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Lo stoico considerava come la più alta virtù l'uguaglianza e l'elevatezza dell'animo sulle affezioni sensibili; mentre in questa poesia le prime parole di Bruto sono la negazione della virtù:

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi

Dell'inquiete larve

Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento....

Chi prepone la morte al servaggio, oh se crede alla virtù! Veramente a udir questo Bruto linguacciuto io penso al titolo di don Chisciotte affibbiato modestamente da uno storico tedesco a' nemici di Giulio Cesare, specialmente a Catone. Ma la miglior prova che tali non fossero, si trova nelle loro morti serene e placide, come non fa questo Bruto leopardiano che muore veramente in atto da don Chisciotte e da Rodomonte. Per certo questi non è Bruto. Chi sparge tante amare querele è un uomo che non vuol morire. Sotto il nome di Bruto qui si asconde Leopardi che si serve di quel nome sia per inemendato vezzo classico, sia per poter dire liberamente tutto l'animo suo in un paese senza libertà. Nella lettera a De Sinner riportata avanti dice chiaramente che in questa poesia si contengono le sue vere' opinioni; e chi conosce la vita e il carattere

di Leopardi, vi trova in effetti un dolore e un'amarezza tanto straordinaria quanto la sua sventura. In tal caso le tinte cariche significano che l'Autore quando scrisse questa canzone, non si era ancora liberato da' prediletti modelli antichi, e finanche entrando nell'inferno dell'anima sua, restava sempre a quelli tenacemente attaccato. Tutto il colorito e il frasario è qui imitato dai poeti latini; e benchè l'imitazione sia ben eseguita e meglio che nelle altre canzoni antecedenti, è sempre imitazione. Basti considerar la strofa che comincia :

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,

Candida luna, sorgi....

Questa poesia dunque non ha un valore oggettivo, ma tutto soggettivo. Sotto questo aspetto acquista un'importanza non comune. È la prima lirica in cui il Poeta parla di se stesso. Ma non è ancora pervenuto a trovar l'espressione diretta; e la scuola, l'enfasi nazionale, il desiderio giovanile di ingrossar la voce, se non fosse il bisogno anche di dir tutto liberamente sotto un velame classico senza intoppar nella censura, lo fanno rivolgere a quegli espedienti artifiziali di trasportarsi in Bruto, là a Filippi, in quella al solito buia notte, ecc.

Sotto tutto quest'involucro esagerato bisogna saper discernere ciò ch'è vera espressione dell'animo suo da ciò che è convenzionalismo di scuola.

Perciò i poeti italiani in generale riescono difficili a comprendersi dagli stranieri. I nostri poeti non hanno una forma schietta, e Leopardi stesso la consegui più tardi, dopo energici sforzi. Saranno le tradizioni nazionali, sarà il lungo studio su' latini sempre con lo scopo d'imitarli; comunque, il certo si è che nella poesia italiana predomina la tirannía della forma al punto, che gli scrittori dicono il più sovente ciò che non sentono o il contrario di ciò che sentono, pure per amor di frasi. Il buon esempio venne da Petrarca. Forse questa simulazione letteraria accusa un difetto morale.

Così, per esempio, il maledire che fa Bruto alla virtù non si vuole intendere nel peggior senso, ma soltanto che alla virtù si accompagna spesso la sventura. Le sono amplificazioni giovanili, scoppii di frasi anzichè di sentimento; essendo a tutti noto che Leopardi rimase fedele alla virtù non a parole, ma in fatti e come ben pochi sogliono, tanto che si può dire essere stata la sua vita tutto un esempio di virtù, secondo la testimonianza concorde di quanti lo conobbero. Quella maledizione è una gonfiezza di stile che si estende a tutta la canzone, è

un difetto di forma, o al più un' eruzione di bile, ma non una voce dell'anima.

Ciò che c'è di vero in questa poesia è la condanna della vita e dell'autore del tutto. Se non nella forma, si deve accettare come il primo grido dell'anima sua straziata, la prima maledizione contro la matrigna natura, e però la riporteremo intera. Il sentimento vi è potente e scoppia con vero furore. Così giovane, era tanto misero, è le sue opinioni sulla vita e sul mondo erano già fermamente disperate. Finanche l'aspetto della natura che riposa nella sua bella calma, lo trafigge vivamente quasi fosse un insulto a' suoi dolori, una irrisione crudele alle tempeste dell' anima che dovrebb'esser regina dell'universo, e non è che prigioniera torturata.

Oh casi! oh gener vano! abbietta parte

Siam delle cose....

Quell' uomo tanto infelice come si trova nella canzone, quell'uomo tanto nobile e bello, vero Dio dell'universo, è lui stesso. Egli ha tutto, è superiore a tutto, ma schiavo del destino. L'uomo solo magnanimo, ma debole, contro il fato codardo, ma onnipotente. Tutte le più alte qualità morali son retaggio dell'uomo, la giustizia, l'amore, la carità,

l'intelligenza. Al fato invece toccò la forza e la passione di abusarne. L'Autore non si sente soddisfatto finchè non riduce il fato ad un grado molto inferiore e vile, quasi verme velenoso non degno pur di guardare la nobile faccia dell' uomo condannato non pertanto ad esser ludibrio di quell'onnipotenza malefica. E non solo tiranno, ma il fato è empio e propizio agli empi come lui.

Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela ?...

Concetto veramente titanico e d'una pietà profonda quale soltanto può sorgere in un'anima divina indegnamente calpestata.

La vita spirituale e fisica di Leopardi si determinò troppo presto e in un senso così funesto. Come nell' entrare della gioventù le infermità del corpo pervennero a un eccesso insuperabile, così ne' suoi primi tentativi poetici e prima ancora di aver acquistato una forma adeguata, la sua musa è definitivamente e immensamente triste. Nessuna poesia giovanile racchiude altrettanta disperazione, nessuna è similmente scritta col sangue. Leopardi colpito così duramente, si chiude tutto nel suo immenso dolore, abbandona i campi delle belle fantasie per

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