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Ugo Capeto rammenta quindi ancora i nomi di Accam, di Safira, di Eliodoro, di Polinestore, di Crasso, a cui i Parti ch'egli avea altra volta spogliati, fecero, per feroce vendetta, trangugiar oro, dicendogli:

Crasso,

Dicci, che'l sai, di che sapore è l'oro.

Ora, un Dante avaro, nel senso comune della parola, noi non ce lo sapremmo, in alcun modo, immaginare, come abbiamo invece molti segni evidenti d'un

ante superbo ed iroso, ed alcuni di un Dante lussurioso, per sua propria confessione, quando egli s'accinge a prender Gerione, come talvolta egli soleva prendere la lonza lasciva e perfida. Ma un Dante avido di molte ricchezze e scialacquatore, quando, nella sua gioventù, amava farsi grande e competere coi grandi, per largheggiare come Cesare, non è punto inverosimile. Anzi, a me pare quasi evidente, quando egli, nel Purgatorio, ci fa apparire Stazio, e, in quell'incontro, nel luogo dove gli avari e i prodighi pentiti fanno penitenza, finge che, improvvisamente, la montagna tremi, dopo una maledizione alla lupa vorace, che qui non è più la sola corte di Roma, ma il male universale dell'avarizia, quello che, nel mondo, da tutti i tempi e in ogni luogo, fa il maggior numero di vittime:

Maledetta sie tu, antica lupa,

Che, più che tutte l'altre bestie, hai preda,
Per la tua fame, senza fine, cupa.

Dopo questa maledizione, segue una dolce laude di Maria, di cui si esalta specialmente la povertà:

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Lo stesso penitente Ugo Capeto avea già lodato la semplicità dell'onesto e povero Fabrizio romano:

... O buon Fabrizio,

Con povertà volesti anzi virtute,

Che gran ricchezza posseder con vizio.

Dante torna ancora a parlare con grande ammirazione di Fabrizio, nel Convito e nel De Monarchia; ma qui, nel ventesimo canto del Purgatorio, proprio dopo averne udite le lodi, soggiunge ancora:

Queste parole m'eran si piaciute,

Ch'io mi trassi oltre, per aver contezza

Di quello spirto onde parén venute.

Quando Ugo Capeto finisce di parlare, la montagna trema:

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Poi cominciò da tutte parti un grido,
Tal che'l maestro invêr di me si fèo,
Dicendo: non dubbiar, mentr' io ti guido.
Gloria in excelsis tutte, Deo,

Dicean, per quel ch'io da vicin compresi,
Onde 'ntender lo grido si potèo.

Noi ci restammo immobili e sospesi,

Come i pastor' che prima udîr quel canto,
Fin che 'l tremar cessò, ed ei compièsi.

Dopo che il tremuoto cessa, e il canto, simile a quello che intesero i Pastori di Betlemme, quando nacque Cristo redentore, si compie, Dante, non osando domandare spiegazione di quel fenomeno strano, procede in silenzio timido e pensoso, quando appare Stazio, quale un'ombra, come Cristo, ai due viandanti che andavano verso Emmaus, dicendo:

Frati miei, Dio vi dea pace.

Stazio spiega che, per avere avuto (come ha Dante) un buon proponimento di mutar vita e di salire più su, verso il Cielo, liberato alfine da ogni segno di peccato, la montagna tremò. Ora a me sembra di sentire. in questa spiegazione di Stazio, come un avviso, un presagio della prossima ascensione di Dante stesso, pentito e purificato dalla lebbra dell'avarizia, o cupidigia dell'oro, accompagnata da prodigalità, al Cielo. Stazio ci appare, sulla soglia celeste dell'Anti-Paradiso, ch'è il Paradiso terrestre, come già Catone sulla soglia dell'Anti-Purgatorio, quasi un riflesso, uno specchio morale di Dante, un suo sdoppiamento ideale. Al punto in cui l'anima virtuosa di Dante, sta per inalzarsi a Dio, incontra Stazio, che Dante crede cristiano; perciò gli fa dire, rivolto a Virgilio, profeta di Cristo:

Facesti come quei che van di notte

E porti il lume dietro e a sè non giova,
Ma dopo sè fa le persone dotte;

Quindi dicesti secol si rinnova

Torna giustizia e primo tempo umano
E progenie scende dal ciel nuova;
Per te poeta fui, per te cristiano.

