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mai più, da quell'ora innanzi, la faccia della signoria

vostra.

Sole. Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile; ma che tu per conto di questa impresa, a quel ch'io posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere più sicuro, prendi questo partito; il libro che tu scriverai a questo proposito, dedicarlo al papa (57). In questo modo, ti prometto che nè anche hai da perdere il canonicato.

DIALOGO

DI PLOTINO E DI PORFIRIO.

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide; e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.

Plotino. Porfirio, tu sai ch' io ti sono amico; e sai quanto e non ti dèi maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perchè nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.

Porfirio. Come che vuoi tu dire?

Plotino. Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e tu non dovresti aver a male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni: tu sfogherai l'animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; chè io merito da te questo e in ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.

Porfirio. Io non ti ho mai disdetto cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benchè l'animo mio ci ripugna molto, perchè queste tali deliberazioni pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri ami di essere solitaria e ristretta in se medesima più che mai; pure io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto mio, ma

tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi, tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza, sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri son tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell' animo, per lo più è vano: perchè se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la quale nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata sul falso. E si può dire che, essendo tutto l'altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.

Plotino. Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo adesso considerare il fatto che tu vai disegnando: dico, considerarlo più strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone, come tu sai, che all' uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.

Porfirio. Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, comentare, difendere certe opinioni nelle

scuole e nei libri, ed altra è seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poichè tale è l'usanza oggi nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino. So che egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita avvenire, acciocchè gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità future, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia, e dalle altre male opere (58). Che se io stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi e di queste credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell' universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità. Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte: la quale, da coloro che non molto usassero il discorso dell' intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, l'aspettazione e il pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione che si veggano gl' infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta; e rifuggire coll' animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in

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