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tengono i Cesti di Giulio Africano (). Benchè molti eruditi si fossero affaticati inutilmente per tradurre e intendere qualche parte di un'opera guasta e corrotta quanto mai, è triste vedere un giovane nel primo fiore degli anni ritornare sull' ingrata fatica, raccogliere qua e là frammenti di quell'autore, confortarli d' innumerevoli note, comporre un commentario latino sulla vita e sugli scritti di Africano, esaminare i suoi Cesti con l'aiuto di più codici, e tradurre e emendarne (così credeva) i primi ventisette capitoli, i più guasti. Tutta questa fatica da soma riuscì a nulla perchè neppur oggi di G. Africano si sa più di ciò che ho innanzi accennato. Leopardi stesso fatto uomo, condannò giustamente questa ingrata fatica come tante altre della sua gioventù. Nel 1832 scriveva a De Sinner: «Se fate qualche uso del Giulio Africano, vi prego a farlo consi

(1) Sextus Julius Africanus, fondatore della cronologia comparata pagana e cristiana, nacque a Emmaus in Palestina, o in Libia, secondo altri. Visse nella prima metà del terzo secolo, regnando Eliogabalo ed Alessandro Severo. È noto specialmente come autore di un'opera cronologica importante la quale dalla creazione del mondo perviene all' anno 221 dopo Cristo. Quest'opera andò perduta, ma restano de' frammenti non insignificanti, come il Catalogo de' vincitori de' giuochi olimpici edito da Rutgers a Leiden nel 1862. Di un'altra sua grande opera creduta scritta quando era ancor pagano e denominata i Cesti, in cui trattava d'agricoltura, di medicina, di fisica e sopratutto di arte militare, ci sono ugualmente pervenuti de' frammenti, Manoscritti de'Cesti si conservano in alcune biblioteche, ma tutti incompiuti e guasti.

derare come un lavoro affatto giovanile, fatto nello spazio di soli sei mesi, in età di 17 anni (1815). Ciò mi par necessario a scusare le infinite imperfezioni, gli errori, ecc. (1). » Tali studi da benedettino d'altri secoli mostrano un' aridità incredibile a

quell'età. È l'aridità, l'immobilità della casa paterna. Abbiamo da fare col figlio di Monaldo, non ancora col vero Giacomo. Qual poeta nel verde della vita si perde dietro studi cosi sterili? Chi crederebbe che da questo giovane vecchietto dottoruzzo un giorno avesse a risultare un poeta cosi appassionato e ardito?

La sua ambizione allora non era che di erudito. Se avesse ricevuto una migliore educazione, l'erudizione e la filologia ben intesa sarebbero state parte secondaria della vita di quest' uomo mirabile che bastava alle materie più diverse quali la filologia e la poesia; ma qui si tratta di una specie di filologia direi ecclesiastica penosamente, non governata da uno scopo scientifico. Studiava, studiava per farsi bello puerilmente di un'erudizione stantia che a lui pareva «mirabile e recondita. » Insomma, il giovinetto Leopardi ambiva la giornea dottorale. Questa fu la sua prima e innaturale tendenza. La sua educazione, l'aria immobile e circoscritta della casa pa

(1) Appendice all' Epistolario di G. Leopardi, per cura di P. VIANI, Barbèra 1878, pag. 160.

terna oscurata da tutto lo spirito di reazione dominante in talune classi al principio di questo secolo, sopirono da principio in lui gli ardimenti della sua filosofia pratica e la sua vocazione poetica. Ci meraviglieremo ch' e' fosse allora cattolico quando non sapeva d'esser poeta? I primi studi e l'educazione lo avevano interamente snaturato.

Intanto, quasi stesse sopra un letto di rose, oltre Giulio Africano, si occupava dell'Alicarnasseo del Mai, del Porfirio e dell'Eusebio dello stesso. Si occupava anche a tradurre l'Odissea e il secondo libro dell'Eneide, su cui fondava tante speranze. Il Saggio di traduzione dell'Odissea fu pubblicato nel 1816. Nel 1817 dando la versione del secondo dell'Eneide, era già scontento della sua Odissea, scontentissimo del Mosco fatto circa il tempo stesso: « Da che sono di tal tempra, egli dice, che nulla mi va a gusto di quanto ho fatto due o tre mesi innanzi. (1) » I mesi per lui erano anni. Nello stesso tempo, la prima lettera che scrisse a Vincenzo Monti conferma ancora che non avea acquistato alcuna coscienza di se stesso, alcuna opinione ragionevole delle lettere. Vincenzo Monti a cui egli era tanto superiore, benchè in si verde età, come erudito e grecista, era per

(1) Studi filologici di G. Leopardi. Firenze, Le Monnier 1845, pag. 171.

lui il suo principe. Scrivendo a lui prova un tale tremilo, che scrivendo a re non gli avverrebbe di provare. Lo chiama grande amico del grande Annibal Caro. Il Monti era qualcosa meglio di quel povero commendatore che pur occupò per secoli l'Italia, e l'oc cupa! Non osa pur pregarlo che legga la sua traduzione dell'Eneide, ma soltanto che non lo rifiuti come miserabilissimo dono e non si tenga offeso di tanta audacia. E di ciò, aggiunge con frase alla Caro, gliene saprà grado assaissimo. Con la stessa umiltà tremante si appressa e scrive ad Angelo Mai, mandandogli qualche saggio di sua erudizione. Allora contava 19 anni. Nello stesso anno 1817 scrisse la prima lettera a Pietro Giordani, il più grande estimatore ed amico che poi ebbe in Italia.

E pur comincia ad apparire in lui una ignota inquietudine, un bisogno d'affacciarsi fuori di Recanati, scrivendo ora all' uno or all' altro di quelli che gli parevano più grandi nella repubblica letteraria italiana. Eh! questa inquietudine mi fa prevedere che l'uccello fra non molto piglierà il volo. Nelle lettere che comincia a scrivere al Giordani si sente per la prima volta un accento nuovo. Al giovinotto dottorale e secco spuntano sentimenti d'una delicatezza virginea, un entusiasmo che non si riscontra negli aridi saccentuzzi. Queste lettere al Giordani sono la prima

fioritura della sua bell'anima di poeta ancora inconsapevole. C'è della religione più che della stima, c'è direi un nuovo e fresco alito come ne' prati rallegrati da pioggia a primavera. Tanta ricchezza di entusiasmo giovanile ci annunzia vicino il poeta.

Prega il Giordani che gli perdoni l'audacia se gli scrive il primo e se gli manda un suo libro, uno di que' primi suoi lavori eruditi. « Tolga Iddio che io le ricerchi il suo giudizio giudizio su di esso. » Invece il libro empiè di meraviglia il Giordani che senti subito in quell'umile giovane un uomo che riuscirebbe straordinario. Tanta sete di sapere in un contino italiano era veramente cosa inusitata. A Giordani non pareva di credere a se stesso.

Or quando Leopardi ricevè la risposta cortesissima e amorevole quanto dir si possa, l'anima gli si dilatò come all'annunzio d'una ventura non mai sperata. Al pari di Giordani, egli non credeva a se stesso vedendo e leggendo que' caratteri. Da quanto tempo e con quanto amore aveva vagheggiato di stringersi a Pietro Giordani! Il conseguimento d'un bene tanto desiderato lo fa dare in ismanie di gioia. Egli ride e piange come fuor di se. Giordani risponde con due lettere alla di lui prima.

L'essersi egli, già grande nella pubblica opinione, fatto incontro al desiderio del modesto oscuro gio

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