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LEZIONE DODICESIMA

Gli Amici di Dante (nell' Esilio).

Sereniamo ora la mente nel pensiero degli amici che Dante seppe farsi e mantenersi fedeli, come già sentimmo alcun disagio, quando seguimrao il Poeta negli eccessi iracondi contro i suoi nemici personali.

È sempre più gran signore chi ama che chi odia; l'odio fa male, scriveva a me, quasi moribondo, un grande odiatore dell'età nostra, Francesco Domenico Guerrazzi; il governo dell'ira richiede maggiore grandezza, che non sembri darne segno lo sfogo di essa. L'odio poi è quasi sempre sterile, o capace soltanto di male; l'amore solo è fecondo, e, quando è vero e forte amore, provvido sempre e benefico.

Già vedemmo come Dante sia stato, nel pensiero di Beatrice, a malgrado di qualche vagabondaggio, il più sublime ed amoroso degli amanti; ma, tutta la sua affettività egli non riportò poi esclusivamente sopra la donna; egli senti, pure, in modo superiore, l'amicizia, e quella stessa virtù che riponeva nella gentilezza di un amore sovrano, la riconobbe pure, nella vera e forte amicizia. Ciò che Dante pensasse dell'ami

Dispensa 38.

cizia, lo possiamo rilevare specialmente dalle pagine del Convito, ove egli ne discorre spesso; e, sebbene la sua prima dottrina sia quella stessa di Cicerone e di San Tommaso d'Aquino, appare poi sempre originale il modo in cui le idee altrui, passando per l'anima di Dante, si trasformano e si accrescono in un sentimento

nuovo.

Nell'ottavo capitolo del primo libro del Convito, sta

scritto:

"L'operazione della virtù per sè dee essere acquistatrice d'amici; conciossiacosachè la nostra vita di quelli abbisogni, e 'l fine de la virtù sia la nostra vita essere contenta. 22

L'amicizia dunque, nel pensiero di Dante, è un bisogno dell'uomo; ma egli ripete ancora, dall' Etica di Aristotile, nel quarto libro del Convito (cap. 25), che "noi non potemo avere perfetta vita senza amici.

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Se non che, tra le amicizie, soggiunge quindi che le meglio fondate sono quelle che nascono nella prima età: "la maggior parte dell'amistadi si paiono seminare in questa età prima, perocchè in essa comincia l'uomo a essere grazioso, ovvero lo contrario; la qual grazia s'acquista per soavi reggimenti, che sono dolce. e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire e operare. „

Il significato di queste brevi parole è alto e profondo e merita di essere lungamente meditato.

"Dolcemente e cortesemente parlare, dolcemente e cortesemente servire e operare, ecco, in questa sola sentenza di Dante, un intiero capitolo di etica inspiratrice, che giova non solo come buona guida ad acquistare virtuose amicizie, ma anche a mantenerle.

Noi abbiamo inteso, nell' Inferno, le parole dell'odio: ma, leggendo il Purgatorio e il Paradiso, sentiremo tutta la dolcezza che insinuò nell'animo di Dante il grande affetto per gli amici.

Come Dio, con le sue grazie, si fa amiche le anime (Par., XXV, 90):

Dell'anime che Dio s'ha fatte amiche,

Dice Isaia che, ciascuna vestita

Nella sua terra, fia di doppia vesta

E la sua terra è questa dolce vita!

Cosi Dante alludendo nel XVII del Paradiso alla cortesia e liberalità del Gran Lombardo, Bartolomeo Della Scala, di cui, ne' primi anni dell'esiglio, era divenuto amico, lo mostra quasi, a suo riguardo, nello stesso aspetto della provvidenza divina, la quale concede le grazie prima che chieste, ai prediletti:

Lo primo tuo rifugio e 'l primo ostello
Sarà la cortesia del gran Lombardo
Che 'n su la scala porta il santo uccello;
Ch'in te avrà sì benigno riguardo

Che del fare e del chieder, tra voi due,

Fia primo quel che tra gli altri è più tardo.

