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montana. Dopo alcuni tocchi mirabili di Dante, il Petrarca ascende per primo il monte Ventoux nella dolce Provenza; precursore di quel senso moderno della poesia alpina, ond' esce tutta una letteratura che celebra i sublimi spettacoli delle eccelse montagne: dal Rousseau, mirabili descrittore delle alpi della Savoia, al Wordsworth che canta il passo del Sempione, al Byron che là sui gioghi nevosi della Jungfrau fa parlare a Manfredo lo spirito delle alpi, al divino Shelley inneggiante al monte Bianco, fino a Lamartine e a Vittor Hugo che canta ciò che si sente sulla montagna, e al Carducci, il poeta di Gressoney e del Cadore.

Or qui è manifesto che un soggetto nuovo è acquisito all'arte, perchè si è destato o affinato un senso, un organo nuovo della percezione artistica; perchè si è formata quasi una seconda vista delle cose, che per l'anima hanno voci nuove e diverse e parlano un linguaggio inesauribile e finora inaudito.

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Nel suo mirabile saggio sulla poesia nativa e la poesia sentimentale, lo Schiller distinse due grandi epoche nella storia della poesia, che designò con quei due nomi. Con qualche modificazione e ritocco, quella distinzione riman sempre vera: e per la storia dell' umanità in generale, e, ciò lo Schiller non vide, anche per la poesia dei popoli classici, la quale nel suo declinare volge ad una sentimentalità romantica che fa presentire l'età moderna. Perchè alla coscienza che s'aflinava nell'avanzare della cultura, la natura dava voci e sensi nuovi. Certo, anche la figura esterna del paese si riflette nell' indole diversa dei popoli, e coIora variamente la parola della poesia. Come la forte mitologia scandinava e Germanica è lontana dalla leggiadria del mito greco, così il senso della natura d'un poeta

nordico è tanto diverso da quello d'una poesia che fiorisca, come la palma, nel sole dei paesi meridionali, quanto la solitaria stanza ove medita il Dottor Fausto è lontana dai luminosi portici delle palestre e dei ginnasi d'Atene ove si aggira Socrate coi suoi giovani discepoli. Nè si può dubitare che lo spettacolo solenne e sublime dei deserti interminati e delle alte montagne dell' Asia dovesse suggerire un' idea religiosa e una mitologia colossale e gi gantesca nelle proporzioni e nelle forme, ben lontana da quella che ispirava la mite e varia e armoniosa natura dell' Ellade, e dell' innumerabili isole che fioriscono il suo gemino mare; ove l'immensa divinità asiatica si moltiplicò in una moltitudine di dèi, quasi raggio di luce che si franga in un prisma iridescente. Ma oggi quell'esterna natura è sostanzialmente immutata, e nondimeno quel mondo di poesia è dileguato per sempre, perchè spenta è l'anima che vivificò quelle forme, e creò quella giovanile civiltà luminosa e gioconda.

Ben altra ala della mia ci vorrebbe a spaziare nelle antiche letterature d' Oriente, per illustrare adeguatamente. quel senso di tenera, confidente animazione della natura che sopra un fondo panteistico spira da alcuni inni vedici e da alcuni drammi indiani, da alcuni episodi del Sakuntala o dell' Urwasi, o a ragionare delle grandiose descrizioni naturali di alcuni Salmi e del sublime libro di lob, ove il concetto monoteistico tanto rimuove la divinità dal mondo, che nel cospetto di Iahvéh altissimo questo si risolve in pulvis et umbra. Ma chi guardi alla giovinezza eroica dell'umanità che s' irradia nella civiltà ellenica, il sentimento. della natura gli appare come spirante da tutta la stupenda creazione estetica del mito, della leggenda eroica e divina, ove ogni aspetto o fenomeno della natura è ancora avvolto dalla fantasia giovanilmente creatrice nelle forme plastiche e stupende di quella moltitudine di dèi che quasi più degli umani popolarono quell' incantato paese. I miti di Afrodite Amatuntea e di Dioniso, di Demetra e di Ar

temide, di Eco e di Narcisso, dei fauni e silvani e delle ninfe che abitavano i boschi, le fonti romite, le valli sonanti, le cime impervie dei monti e le profondità cerulee dei mari, sono come una fioritura primaverile di quell' intima simpatia antropomorfica colla natura. Il significato colto nel volo o nel canto degli uccelli, nel mormorare dei fiumi, nel fremer dei venti, la comunione colla vita delle piante e degli animali, ecco i moti e le vie onde si effonde il senso delle cose e quel profondo istinto d'animazione onde balza la viva forma del mito antropomorfo. Chi disse (e furon molti da Federico Schiller fino al Gervinus e al Du Boys-Reymond) che ai Greci mancasse il senso del paesaggio, non seppe distinguere della sentimentalità passionale di noi moderni quel sentimento spontaneo ed istintivo che è proprio d'un popolo il quale vive come immerso nella natura; e in una natura, non uniforme e gigantesca quale è quella che opprime l'anima dell' orientale, bensì, per la sua forma, armoniosa e svariatissima nei suoi aspetti; dalle vette nevose del Pindo e dell' Olimpo fino alle sinuose rive della Messenia e dell' Attica, e alle innumerevoli isole disseminate nel talamo marino ove la sacra Ellade si adagia.

