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De Consolatione di Boezio, lo apprendiamo da lui stesso, quando ci fa sapere, nella Vita Nuova, come, solo dopo la morte di Beatrice, per confortarsi, egli si mise" a leggere quello, non conosciuto da molti, Libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato si avea. „ E, a quel tempo soltanto ciò è, nella sua piena adolescenza, possono riferirsi i consigli, suggerimenti, ammaestramenti che Dante ebbe da Ser Brunetto Latini, come pure i suoi primi veri e profondi studî ne' classici antichi; onde, quanto narra il Boccaccio intorno alla famigliarità che Dante ebbe con Virgilio, Orazio, Ovidio e Stazio, va riferito alla sua ben matura adolescenza, cioè agli anni che corsero dalla morte di Beatrice all'anno 1295, in cui egli, trentenne, incominciò a prender parte al governo della cosa pubblica.

Il primo latino di Dante dovea intanto essere poca cosa, e si può argomentare dalla sua propria confessione nel Convito, rispetto alla difficoltà che incontrò nella lettura del testo del dialogo di Cicerone De Amicitia, di cui probabilmente Ser Brunetto, traduttore di parecchie operette di Cicerone, gli avrà molto raccomandata la lettura." E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando dell'Amistà, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione amico suo, incominciò a leggere quello. E avvegnachè duro mi fosse prima entrare nella loro sentenza (cioè di Boezio e di Cicerone), finalmente v'entrai tant'entro, quanto l'arte di Grammatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno inolte cose, quasi come sognando, già vedea. „ Vedremo più tardi il seguito di questo passo mirabile, che ci pone fra tanto innanzi quel grande autodidatto, il quale interpreterà poi, nel libro del Convito, il suo verso applicato a Virgilio:

Vagliami il lungo studio e il grande Amore;

per lo studio amoroso non solo ci s'appresta la materia, ma, per l'amore con cui studiamo, questa s'avviva e s'illumina; segue poi l'uso, che diventa una nobile consuetudine. "Si vuol sapere che studio si può qui doppiamente considerare. È uno studio, il quale mena l'uomo all'abito dell'Arte e della Scienza, e un altro studio, il quale nell'abito acquistato adopera, usando quello; e questo primo è quello che si chiama qui Amore. 27

Qui è manifesto l'ardore con cui Dante dovea accingersi ad ogni studio, fargli superare le prime difficoltà, e intravedere, per innamoramento e per acume d'ingegno, molte cose che dagli altri non potevano essere penetrate. Come a lui doveva bastare qualche linea scritta, qualche parola detta da un savio, un motto, un gesto, uno sguardo, un sorriso, per vedere innanzi a sè e creare per noi figure immortali, così noi possiamo facilmente credere che egli non fu pedissequo di alcun maestro e d'alcun trattato, pure accogliendo da ogni parte alcuna scintilla rivelatrice od eccitatrice di alti spiriti nuovi. Perciò hanno per noi un senso profondo quelle altre sue parole del Convito, scritte dopo i suoi quarant'anni, ove, pur non volendo passare egli stesso per un gran maestro e dottore di scienza, confessa candidamente di avere appreso più cose da molti dicendo di sè:

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"E io che non seggo alla beata mensa (del sapere), ma, fuggito dalla pastura del volgo, a' piedi di coloro che seggono, ricolgo di quello che da loro cade. Noi sappiamo ora che cosa egli ha saputo fare di quelle briciole cadute dalla mensa regale degli Epuloni della scienza medievale. Il Boccaccio fa studiare Dante in patria, a Bologna, a Parigi:" Egli (scrive) li primi inizî prese nella propria patria, e di quella, siccome a luogo più fertile di tal cibo, n'andò a Bologna e, già vicino alla sua vecchiezza, n'andò a Parigi, dove, con tanta gloria di sè, disputando più volte, mostrò l'altezza

del suo ingegno, che, ancora narrandosi, se ne meravigliano gli uditori.

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Si possono ora sollevare parecchi dubbi, intorno a queste pretese disputazioni di Dante all'Università di Parigi; ma i richiami all'arte del minio, che in Parigi chiamano alluminare (enluminer), al vico de li strami dove, nel quartiere latino, Sigieri sillogizzava, alla Senna dove regnava Filippo il Bello, e la rappresentazione evidente e fedele delle tombe ignorate di Arles, sopra le rive del Rodano, rendono probabile la tradizione che Dante, ne' suoi viaggi intrapresi nel tempo dell'esilio, abbia pure visitato la Francia. Tuttavia, iprimi, veri e profondi studî classicie filosofici di Dante si devono riferire specialmente agli anni che corsero tra il 1291 e il 1297, cioè tra gli anni ventisei e trentadue dell'età sua. Questi furono certamente, per lui studii liberi, che non miravano tanto a farne un giurisperito, un letterato, un fisico, un astronomo, un teologo perfetto, quanto a innamorare il nostro poeta d'ogni scienza, perchè della scienza appresa si giovasse per la vita e per l'arte sua immortale.

