chio se ne dilettano. Eccone in prova alcuni versi di Federigo II: « Valor su l'altre avete, E tutta conoscenza : Mi dà conforto, e facemi allegrare. Il segretario di Federigo, Pier delle Vigne, uomo famoso per dottrina, per improvvisa indegnità di fortuna, e più ancora pe' versi dell' Alighieri1, poetò anche esso in rime volgari, adoperando uno stile, che parmi in ugual modo lontano dalla rozzezza, e viltà del linguaggio plebeo, e dalla grazia del poetico e dell' illustre : << Amore, in cui i' vivo, ed ho fidanza, E giammai la speranza non lo inganna : La vita dell' imperatore Federigo fu da fieri accidenti sempre agitata, e corse in mezzo a continue guer 'Vedi Inferno, canto XIII. VOL. I. re, essendo egli principe ambizioso e superbo, avverso naturalmente alla libertà, onde stette sull' armi per opprimerla, per contrastare all' autorità della Chiesa, o per umiliare l'orgoglio de' suoi baroni. Non trascurò tuttavia di coltivare gli studi, e gli ebbe in onore: onde (come scrive un antico) « la gente che aveva bontade » veniva a lui da tutte le parti, e l'uomo (cioè Federigo) donava molto volentieri, e mostrava belli sem» bianti e a lui venivano trovatori, e belli parla» tori. » All'esempio di lui Manfredi ed Enzo suoi figli disfogarono i loro amori in versi italiani. E chiunque ricorda siccome questi, caduto combattendo in potere de Bolognesi, finisse poscia la vita in dura prigione, non potrà leggere senza pietà questi versi : « Ecco pena dogliosa Che nello cor m'abbonda, E spande per li membri, Si che a ciascun ne vien soverchia parte. Giorno non ho di posa, Come nel mare l'onda : Core, che non ti smembri? Esci di pene, e dal corpo ti parte: Morir, che ognor penare! >> Sfortunato giovine! Bello della persona, prode nell'armi, baldanzoso di regali speranze, avvezzo ai favori della fortuna, dovè invidiare ogni più misera condizione, poichè gli mancava il sommo de' beni, la libertà. Nelle mute e deserte sale di quel palagio, ch' era suo carcere divenuto, ripensando i tornei, le danze, l'armi, i cavalli, e la sua presente miseria paragonando con la passata felicità, ei si sentiva da disperato dolore strin gere il cuore; ma la Musa scendeva allora vicino a lui: e destandogli nella mente cari pensieri, se non giugneva a racconsolarlo, faceagli almeno per alcun tempo la sua sciagura dimenticare. Tanto è vero, che i dolci studi ci sono di pietoso conforto in ogni fortuna, e che in essi ritrova quiete l'animo stanco. Primi furono i Siciliani a cantare nella volgare favella i Toscani, anzi quanti avevano allora in Italia gentilezza di cuore e di fantasia, presero a seguirne l'esempio: ma i più con effetto poco felice, per non essersi dipartiti del tutto dal favellare plebeo. Però Dante afferma, che i detti di Bonaggiunta da Lucca, di Guittone d'Arezzo, di Gallo pisano, di Mino Mocato sanese e di Brunetto fiorentino non son cortigiani, pertinenti, cioè, alla lingua aulica e illustré, ma propri delle loro città. Sarebbe di troppa noia a chi legge, se a confermazione della sentenza dantesca io qui recassi canzoni o sonetti de' poeti sopracitati: basti, che ne trascriva uno di Guittone di Arezzo, ch' ebbe maggior nome degli altri, il quale fu de' Frati Gaudenti, fondò in Firenze il monistero degli Angioli, e morì nel 1294: « Già mille volte, quando Amor mi ha stretto, Ha lo meo core; e quanto a crudel sorte La verde età, tua fedeltà il disdice; Si ch'io spero col tempo esser felice. » Veramente questa non è poesia, dove s'intenda per essa non il corrispondersi delle rimé, e la misura del verso, ma la novità, la soavità, la grazia, e l'impeto del pensiero con efficaci, e con armoniose parole espresso. L'avere usato lingua plebea fu in parte cagione della rozzezza de' versi de' dugentisti, secondo la sentenza di Dante già riferita ma nella Divina Commedia, egli ne adduce un'altra ragione più filosofica, e quindi più convincente, mostrando come Guittone, e gli altri della sua schiera non furono, ed essere non poterono, veri poeti, perchè mancò loro l'ispirazione di un vivo e gagliardo affetto.' Insegnamento importantissimo per chiunque si pone a scrivere in verso o in prosa. Ch'ei non potrà l'ideale bellezza con le immagini, e con le parole rappresentare, nè commovere o dilettare gli animi altrui, ove non dipinga vere passioni, e vivamente sentite, appropriando lo stile all' indole loro. Ond' è manifesto, come i giovani, i quali mirano a diventare scrittori, debbano tenersi lontani da tutti gli affetti ec 'Dante, rispondendo a Bonaggiunta da Lucca, che gli avea chiesto s' egli era quegli che trasse fuori le nuove rime, dice di se stesso: Io mi son un che, quando Amor mi spira, noto, ed in quel modo Purgatorio, canto XXIV, v. 52. cessivi, malvagi, disordinati, i quali turbando la fantasia, viziano il cuore, sicchè questo non è più atto a nutrire sensi nobili, delicati, o virili, che sono materia buona alla poesia. La quale derivata dal bello eterno, cioè dall'ordine perfettissimo, ama la temperanza armoniosa nel sentimento, e rifugge da tutti gli estremi delle passioni. E che ciò sia vero si vede ne'classici, e per converso nelle poesie deliranti di alcuni moderni. I quali per avere preso a soggetto de' versi loro affetti immoderati, e lontani dal vero, e dall'ordine, le leggi del quale mai non dee lo scrittore dimenticare, non arrivano al segno prefisso, ovvero quello oltrepassano fuor di modo. Sicchè dove vorrebbero produrre nell' animo degli ascoltanti il timore, vi generano lo spavento: e il pianger loro non è di persone afflitte, ma di furenti, o di disperate e nel dipinger l'amore, raffreddano con artificiosi concetti le sue passioni, o le fanno trascorrere a voluttà sempre in su gli estremi: non mai nel mezzo nel quale è il bello nell' arte, come nella morale è l'onesto. A fuggire pertanto il biasimo, che a costoro vien dato dagl' intendenti, fa d' uopo che i giovani custodiscano gelosamente la purezza e la verecondia dei loro cuori: da un animo buono e gentile per sua natura, fatto dall'educazione e dagli studi delle lettere più gentile e più buono, sgorgano affetti soavi, immagini caste, parole piene di dolcissima melodia; come pura zampilla ין acqua da una fontana che giace in riposta valle, e chiusa intorno da dense piante e da rupi, non teme di essere intorbidata nè dagli armenti, nè dai pastori. Da questa digressione, a cui mi ha condotta quel desiderio che ho sempre avuto, ed avrò grandissimo di |