Ma, secondo la tradiziene medioevale, Stazio era stato un cristiano celato; anzi, si dice che, battezzato egli, come Sant Eustazio, si tenesse nascosto; ma che, sorpreso, al tempo di Domiziano, persecutore de' Çristiani, nel suo segreto, non volendo rinnegare la fede, morisse poi martire, e perciò meritasse di venire compreso tra i santi. La Tebaide di Stazio era molto diffusa nel medio evo; era pur nota l'Achilleide: meno assai le Selve; ma, forse si aveva pure una vaga notizia di un poeta silvestre, di uno Stazio autor di Selve, o vissuto nelle selve, e che era uscito, dalle selve, cristiano. Questo importa avvertire, per rendersi conto del carattere leggendario che prese quindi, per un equivoco

nato fin dai primi secoli del cristianesimo, la figura di Stazio. La confusione leggendaria, nel medio evo, fu tanta, che in un libro monoscritto, De vita et moribus philosophorum, si narra che Stazio ebbe due figli, dei quali l'uno si chiamò Achimenide (l'Achilleide) e l'altro Tebaide. Forse si può anche notare con Arturo Graf, che, in due versi della Tebaide, a crescere la persuasione che Stazio fosse cristiano, si trova già riprovata l'idolatria:

Nulla autem effigies, nulli commissa metallo

Forma dei, mente habitare et pectore gaudet.

Ma la vera ragione per cui Dante chiama Stazio "il buon Stazio, e per cui ne fa un ricco prodigo, non fu ancora avvertita fin qui, mentre che mi pare invece evidentissima. Il buon Stazio dantesco che s'è fatto cristiano, si è confuso semplicemente con Sant'Eustazio, suo quasi contemporaneo, che avrebbe vissuto e sarebbe morto per la fede, al tempo di Traiano o di Adriano, come si fa vivere e morire, per la fede, Stazio. Il culto di Sant'Eustazio, cacciatore silvestre, morto martire in Roma, sarebbe stato riconosciuto da papa Silvestro; San Silvestro, o Costantino il Grande avrebbe pure fatto erigere una chiesa alla Vergine Deipara presso la rupe di Sant'Eustachio, a Guadagnolo, tra le selve, fra Tivoli e Palestrina, dove sarebbe apparso Cristo in forma di cervo con una croce tra le corna; e questa croce tra le corna d'un cervo si vede ancora sulla chiesa romana di Sant'Eustachio. In una antica tavola medievale attribuita a un maestro Guglielmo, e riprodotta dai Bollandisti, che Dante potrebbe pure aver veduta, si scorgeva San Silvestro fondatore della chiesa della Vergine, e accanto ad esso un cervo, tra le corna del quale si vede la figura di Sant'Eustazio od Eustachio. Il nome latino e greco cristiano di Sant'Eustachio, è Eustathios, Eustatius. In

Dispensa 14.

greco la parola Eu-stathios significherebbe bene stante e costante, e si volle riferire alla costanza nella fede cristiana, di questo ricco gentiluomo, che Dio volle provare come Giobbe; nel nome latino Eustatius si vide una forma ibrida greco-latina, e perciò un buon Stazio. Negli Acta Sanctorum onde appare pure che il nome di Eustachio, prima del battesimo, fu Plakidas, quello di sua moglie Traiana o Taziana cambiato, dopo il battesimo, nel nome di Theopista, quello dei due figli Theopisto e Agapio, abbiamo varie leggende di Sant'Eustazio tutte più o meno varianti cristiane della leggenda biblica di Giobbe, di cui il sunto è questo: “ Plakidas era un valente capitano (stratêlátês), che andava innanzi a tutti per opulenza e fortuna; egli aveva molti possessi tra i monti della Sabina; era buono, generoso, prodigo; faceva molte elemosine, distribuiva danaro con molta larghezza a tutti i bisognosi, ma seguiva poi la religione idolatrica. A Dio increbbe assai che un uomo così buono divenisse preda del diavolo, ed, essendo Plakidas gran cacciatore, un giorno in cui, con grande compagnia, egli s'era recato alla caccia del cervo, gli apparve in una prateria un gregge di cervi pascolante, e tra questi, un cervo più alto degli altri, che portava tra le corna una croce fulgidissima; il cervo parlò allora con voce umana, e disse a Plakidas: "Perchè tu mi cacci? Io sono Cristo. Plakidas si pose in ginocchio ad adorarlo; allora Cristo lo esortò, perchè, essendo egli buono, non solo cessasse di servire il demonio, ma si recasse a Roma dal papa per farsi battezzare. Plakidas prese allora il nome di Eustazio, ricevendo insieme con sua moglie e con due suoi figli il battesimo. Ritornato quindi alle sue selve, Cristo gli riapparve sulla rupe, per avvertirlo ch'egli dovea abbandonare tutte le sue sostanze, volendo Dio provarne la costanza, come di un altro Giobbe. Egli deve prima andarsene in esiglio, perdere tutto, separarsi dalla propria moglie che cadrà in mani straniere, e dai

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