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mente, non dico un vivo, ma nè anche un vero concetto della eloquenza di Cicerone e di Demostene, nè forse ancora dell' uno e dell' altro uomo, se egli non leggerà le loro Orazioni; e dell' uno, eziandio le lettere. Così d'infinite altre cose: che in vero infinite se ne ritrovano di quelle che o non si potranno aver mai se non dagli stessi scrittori antichi, o sempre si avranno migliori e più dilettevoli dalle fonti, che alcun altro luogo. Onde, potendosi in Italia intendere, non che leggere speditamente, il greco e il latino da tanto pochi, rispetto al numero di quelli che o si dilettano o per qualunque cagione usano di legger libri; perchè negheremo noi che non le convenga anco per la cognizione delle materie, esser provveduta di buone traduzioni dal latino e dal greco: quando nella Germania, ove è tanto minore. il bisogno, è tanto grande la copia dei volgarizzamenti, i quali, siccome essi meritano, così ancora hanno grandissima riputazione? E lo stato dell'Italia in questo particolare è comune alla Francia, e parimente all'Inghilterra oggidì, e in somma a tutto il mondo, salvo solamente la Germania e l' Olanda, e in alcuna proporzione la Svezia e la Danimarca.

Ma quando eziandio stessero così le cose, che ogni persona cólta e gentile, insino alle donne, leggessero latino e greco (cosa tanto vicina alla verità, che ella ci riesce ridicola à immaginarla), tuttavia le traduzioni perfette avrebbero quel pregio che hanno le statue e le pitture eccellenti, che non servono però a nulla. Dico non servono a nulla, per favellare come sogliono i nostri filosofi. Anzi servono esse a dilettare lo spirito: effetto che io non ho mai saputo intendere come non sia utilità. Quasi che l'uomo cercasse o potesse cercare in sua vita altro che il diletto. O quasi che il diletto gli desse tra mani così ad ogni ora. Ma tornando al proposito, io per

me leggo con piacere uguale la Rettorica d'Aristotele nella propria scrittura greca, e nella nostrale del Caro; e non mi par gittare il mio tempo, letta che ho l'una, a leggere ancora l'altra. La quale traduzione del Caro non è però senza difetto; ma ella ha solamente quelli che dava di necessità il tempo: nel quale di greco non sapevasi più che tanto, e i testi degli antichi non si avevano così emendati come si hanno oggi.

Se non che egli è ben lungi che tale sia o mostri voler divenire lo stato nostro, da non potere i volgarizzamenti aver pregio se non nel predetto modo. E io poi sono di opinione che i libri degli antichi, latini o greci, non solo di altre materie, ma di filosofia, di morale, e di così fatti generi nei quali gli antichi ai moderni sono riputati valere come per nulla, se mediante buone traduzioni fossero più divulgati, e più nelle mani della comun gente, che essi non sono ora, e non furono in alcun tempo, potrebbero giovare ai costumi, alle opinioni, alla civiltà dei popoli più assai che non si crede; e in parte, e per alcuni rispetti, più che i libri moderni. Ma questa sarebbe materia di un lungo ragionamento. Ora ascoltiamo Gemisto.

ORAZIONE

IN MORTE DELL' IMPERATRICE ELENA PALEOLOGINA.

Non sarà egli cosa convenevole e giusta il rendere onore di lodi alla madre dei nostri imperatori e duchi, passata novamente di questa vita; o sarà ella questa un'impresa agevole e proporzionata a qual si sia lodatore? Non troveremo però che questa donna, tra quelle che furono collocate in pari grado di fortuna, abbia molte pari; e non sono poche le virtù e gli ornamenti che di lei si possono ricordare. Diciamo, adunque ch'ella fu, di nazione, trace. La nazione dei Traci è antica, e delle maggiori che sieno al mondo: io non dico solamente di quella di qua dal Danubio, le abitazioni della quale si distendono per insino dal Mar Nero all'Italia; ma intendo parimente di quell' altra parte di là dal Danubio, i quali favellano la medesima lingua che questi di qua, e tengono un tratto di paese che va infino all'oceano che è da quella banda, e infin presso a quel continente che per lo estremo del freddo è disabitato: ed anco questa parte è molta, e più assai di quella di qua dal Danubio. Questa gente, per essere animosa e di non rozzo sentimento, non fu senza il suo pregio insino ab antico. Perocchè colui che in Atene instituì quei misteri eleusini, il suggetto dei quali si era l'immortalità dell'anima, fu Eumolpo trace; e da essi Traci è fama che la Grecia apprendesse il culto delle Muse. Ora una gente usata di onorare ie Muse, non

