Che s'il Ciel miro allor che Cinzia pura Più lo sguardo non volgo a mirar quelle, Il qual co' raggi suoi la terra indora, Nè fa più incanto alcuno alla mia mente Lettera di Madama Piccolomini sotto il nome di Clori, in risposta a Fille nobil figlia dell' Arno, che le ha richiesto il suo ritratto. La mia dipinta Immagine Dalla maestra mano D'un ingegnoso Artefice, Fille, richiedi invano. Chi al sacro umor Castalio Sovente i labbri appressa, No, che ad altrui non volgesi Le Muse in sen le destano Inusitati ardori, Gli offre i pennelli Apolline, Del tempo all' urto cedono D'ogni più ardito e celebre Ma dell' alato Veglio Nulla temendo i danni, A contrastar cogli anni. Solo del volto fede; Ma viva a un tempo esprimono Onde se il guardo cupido In me fissar tu vuoi Su queste carte, o Fillide, Come baleno rapidi Scorser sei lustri: omai Dal dì, che in riva all' Arbia * Al Sole apersi i rai. Di chiara stirpe, e nobile Ma no, che mio non reputo *Picciola riviera vicino Siena. Appena appresi a sciogliere Che il labbro altrui distinsemi Col titolo di Bella. Indi con gli anni accrebbesi Sul volto mio vivace, Quel non so che d'amabile I labbri sorridenti, Ed allor fu, che vidimi A gara offerti i cori Di giovin turba, ed avida Di cento adoratori. Ma che giovommi (ahi misera!) Se un Astro iniquo e rio, In mezzo al fasto, o Fillide, Ad un canuto amante. Nell' agghiacciato seno Il chiuso umor, che il cerebro Follíe più strane, e barbare Io fra le angoscie, e i palpiti Che notti, oh Dio! che torbidi Funesti di passai! In tal procella orribile Il mio vivace spirito E mi sostiene ancora. Già pria due fresche giovani, Cedendo alla lor sorte, In quest' istesso talamo Trovata avean la morte. Io di costanza indomita Col cuore ognor armato, Nel sen trattanto, o Fillide Calmossi a poco a poco, Sol d'un pensier d'onore, Giunsi con te per arduo Recondito sentiero Ai puri fonti e lucidi, Chiara per te si rese * Sir Isaac Newton, F |