Più equo giudizio parve formasse lo Schiller medesimo in altro suo scritto asseverando che i Greci furono non tanto indifferenti alle bellezze dell' esterna natura, quanto schivi di ritrarle nelle opere loro; e l'Humboldt il quale, pur pensando che i Greci ammirassero non men dei moderni il bello fisico, giudicava nell' arte loro il genere descrittivo apparire come alcunchè di accessorio e di secondario dinanzi all' uomo e alle sue passioni, oggetto vero dell' arte classica. Poichè veramente i rapidi e vi

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1 SCHILLER. Ueber die aesthetische Erziehung des Menschen, Leipzig, 1875; cfr. il Morz, Ueber die Empfindung der der Naturschönheit bei d. Alten, Leipzig, 1875.

2 Lo SCHMIDT, nel suo libro Die Ethik der Alten Griechen (11,

vidi tocchi, più veramente suggestivi che descrittivi, di scene naturali abbondano nella letteratura greca del periodo classico; dall'isola dei Feaci e dalla grotta di Calypso nei poemi omerici, da alcuni cenni di Alceo e di Saffo e delle odi anacreontiche, al bosco delle Eumenidi e alle fonti insonni dell' Edipo di Sofocle, al canto degli uccelli, sonante nei boschi profondi, che Aristofane riproduce con mirabile evidenza, all' isola dei Beati intorno a cui spirano le molli e tepenti aure oceanine e all' Etna altrice di acuti ghiacci, all' eclisse solare che Pindaro descrive, ai platani che adombrano le rive dell' Ilisso, nella descrizione che ne fa il Fedro platonico.

Ma già nel dramma d'Euripide e di Aristofane cominciava a spirare quell' aura di desiderio vago della natura o di quel senso idillico della vita campestre che più tardi nel periodo alessandrino apre l'epoca della sentimentalità romantica e pastorale della natura, lontano preludio del sentimento lirico moderno. Il contrasto vivamente sentito fra la vita delle grandi città e la campagna, l'avanzare delle scienze della natura, segnatamente della botanica, la cultura raffinata dei giardini, il desiderio della solitudine nella dissoluzione della libertà e

pag. 85, 1882), parlando del sentimento della natura presso gli antichi, osserva che la questione è mal posta, perché si scambia il senso del passaggio (che significa il senso di una grande scena) con quello della natura, cioè degli oggetti particolari della sua vita, che essi, i greci, pure largamente sentirono, come prova già la varietà dei culti politeistici. Ora io non so se agli antichi mancasse il senso della grande natura, come pare voglia dire lo Schmidt. E che altro è la filosofia greca, specie nell'età presofistica e nel periodo post-aristotelico se non una grande intuizione della natura? Il poema di Lucrezio non è un grande inno alle sue divine e grandiose virtú e alla sua vita universa?

1 PINDAR. Fragm. 107, cfr. il Supplementum Lyricum, neue Brusstücke von E. Diehl (nella collez. Kleine Texte für theol und Philol. Voslesungen, herausg. von Lietzmann, n. 33-34, Bonn, 1908, pag. 28 seg.

degl' istituti politici, l'istinto di animazione riflessa delle piante e degli alberi, la poesia dei sepolcri, segnano i caratteri dell'età ellenistica; ond' esce l' idillio siracusano e l'elegia di Callimaco, e nell' arte della pittura decorativa quei piccoli e deliziosi paesi, prodotti dell' arte ellenistica che infiorano quasi le pareti pompeiane, cosi bene studiati dopo l' Helbig, che talora stranamente ci ricordano nella loro vivezza, e direi nella tecnica del rapido ed agile tocco pittorico, i piccoli quadretti dei grandi maestri olandesi.

E dalla poesia alessandrina questo senso romantico della natura passa nella letteratura romana. Se non che il genio latino vi porta due elementi nuovi: il sentimento religioso delle origini, quell' horror sacro che dà voci solenni in Lucrezio e in Virgilio, e quel colorito che viene alla poesia dei campi, dall' indole agreste delle antiche e rudi popolazioni italiche. Ed ecco tutta una grande e musicale sequela di mirabili quadri della natura nella poesia latina. O sia la solenne invocazione a Venus di Lucrezio, forse il più grande inno alla natura rinascente che abbia mai sciolto anima di poeta; o canti Orazio la fonte Bandusia più tersa del cristallo, e l'ombra ospitale che consertano il pino e il bianco pioppo, sotto cui tremolando scorre la linfa fugace; o canti Catullo la dolce isola di Sirmio, e i tepori del disgelo primaverile che mettono addosso la smania del viaggiare a nuovi lidi; o suoni la mite, agreste elegia di Tibullo, e fra gli armenti e fra i campi echeggi idillicamente serena, l' ecloga e la poesia georgica e il largo sentimento virgiliano del mare tempestoso o sereno nell' Eneide di Vergilio; di lui che un'altra congeniale anima di poeta, il Tennyson, chiamava giustamente il poeta paesista (landscape-lover).

Questo mite culto della natura, fra il religioso e il ro

È merito del Biese l'aver, meglio d'ogni altro, rilevata codesta trasformazione del sentimento della natura nell'età alessandrina.

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