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Gli effetti della scabbia sono dal Poeta resi, con una evidenza mirabile, nel XXIX dell' Inferno:

E non vidi giammai menare stregghia
A ragazzo aspettato dal signor-so,
Nè a colui che mal volentier vegghia,
Come ciascun menava spesso il morso

Dell' unghie sovra sè, per la gran rabbia
Del pizzicor che non ha più soccorso.
E si traevan giù l'unghie la scabbia,
Come coltel di scardove le scaglie,

O d'altro pesce che più larghe l'abbia.

Forse Dante stesso, ne' suoi lunghi viaggi, talora disastrosi, per monti e piani, con passaggi frequenti dal caldo al freddo, dal freddo al caldo, avrà sperimentato il dolore e la smania di quell'irritazione alla pelle, che richiede veramente l'uso della striglia, per ottenerne sollievo.

Così il poeta ramingo dovette attraversare più che una volta luoghi malsani e paludosi, e ricordarsene poi, come del pantano intorno a Mantova, descritto nel XX dell'Inferno:

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Fino a Governo, dove cade in Po;
Non molto ha corso, chè trova una lama
Nella qual si distende e la impaluda. 1
E suol di state talora esser grama.

Dante si distende pure e torna spesso, nell'opera sua, sopra le varie forme de' patemi d'animo; così non gli sfugge come l'eccesso del dolore possa talora condurre

1 Cosi nel XXIX dell'Inferno, ci rappresenta gli effetti micidiali delle Maremme Toscane e Sarde:

Qual dolor fora se degli spedali

Di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
E di Maremma e di Sardegna i mali
Fossero in una fossa tutti insembra,
Tal era quivi; e tal puzzo n'usciva
Qual suole uscir dalle marcite membra.

a pazzia; vede, perciò, il suo Mosca Lamberti, nel XXVIII dell'Inferno, andar via come un pazzo:

accumulando duol con duolo,

Sen gio come persona trista e matta.

Anche del mal d'occhi Dante s'è occupato; e non solo egli distingue, nell'Inferno, i presbiti, che vedono le cose lontane e non le vicine:

Noi veggiam come quei ch'ha mala luce,

Le cose, disse, che ne son lontano;
Cotanto amor ne splende il Sommo Duce;
Quando s'appressano, o son, tutto è vano
Nostro intelletto; e s'altri, non ci apporta,
Nulla saprem di vostro stato umano, 1

ma, nel III del Convito, egli trova pure il modo di indicare un espediente provato da lui stesso, e già da noi citato, per la malattia degli occhi, dopo avere esposta. largamente tutta la sua dottrina sopra la virtù visiva.

In quel passo, ritroviamo facilmente Dante già medico di sè stesso, prima del suo esilio, nel tempo in cui egli attendeva con maggior fervore agli studi. E questo esempio, con alcuni altri diffusi nell'opera dantesca così varia e, per tanta parte, così suggestiva, ci mostra meglio come non dovesse punto essere accidentale la scelta dell'arte de' medici e speziali fatta dal poeta, quando egli si determinò ad entrare nella vita pubblica fiorentina.

Essendo poi la medicina arte di vita, Dante, profondo osservatore della natura umana, a questa disciplina pose principale attenzione, dovendo parergli, come già agli antichi sapienti, che la salute del corpo fosse buon fondamento a quella dell'anima, e necessario strumento di quella perfezione morale, ch'egli considerava, col suo maestro Aristotile, principale autrice e fondatrice dell'umana felicità.

1 Inf., X, 100.

LEZIONE DECIMA

Le condizioni economiche di Dante in patria
Nuovo idillio amoroso - I debiti di Dante.

Nella vita d'ogni scrittore, de' grandi come de' piccoli, ma, più significativamente, dei grandi, per quanto, negli uomini di studio, le cure ideali debbano soverchiare le materiali, ha sempre avuto una parte essenziale la sua condizione economica. Di essa si risente spesso l'opera letteraria; e molte opere d'arte non furono forse condotte a quella perfezione di cui l'ingegno dell'autore le avrebbe rese capaci, se non solo l'ambiente in cui visse, ma i mezzi di fortuna l'avessero secondato, perchè la necessità di provvedere ai bisogni urgenti della vita, o gli affanni che tolgono ogni tranquillità allo spirito, impedirono, più che una volta, quella calma e serenità, senza le quali anche l'estrinsecazione artistica del nostro pensiero può trovarsi perturbata e confusa. Chè, se, talora, un animo e intelletto superiore può astrarsi per modo da ogni meschina e dolorosa realtà, da trovarsi come rapito fuori del mondo qual'è, per librarsi in alto, e vagheggiare, sopra le idee volgari, un fantasma ideale che gli appare divino, questi esempî, nel porci innanzi ad artisti veramente privilegiati e capaci di farci vedere miracoli, non esclude tuttavia, che ammettiamo come, anche in questi casi, o per ragione di contrasto, in seguito ad una lotta secreta, tra lo spirito vittorioso e la materia, vinta e domata, il

primo impulso a sublimarsi venne da una ribellione contro la natura resistente o contro la fortuna avversa, e che perciò l'ambiente, come la condizione economica, ha una parte notevole nell'esito finale di un'opera artistica o letteraria.

Di queste intime lotte nessuno potrebbe fare sicuramente una storia ben documentata; ma, ove si potesse fare, si troverebbero talora molte ragioni d'arte che altrimenti ci rimangono inesplicabili. In ogni modo, non mi pare che sia lecito escludere, studiando la vita di Dante, ogni indagine sopra i suoi beni di fortuna, per rendersi conto non solo di certi suoi atti pubblici, ma anche di alcuni suoi accenti ed atteggiamenti artistici.

Noi abbiamo già accennato, rappresentandoci Stazio, come un adombramento di uno de' numerosi aspetti ne' quali Dante suole, per mezzo di un'arte sovrana, rivelarsi, alla cura che l'Allighieri, nella prima età, ebbe, forse, soverchia della ricchezza. Ora, dobbiamo esaminare, con l'aiuto di alcuni documenti, come (i beni paterni, materni e quelli dotali di Gemma non bastando già più a mantenere la figliuolanza che cresceva e il decoro necessario, per sostenere nella repubblica i più alti uffici), nel 1297, sia stato necessario a Dante indebitarsi gravemente; come, infine, la sua condizione di esule, lo abbia, ridotto a povertà quasi estrema, obbligandolo perciò, nel bisogno, a cercar lavoro, mendicando, come il suo Romeo, la vita a frusto a frusto.

1

Delle case antiche che possedevano gli Allighieri nella parrocchia di San Martino detto del Vescovo, in

1 Una sola volta (nel XXV del Purgatorio) Dante adopera la parola bisogno, ma non nel senso di stento, di difetto di sostanza; ma, con immagine realistica, egli ci rappresenta la fretta di chi è spinto da un bisogno naturale a correre, senza curarsi d'altro:

Perchè, come fa l'uom che non s'affigge,

Ma vassi alla via sua, checchè gli appaia,
Se di bisogno stimolo il trafigge.

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