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nel formare i nobili ingegni ; non tanto però, che non vi abbiano eziandio grande parte l'educazione, non meno che la fortuna. Onde i tempi felici e quieti non sono propri ad invigorire le forze dell'intelletto, mentre queste pigliano gagliardia tra il tumultuare delle parti e l'ire guerresche, come si vide accadere in Atene e in Roma. Le quali ebbero sommi poeti e sommi oratori, allorchè l'ambizione de' cittadini osando di soprastare alle leggi, o la comune libertà essendo posta in pericolo dalle armi de' forestieri, v' erano gli animi pieni di sospetti e di sdegni, e niuno potea posarsi nella infingarda securità della pace. In mezzo alle civili discordie, e alle interne guerre sursero gli eccellenti poeti, e i gloriosi artisti, onde ha ed avrà sempre onore l'Italia. Tanto è vero ciò che affermai, per fare agl' Italiani giovani manifesto, la malignità della fortuna e de'tempi non togliere mai agl'ingegni la virtù loro, se da noi stessi non li facciamo deboli e inerti. Infelice per molti rispetti è al certo la condizione dell' età nostra: ella però non è tale che faccia scusa alla corruttela del gusto, alla vanità de' pensieri, e alla leggerezza delle nostre instabili fantasie. Onde se avessimo desiderio di onesta fama, cercar dovremmo ne' buoni studi l'onore, che non ci è permesso acquistare per altre vie e in cambio di perdere il tempo in oziose cure, chiedere noi dovremmo alla fede, all' amore, alla solitudine l'inspirazione d'alti concetti, e quindi imparare in essa l'arte ch'è necessaria a rappresentarli con graziose e nobili forme. Imperocchè niuno che molto non ami il vivere solitario, può mettere mai alla prova le forze della sua mente, la quale nel tumulto del mondo, nel folleggiar de' piaceri

si spossa, si snerva e s'insterilisce. E però i Greci, che nascondevano le verità generali sotto amabili allegorie immaginarono, che le Muse facessero loro dimora sopra arduo monte, in mezzo ad ombrose selve, ove solo lo strepito delle acque scorrenti giù dalle rupi, e lo stormir delle foglie mosse dal vento si accompagnava al dolcissimo suono de' canti loro. L'amore della solitudine adunque, le difficoltà della vita, le battaglie di forti e contesi affetti mancarono ai trovatori: onde i loro versi eleganti, armoniosi e dolci non rivelano nè gagliarde passioni, nè ricca e varia immaginativa, sì che sono da comparare piuttosto ad un bel disegno, che ad un dipinto, sul quale l'artista con franco pennelleggiare, con vivi tratti di luce e d'ombre, e con mirabile forza di colorito, ha impresso, per così dire, l'anima sua.

La fama de' trovatori giunse in Italia, ove la lingua volgare essendo ancor rozza, molti şi dettero a verseggiare in quella de' Provenzali. V' ebbe grido principalmente il mantovano Sordello, uomo d'armi e di corte, di cui la memoria vive non per i versi da lui dettati, non per le strane avventure che gli sono dal Platina attribuite, ma per la invidiabile lode dell' Alighieri, la quale non al poeta, al libero cittadino, al caldo amatore della sua patria si riferisce.

La fantasia degl'Italiani non poteva però contentarsi di rimanere in tal povertà da non avere modi suoi propri per dare veste poetica ai suoi concetti. Onde la lingua volgare cominciò ad essere adoperata a cantar di amore, e questo avvenne prima in Sicilia per le ragioni addotte da Dante: « Quelli illustri eroi Federico Cesare >> ed il ben nato suo figliuolo Manfredi..... seguirono le

>> cose umane, e le bestiali sdegnarono. Il perchè coloro » che eran di alto cuore, e di grazie dotati, si sforza>> rono di aderirsi alla maestà di sì gran principi, tal» chè in quel tempo, tutto quello che gli eccellenti Ita>> liani componevano nella corte di sì gran re prima>> mente usciva. E perchè il loro seggio regale era in » Sicilia, è avvenuto che tutto quello che i nostri pre>>cessori composero in volgare è chiamato siciliano : >> il che ritenemo ancor noi, ed i posteri nostri non lo » potranno mutare1. >>

