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ricusi di concedergli quella compassione che non si nega neanche a' malfattori (1). »

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Bisogna primamente notare che questa lettera fu scritta da un giovane nella più grande esacerbazione d'animo, nel punto che si ribellava fuggendo dal padre. E pur non v' ha nulla che possa offendere la memoria del padre nè del figlio, secondo ha creduto qualche biografo. Tutto ciò che è chiaro e franco pare scandaloso ad uomini simulati. Io per me non ci trovo scandalo, anzi reputo questa lettera nè più nè meno che un' esposizione veridica della situazione di Leopardi nella sua famiglia, un'esposizione risentita, e non un'invettiva. Monaldo vi è ritratto. compiutamente, ma s'intende, con l'amarezza d'un figlio che gli attribuisce tutti i propri mali. Vecchio gentiluomo tenacissimo delle sue opinioni, con forme cortesi, sollecito del benessere de' figli ch'egli ama svisceratamente a modo suo e da' quali era del pari riamato, credeva sinceramente che tutta la loro felicità consistesse in certi studi pedanteschi, nel go

(1) Opere inedite di Giacomo Leopardi, pubblicate sugli autografi recanatesi da GIUSEPPE CUGNONI, p. 110., Halle 1878.

dimento degli agi domestici, in amare e servir Dio, insomma nella soddisfazione di tutti i bisogni del corpo e dell'anima. Quanti vecchi padri non hanno avuto le medesime inclinazioni senza quella sua nobiltà di carattere ?

Accanto a un vecchio il cui piccolo mondo si riduceva al villaggio natale, all'antica casa paterna, e sopratutto alla religione cattolica che per lui era una vera malattia come per molti suoi contemporanei dopo la rivoluzione francese; accanto a questo vecchio mettete un giovane agitato dalla contraria febbre di tutte le libertà e di tutti i grandi amori, amor della gloria, del sapere, della bellezza; accanto a questo vecchio cosi limitato, un giovane a cui non bastava il mondo; e la collisione si rende inevitabile. Ciò ch'era sacro per il figlio, era infame o incomprensibile al padre. Giacomo rende giustizia alla bontà del cuore paterno, sola virtù del vecchio conte ereditata dall'angelico suo figlio; il quale dopo aver narrato dolorosamente che la vita gli era impossibile in quella casa; come il solo padre non facesse alcuna stima de' suoi talenti; e lo privasse di qualunque libertà; e non credesse di far alcun sacrifizio pel figlio lasciandolo consumare in una vita di orribili malinconie, specialmente da quando gli si formó quella misera complessione; e della differenza

di principii in verun modo appianabile, vera causa d'ogni sua sventura; dopo aver tutto narrato dolorosamente, ma con fermezza e senza odio, lo prega che se mai gli si destasse la ricordanza di quel figlio che l'ha sempre amato e ama, non lo maledica. La bontà di cuore pare essere stata la qualità propria della famiglia Leopardi. Monaldo, sua sorella Ferdinanda, colei che consolò e amò tanto il giovinetto nipote, quasi presaga della sua futura grandezza; Giacomo che condannato dal padre a una vita tanto misera, non solo, fuggendo da lui, gli professa tutto il suo amore, ma in seguito, nell' amarissima lotta durata per l'esistenza, non sdegna qualche volta, per consolare il vecchio dal cuore aureo e dalla testa debole, di mostrarsi nelle lettere finanche partecipe di que' pregiudizi religiosi che in se stesso tanto disprezzava; questi tre caratteri ben portano l'improntal della stessa nobile famiglia.

Il conte Monaldo, contento fra' suoi, consolato dalla religione, dedito a poveri studi che vietavano ogni ardimento allo spirito, ignaro di quella corrente poetica che tra il passato e il principio di questo secolo ha suscitato tanti desideri e speranze, non poteva considerar che come insano l'odio a Recanati, a quella meschina vita canonicale della sua famiglia, e come insano il pensiero che soltanto

fuori si ritrovasse la felicità, proprio nel mondo errante lontano dalla legge del sommo pastore.

Ma se una malattia incurabile occupava il padre, Giacomo era dal canto suo gravemente infermo di quell' altra malattia che ne' suoi delirii ha creato Werther, I Masnadieri, Renato, Manfredi, malattia forse passata per sempre e sostituita da un senso del reale, che ci avverte l'uomo non esser Dio, e anzichè ostinarsi dietro una felicità impossibile e un sapere assoluto anche più impossibile, farebbe opera più savia a conformare i desiderii al suo stato reale, desiderii che, se non divini, sono certamente degni, come lo studio delle scienze esatte e l'esercizio di tutti i difficili doveri dell'uomo. Non è strano voler penetrare nel mondo di là quando poco sappiamo di questo? Non è ostinazione pretendere al vero assoluto quando ci sfugge quello relativo? Ma già si ha un bel dire, e questa malattia dell'infinito lasciataci dal cristianesimo, anche quando ha cessato di esser religione ed è rimasto soltanto come costume, aspirazione, tendenza, ha tormentato molti uomini sommi, sciolti da' vincoli religiosi. Tutto concorreva a rendere insopportabile la vita col vecchio Conte, i suoi costumi, le sue opinioni, il sentir falso e superlativo di se stesso e fino il suo modo di vestire.

« La natura o l'abitudine di sovrastare,» scrive

nella sua autobiografia, « mi è sempre rimasta, e mi adatto malissimo, anzi non mi adatto in modo veruno alle seconde parti.... Tutto quello che mi ha avvicinato ha fatto sempre a mio modo, e quello che non si è fatto a modo mio mi è sembrato mal fatto.... Mi pare che il desiderio di vedere seguita la mia opinione non sia tutto orgoglio, bensi amore del giusto e del vero. Ho cercato sempre con buona fede quelli che vedessero meglio di me, ed ho trovato persone saggie, dotte, sperimentate, ma d'ingegni quadri ne ho trovato pochissimi, e ordinariamente la mia ragione, o forse il mio amor proprio, mi hanno detto: tu pensi e vedi meglio di quelli.... onde mi è venuta la tentazione di credere che la mia mente fosse superiore a molte, non già in elevazione, ma in quadratura (1). »

Tutto ciò è millanteria da uomo tondo, per dirla alla romana, e desta il compatimento, non l'odio. Crede di buona fede che tutti avessero sempre fatto a modo suo mentre nessuno è stato forse mai zimbello della moglie come lui e, che è peggio, degli atei preti cattolici e de' gesuiti che gli davano a bere con una disinvoltura tutta lor propria il miracolo che fra un numero determinato di giorni il suo

(1) Lettere scritte a Giacomo Leopardi da' suoi parenti, per cura di G. PIERGILI Firenze, Lemonnier 1878, p. 12.

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