Ma, se lo studio di quegli anni fu il più intenso, se, nel lungo travaglio dell'esiglio, scrivendo il suo poema, Dante potè o dovette, sopra alcuni punti speciali di qualche disciplina, su alcun libro di dottrina più profonda aguzzare nuovamente la sua mente meravigliosa, per allargare ed assodare il suo sapere, se è pur cosa verosimile, che, negli anni più fervidi della sua prima gioventù spensierata e innamorata, quando gareggiava nell'arte di scrivere in rima nel dolce stil nuovo, coi più illustri poeti d'amore, già sperando non pur di arrivare alla fama dei due Guidi, ma di superarla, Dante abbia atteso allo studio delle lettere più che non abbia voluto palesarcelo, dal primo scoppiare del suo ingegno nel primo sonetto amoroso in onore di Beatrice, è troppo manifesto che, come egli era stato fanciullo precoce nell' accogliere l'amore, cosi egli abbia

dovuto, prima di comporre quel mirabile sonetto a cui Guido Cavalcanti, ad alcuni aitri poeti risposero, essersi, nella puerizia, bene esercitato nella lettura almeno de' primi poeti italiani, i quali, senza ch' egli fosse andato ad alcuna scuola di poesia, gli avevano, senza dubbio, insegnato la tecnica del verso, quasi per virtù inspirativa.

Ma non v'è forse nella vita di un uomo alcun periodo più difficile a penetrare e ad illuminare che quello in cui si svolge la sua puerizia, quando il fanciullo sta per diventare uomo.

Dante, avendo taciuto su que' nove anni della sua esistenza, noi non possiamo collocarvi nessuna notizia certa, e soltanto ci è lecito argomentare qualche cosa da quello ch'egli divenne poi. Se dai nove ai diciotto anni egli abbia più riveduta Beatrice, e dove, se, in casa o fuori, egli abbia vissuto, se curato o negletto, come e quanto e con chi Dante abbia conversato e studiato, noi ignoriamo perfettamente; non un motto, in tutta l'opera sua, non un segno della sua vita di quegli anni di prodigiosa evoluzione; ogni nostro desiderio di sapere perciò si spunta, ogni nostra indagine o congettura riesce vana. Dante non vuole che conosciamo altro di lui che il suo grande amore; come prima questo si rivelò, come gli riapparve, come, seguendolo, egli s'inalzò e senti ingrandirsi l'anima sua, come, quando gli parve d'averlo tradito, si pentisse, come, infine, riconoscendo il suo traviamento, sulla via luminosa di Beatrice, egli trovò, penitente, il Cielo. Questa storia dell'amore ideale di Dante, che fu la maggior gloria della sua vita, ci viene, del resto, ridotta a mente da Beatrice stessa nel trentesimo del Purgatorio:

Alcun tempo 'l sostenni col mio volto;
Mostrando gli occhi giovinetti a lui,
Meco 'l menava, in dritta parte vôlto.

Si tosto come in su la soglia fui
Di mia seconda etade, e mutai vita, 1
Questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita, 2
E bellezza e virtù cresciuta m'era,
Fu' io a lui men cara e men gradita.
E volse i passi suoi per via non vera,
Immagini di ben seguendo false,
Che nulla promission rendono intera.
Nè d'impetr.re spirazion' mi valse,
Con le quali ed in sogno e altrimenti,
Lo rivocai, sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
Alla salute sua eran già corti,

Fuor che mostrargli le perdute genti..
Per questo visitai l'uscio de' morti;

E a colui che l'ha quassù condotto,

Li prieghi miei, piangendo, furon pôrti.

Ma Beatrice, che ha pianto per Dante, vuole ancora vederlo piangere alla sua volta, con lacrime amare di pentimento:

L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
Se Lete si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata senza alcuno scotto
Di pentimento che lagrime spanda.

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1 Questo mutai vita si spiegò: passai dalla vita mortale alla vita immortale. Ma Dante, cosa insolita, ripeterebbe lo stesso pensiero nella terzina seguente; onde si potrebbe forse meglio intendere: "Costui che fanciullo avea disposata l'anima sua alla mia, quando sulla soglia della gioventù, mutai stato, e di donzella divenni donna, non si curò più della sua prima inspiratrice, della sua donna ideale, per correre dietro ad altre donne. Quando poi, morendo, salii al cielo, egli quasi mi dimenticò, per correre dietro ai beni mondani.

2 È incredibile come, a malgrado di questo verso, alcuno si ostini ancora a credere che Beatrice non sia mai stata donna.

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