e l'intenzione del vostro scrivere e del vostro parlare, mi paiono molto biasimevoli.

Eleandro. Quando non vi paia tale anche l'operare, io non mi dolgo poi tanto: perchè le parole e gli scritti importano poco.

Timandro. Nell' operare, non trovo di che riprendervi. So che non fate bene agli altri per non potere, e veggo che non fate male per non volere. Ma nelle parole e negli scritti, vi credo molto riprensibile; e non vi concedo che oggi queste cose importino poco; perchè la nostra vita presente non consiste, si può dire, in altro. Lasciamo le parole per ora, e diciamo degli scritti. Quel continuo biasimare e derider che fate la specie umana, primieramente è fuori di moda.

Eleandro. Anche il mio cervello è fuori di moda. E non è nuovo che i figliuoli vengano simili al padre.

Timandro. Nè anche sarà nuovo che i vostri libri, come ogni cosa contraria all'uso corrente, abbiano cattiva fortuna.

Eleandro. Poco male. Non per questo andranno cercando pane in sugli usci.

Timandro. Quaranta o cinquant'anni addietro, i filo

sofi solevano mormorare della specie umana; ma in questo secolo fanno tutto al contrario.

Eleandro. Credete voi che quaranta o cinquant'anni addietro, i filosofi, mormorando degli uomini, dicessero il falso o il vero?

Timandro. Piuttosto e più spesso il vero che il falso.

Eleandro. Credete che in questi quaranta o cinquant'anni, la specie umana sia mutata in contrario da quella che era prima?

Timandro. Non credo; ma cotesto non monta nulla al nostro proposito.

Eleandro. Perchè non monta? Forse è cresciuta di potenza, o salita di grado; che gli scrittori d'oggi sieno costretti di adularla, o tenuti di riverirla?

Timandro. Cotesti sono scherzi in argomento grave.

Eleandro. Dunque tornando sul sodo, io non ignoro che gli uomini di questo secolo, facendo male ai loro simili secondo la moda antica, si sono pur messi a dirne bene, al contrario del secolo precedente. Ma io, che non fo male a simili nè a dissimili, non credo essere obbligato a dir bene degli altri contro coscienza.

Timandro. Voi siete pure obbligato come tutti gli altri uomini, a procurar di giovare alla vostra specie.

Eleandro. Se la mia specie procura di fare il contrario a me, non veggo come mi corra cotesto obbligo che voi dite. Ma ponghiamo che mi corra. Che debbo io fare, se non posso?

Timandro. Non potete, e pochi altri possono, coi fatti. Ma cogli scritti, ben potete giovare, e dovete. E non si giova coi libri che mordono continuamente l'uomo in generale; anzi si nuoce assaissimo.

Eleandro. Consento che non si giovi, e stimo che non si noccia. Ma credete voi che i libri possano giovare alla specie umana?

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rale.

Timandro. Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.
Eleandro. Che libri?

Timandro. Di più generi; ma specialmente del mo

Eleandro. Questo non è creduto da tutto il mondo: perchè io, fra gli altri, non lo credo; come rispose una donna a Socrate. Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico. poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi. Ora io fo poca stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al lettore nell' animo un tal sentimento nobile, che per mezz'ora, gl' impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un'azione indegna. Ma se il lettore manca di fede al suo principale amico un'ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò quella tal poesia: perchè altrimenti mi converrebbe disprezzare le più belle, più calde e più nobili poesie del mondo. Ed escludo poi da questo discorso i lettori che vivono in città grandi; i quali, in caso ancora che leggano attentamente, non possono essere giovati anche per mezz' ora, nè molto dilettati nè mossi, da alcuna sorta di poesia.

Timandro. Voi parlate, al solito vostro, malignamente, e in modo che date ad intendere di essere per l'ordinario molto male accolto e trattato dagli altri: perchè questa il più delle volte è la causa del mal animo e del disprezzo che certi fanno professione di avere alla propria specie.

Eleandro. Veramente io non dico che gli uomini mi abbiano usato ed usino molto buon trattamento: massime che dicendo questo, io mi spaccerei per esempio unico. Nè anche mi hanno fatto però gran male: perchè, non desiderando niente da loro, nè in concorrenza con loro,

io non mi sono esposto alle loro offese più che tanto. Bene vi dico e vi accerto, che siccome io conosco e veggo apertissimamente di non saper fare una menoma parte di quello che si richiede a rendersi grato alle persone; e di essere quanto si possa mai dire inetto a conversare cogli altri, anzi alla stessa vita, per colpa o della mia natura o mia propria; però se gli uomini mi trattassero meglio di quello che fanno, 10 gli stimerei meno di quel che gli stimo.

Timandro. Dunque tanto più siete condannabile: perchè l'odio, e la volontà di fare, per dir così, una vendetta degli uomini, essendone stato offeso a torto, avrebbe qualche scusa. Ma l'odio vostro, secondo che voi dite, non ha causa alcuna particolare; se non forse un' ambizione insolita e misera di acquistar fama dalla misantropia, come Timone: desiderio abominevole in se, alieno poi specialmente da questo secolo, dedito sopra tutto alla filantropia.

Eleandro. Dell'ambizione non accade che io vi risponda; perchè ho già detto che non desidero niente dagli uomini e se questo non vi par credibile, benchè sia vero; almeno dovete credere che l'ambizione non mi muova a scriver cose che oggi, come voi stesso affermate, partoriscono vituperio e non lode a chi le scrive. Dall' odio poi verso tutta la nostra specie, sono così lontano, che non solamente non voglio, ma non posso anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono del tutto inabile e impenetrabile all' odio. Il che non è piccola parte della mia tanta inettitudine a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso emendare: perchè sempre penso che comunemente, chiunque si persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia, far comodo o piacere a se proprio; s'induce ad offendere; non per far male ad altri (chè questo non è propriamente

il fine di nessun atto o pensiero possibile), ma per far bene a se; il qual desiderio è naturale, e non merita odio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene. Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere. Finalmente il concetto della vanità delle cose umane mi riempie continuamente l'animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l'ira e l'odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non è conveniente alla tenuità della vita. Dall' animo di Timone al mio, vedete che diversità ci corre. Timone, odiando e fuggendo tutti gli altri, amava e accarezzava solo Alcibiade, come causa futura di molti mali alla loro patria comune. Io, senza odiarlo, avrei fuggito più lui che gli altri, ammoniti i cittadini del pericolo, e confortati a provvedervi. Alcuni dicono che Timone non odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza umana. Io non odio nè gli uomini nè le fiere.

Timandro. Ma nè anche amate nessuno.

Eleandro. Sentite, amico mio. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benchè non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, nè forse anco tepida; non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorchè me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che

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