Sebbene la lingua di questi antichi poeti sia detta volgare, pure non è da credere ch'ella fosse simile in tutto a quella che allora parlava il volgo; la quale aveva diversità di vocaboli, di desinenze, di suoni in quasi tutte le provincie d'Italia, come ci è provato da Dante nel libro sopra citato. E veramente la plebe guasta le lingue in luogo di dare ad esse regolarità e nobiltà: e niuno che scrive, purchè ami il bello, siegue il suo modo di favellare: anzi dal desiderio di ritrovare forme appropriate alla qualità de' concetti suoi è spinto a scegliere le voci in cui quelli spiccano in viva luce, a fuggire i construtti contorti, i modi o barbari, o vili, e a dare con le metafore ben condotte lume alle idee. Quindi si appartenne sempre ai poeti il dirozzare le lingue e il farle acconce ai forti, ai teneri, ai maestosi, ai soavi affetti. E sebbene coloro che scrissero prima dell' Alighieri, non avessero nè l'ingegno, nè il gusto e la fantasia che si richiedono a fare che le parole siano somiglianti pe' loro effetti ai colori nella pittura, pure si studiarono di nobilitare l'idioma, ch' era parlato

1 Volg. Eloq., lib. 1, cap. XII.

dal volgo. Però Dante chiamava aulica, cortigiana ed illustre la lingua adoperata dai rimatori in Italia, la quale, egli aggiugne: « è di tutte le città d'Italia, e non » pare che sia in alcuna, con la quale tutti i nostri » volgari s'hanno a misurare, ponderare, parago» nare1. »

Egli è in vero gran pregio ad una nazione, avere una lingua che, assicurata dalle inevitabili variazioni indotte nel suo parlare dal volgo, permanga stabile fondamento di civiltà. E dove un popolo sia caduto a tale bassezza, ch' ei più non avendo nè proprie sue leggi, nè stato suo proprio, patisca la signoria di esterni padroni, non dovrà stimare impossibile di avere un giorno le divise sue parti congiunte insieme, finchè conserva l'unità della lingua e la unità della religione. Ma quella avere non si potrebbe dove la lingua si rimanesse in balia del volgo, il quale, come si è detto, l'altera, la corrompe, la muta per ignoranza, o per le voci che prende dai forestieri, massime quando soggiace al loro dominio. È ufficio pertanto degli scrittori serbarla monda d'ogni bruttura, e rispettarla, ed amarla come memoria dolcissima dėl passato, e cagione e mezzo di sperata grandezza per l'avvenire. A questo ufficio non mancò l'Alighieri fino dal tempo in cui della luce che raggiare per lui doveva la lingua nostra vedevasi solo un indistinto barlume. Quindi a farla nobile e illustre si affaticò con argomenti dimostrativi, e più con l'esempio. Nel che seguiva il natural corso della sua mente. La quale riducendo sempre alla sintesi le idee individue, questa voleva nell'arte, nella religione, nella po

Volg. Eloq., lib. 1, cap. XVI.

litica. Onde com' egli fu sempre cattolico di ragione e di sentimento, come pensava che a riformare l'Italia e il mondo in un solo si dovesse riunire l'autorità da tanti allora violentemente usurpata, così voleva che avessero gl' Italiani una lingua sola. Certo ove meglio fosse stata studiata l'indole dell'ingegno e della sapienza di Dante, indole sempre armoniosamente sintetica, niuno avrebbe avuto l'audacia di porlo tra i novatori in politica e in religione. Se il riso in cose sì gravi non fosse colpa, sarebbe in vero da ridere su coloro, che profanando la memoria del gran poeta, pretendono di provare, ch' ei partecipasse agli errori, onde poi sorse la setta de' protestanti, e che con certe liberissime sue dottrine precorresse a quelle de' socialisti. Temerità irriverente è questa: arte ipocrita di malvagi che ardiscono di abusare i nomi più santi per coonestare perverse, o stolte opinioni.

Ma l'unità della favella sarebbe stata indarno per lungo tempo desiderata, ove Dante non l'avesse da se formata con arte meravigliosa eleggendo tra i vocaboli dei dialetti parlati nelle varie città d'Italia i più eleganti, i più efficaci, i più vivi; fissando il senso di alcune voci, rinnovellandolo in altre, e dando al nostro volgare con metafore pittoresche, con modi brevi, con rapide construzioni, chiarezza, nervo, abbondanza, varietà quasi infinita di forme, innumerevoli gradazioni di colorito. Il che non solo si scorge nella bellezza dei versi suoi, ma nel divario che corre tra questi e quelli dei poeti che il precedettero. Ne' quali, dove più, dove meno, brillando alcun poco d'oro, è molto di mondiglia, ed anzi di fango, sicchè nè l' animo, nè l'orec

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