può essere goffa nè incolta; e così una che abbia riti e credenze attenenti alla immortalità dello spirito umano, non può essere d'animo ignobile. Di questa così fatta nazione fu il padre della imperatrice passata poco dinanzi ad altra vita; signore di una provincia di non ispregevole condizione, presso al Vardari, fiume che ha un'acqua delle ottime tra tutte le acque correnti, e delle sanissime da bere; uomo poi di fortezza e di giustizia grande, e di perfetta fede verso gli amici. Nata di sì fatto sangue, la madre dei nostri imperatori e duchi fu sposata al padre di quelli, uomo superiore assai, e per dignità e per fortuna, ai parenti di essa, principe, verso di se, ottimo; e disceso di non pochi principi somiglianti; all'ultimo, imperatore di questa nostra gente romana; della cui antica felicità, e della virtù antica, soverchio sarebbe il favellare, siccome di cose note a una gran parte delle persone; se non che non dovrà essere importuno il dirne per ora questo tanto: potersi malagevolmente trovare che in alcune delle molte repubbliche e monarchie che furono in tutto il tempo di cui si ha memoria, concorressero sì fattamente insieme tante virtù e tanta felicità, e durassero per tanto spazio, quanto nell'antica repubblica dei Romani.

Ebbe adunque primieramente l'imperatrice di cui diciamo ora le lodi, questa felicità: che nata di genti buone e valorose, ed oltre a ciò non ignobili, fu sortita ad un maritaggio molto superiore allo stato suo, sposata all'imperatore dei Romani, che poco avanti, per la morte del padre, era pervenuto all'impero. Da questo innanzi non andarono le sue felicità senza la mescolanza dei lor contrari, atteso gli assedi gravi e difficili che ci bisognò sostenere dai Barbari, e massimamente quell'assedio lunghissimo e pericolosissimo che la città nostra ebbe a patire non molto dopo la venuta all'imperio del nuovo prin

cipe. Ma l'imperatrice, per sua virtù, fu veduta portare l'una e l'altra fortuna con grandissima moderazione: non perdersi di cuore nelle cose avverse, non si lasciare enfiar dalle prospere; ma serbare il suo convenevol modo in ambedue le condizioni dei tempi. Perciocchè ella era donna di conoscimento e di fortezza d'animo più che da femmina; siccome di castità non cedeva il pregio a Penelope. E la rettitudine ancora non fu in lei compiutissima? certo noi sappiamo ch'ella mai non fece male ad alcuno, e che per contrario fece bene a molti e molte. E in che altro si può dir che consista la rettitudine più propriamente, che in non far pregiudizio, di volontà nostra, a chicchessia, e far bene a più che si può? Ancora ebbe ella, tra molte altre felicità, questa grandissima: che ritrovandosi madre di molti figliuoli e valenti (e di questi, alcuni imperatori, altri duchi e collocati nei gradi prossimi all'autorità imperiale), tutti gli vide concordi per lo più tra loro; e se talvolta per avventura v'accadde alcuna dissensione, mai non li vide scorrere a cose estreme, secondo che suole avvenire spesso tra principi e potentati uguali; anzi, come a dir, senza alcuno strepito, comporre ogni differenza.

Questa donna di tanta bontà e virtù, e tanto, nella più parte delle cose, bene avventurata, in età non matura, si parte al presente da questo secolo. E io non dirò veramente che sia cosa agevole a portar questo caso senza dolore alcuno. Perocchè ancora delle altre separazioni scambievoli e delle partenze che si fanno in questa vita nostra, e più quando elle sono credute essere per più lungo tempo, sogliono gli uomini per natura attristarsi: siccome quelli ai quali diletta più l'usar da vicino e presenzialmente colle persone care, onde non senza ragione, dall'altro lato, l'avere a dipartircene ci riesce duro e acerbo. Ora egli si conviene però avere questa

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