Ma Dante ritiene che uno dei primi doveri dell'amicizia virtuosa sia il consigliar bene l'amico; perciò, anche s'egli teme alcun danno futuro, vuole che Cacciaguida suo trisavolo lo scorti de' suoi savii consigli nella via lunga e dolorosa del minacciato esiglio:

Io cominciai, come colui che brama,
Dubitando, consiglio da persona

Che vede e vuol dirittamente ed ama.
Ben veggio, padre mio, si come sprona
Lo tempo verso me, per colpo darmi
Tal ch'è più grave a chi più s'abbandona;
Per che di provedenza è buon ch'io m'armi,
Si che, se luogo m'è tolto più caro,

Io non perdessi gli altri, per miei carmi.

Quando Dante si faceva predir l'esiglio da Cacciaguida, continuando la finzione della visione avuta nella primavera dell'anno 1300, egli aveva già scritto e divul

gato, nella sua prima forma, la cantica dell' Inferno. la quale forse, per l'odio che vi si scatena, gli aveva accresciuto il numero de' nemici, rendendoli a sè più fieri. e forse pure tutta la cantica del Purgatorio, dove l'odio già si tempera e s'acqueta nel desiderio più intenso e nell'estrema speranza di trovare ancora dolce ed onorato ricovero nella patria diletta! Ma svanita, a quanto pare, dopo l'anno 1316, ogni speranza di ritorno in patria, dove, per essere ricevuto in grazia, il Poeta avrebbe dovuto umiliarsi e ricever nota d'infamia, Dante, nel presentimento della sua immortalità, non solo non si mostra disposto a rinnegare nulla di quanto ha già scritto, ad eterna vergogna de' suoi nemici, ma, contrariamente a quanto si era fatto dire dall'umiliato Oderisi da Gubbio, nel Purgatorio, intorno alla brevità delle fama, si fa pur crescere coraggio da Cacciaguida, altra anima sua, nel divino poema, per proseguire a dire altamente il vero, ormai sicuro che il tempo, gran giustiziere, sarà per dargli intieramente ragione. Quindi, arditamente, levando sè sopra sè stesso, prosegue:

Giù per lo mondo senza fine amaro
E per lo monte del cui bel cacume
Gli occhi della mia donna mi levaro,
E, poscia, per lo ciel, di lume in lume,
Ho io appreso quel che, s'io ridico,
A molti fia savor di forte agrume.
E, s'io al vero son timido amico,

Temo di perder vita tra coloro

Che questo tempo chiameranno antico.

Allora Cacciaguida, ombra e coscienza avita di Dante stesso, sorride divinamente, e si accende di più vivo splendore, quasi a far chiara la gloria futura del suo pronipote:

La luce in che rideva il mio tesoro,
Ch'io trovai lì, si fe' prima corusca,
Quale a raggio di Sole specchio d'oro;

Indi, rispose! Coscienza fusca,

O de la propria o de l'altrui vergogna,
Pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
Tutta tua vision fa manifesta,

E lascia pur grattar dov'è la rogna.
Che, se la voce tua sarà molesta,

Nel primo gusto, vital nutrimento
Lascerà poi, quando sara digesta;
Questo tuo grido farà come l vento,
Che le più alte cime più percuote;

E ciò non fia d'onor poco argomento.

A queste magnifiche note paradisiache, possono essere buon corollario parecchie sentenze del Convito. Nell'ottavo capitolo del primo libro, come dicemmo, Dio benefica ogni creatura al modo stesso del Gran Lombardo, che previene il desiderio di Dante profugo e suo ospite: "Puotesi la pronta liberalità in tre cose notare... la prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, senza essere domandato il dono, dare quello. Chè dare e giovare a uno è bene; ma dare e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza da' benefici di Dio, ch'è universalissimo benefattore. Ancora dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sè essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto; come quando un cavaliere donasse a un medico uno scudo (per difendersi in guerra), e quando il medico donasse a un cavaliere scritti gli aforismi d'Ippocris, ovvero li teeni (i trattati tecnici) di Galieno, perchè li savii dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè, che convenga con lui e che sia utile... La terza cosa, nella quale si può notare la pronta liberalità, si è dare non domandato; perciocchè dare 'l domandato, è da una parte non virtù, ma mercatanzia; perocchè quello ricevitore compera, tuttochè l datore non venda; perchè dice Seneca che

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