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fa molto ove importi a chiarire quanto le mutazioni de' tempi, l' età diversa, e la carità famigliare più ch'altro, sogliono rattenere o sospingere i grandi ingegni. Se non che la tempra di Dante pativa più presto di rompersi che di piegarsi. Tu senti a ogni poco com' egli perseverava in quell'opera di mal cuore, e pare che esclami

E più l'ingegno affreno ch'io non soglio
Perché non corra che Timor no guidi

Talvolta si slancia animoso; ma più spesso erra lento quasi avvolgendosi intorno a un circolo donde vorrebbe e non gli vien fatto di liberarsi. Non die' termine al libro, nè credo l'avrebbe mai dato.

CXX. La congettura ch' ei n' abbia mandato agli amici suoi di Firenze alcuna parte, a me pare giusta, ma può non essere. Ad ogni modo la fama del suo sapere gli valse poco e n'è prova ch' ei fu richiamato a' patti proposti agli altri esuli; e li sdegnò rispondendo: "Or così, dopo quasi anni quindici d'esilio, Dante Aligheri è richiamato gloriosamente alla patria? E l'illibata sua vita patente ad ogni uomo, otterrà premio sì

e

fatto? e il sudore, e gli studj, e la lunga perseveranza (1)?"- S'è notato che questa lettera sì dalle parole per trilustrium fere perpessus exilium, e sì dalle novità inaspettate in tutta l'Italia fra gli anni 1314, e 1318 (2), pare senza dubbio dettata allorchè la sede pontificia vacante, le mosse de' ghibellini, tutte le città de' guelfi Lombardi in pericolo, e l'ambizione ardita e la gioventù di Cane della Scala, rinsuperbirono l'ira e le speranze di Dante. D'allora in poi credo ch' egli ponesse tutta la mente, e l'ardire e la sua generosa ferocia a far divino il poema. Allora forse i tratti più caldi su le calamità dell' Italia, e le riforme della religione furono scritti; e sentiva ch'ei non aveva da aspettarsi di rivedere Firenze, se non per decreti della provvidenza e della vittoria. Allora non che stimarsi esiliato, esiliava la sua patria da sè: ed ascoltava più forte il comando e le ispirazioni d'adempiere ad una celeste missione (3).

(1)

"Estne ista revocatio gloriosa qua d. all. (Dantes Allagherius) revocatur ad patriam per trilustrium fere perpessus exilium? hecne meruit conscentia manifesta quibushbet? hec sudor et labor continuatus in studiis?"

(2) Vedi vol. 1, sez. XXXIX in fine.
(3) Sez. XLI. seg.

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e additate liberamente le riforme alla religione senza nondimeno poter additare ad un' ora evidenti gli indizj della divina rivelazione nel libro, il poeta non avrebbe esercitato nè pur allora su gli uomini l'autorità di profeta. Di che ho toccato più sopra; e quando avrò a risalire all' origine vera della visione di Dante, atterrò la promessa e la sua consacrazione nel Paradiso al ministero Apostolico lasciata da me per ipotesi (1), avrà lume e sostanza di verità; o che mi spero.

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CXXII. II Convito da prima parrebbe fatto per provvedere al disegno letterario della commedia-" A perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d'Italia che commendano lo Volgare altrui, e lo proprio dispregiano," prova che s'ha da scrivere in Italiano-" Si vedrà in questo comento l'agevolezza delle sue sillabe, la proprietà delle sue condizioni, e le soavi orazioni, che di lui si fanno le quali, chi bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima ed amabilissima bellezza (2) "-Ma non

(1) Vedi vol. I, sez. XLVIII.

(2) Convito, pag. 93.

procede. Indaga alle volte l'etimologia de' vocaboli, solo per applicarli a filosofiche definizioni. Poscia nel libro ch' ei nomina della Volgare Eloquenza, cominciò ad illustrare l'idioma poetico ch' egli creava; e tracciandone i primordj e i progressi, desunse la teoria più sicura della lingua letteraria degli Italiani. Che s'anche il trattato non fosse stato accennato nell'opera del Convito come da farsi (1), le lodi meno timide a Federigo II, e le derisioni a' principi Italiani vassalli della Chiesa, palesano ch'ei lo scriveva da poi che s'era deliberato di non più patteggiare co' guelfi. A que' di Firenze nega non pure il privilegio di dare il nome alla lingua, ma la facoltà d'arricchirla più facilmente col loro dialetto (2). Qui parmi dicesse troppo. Ogni lingua che non sia rinfrescata da' dialetti popolari rimanesi produzione men di natura che d'arte, freddissima, magistrale, rettorica, e poco dissimile dalle lingue morte scritte da' dotti; e l' esperienza di cinquecent'anni ha manifestato che i dialetti più geniali alla lingua scritta in Italia, sono i Toscani; e il Fiorentino assai più degli altri. Ma non si (1) Vedi vol. I, sez. XXIX.

(2) De Vulg. Eloq. Lib. I. c. 15. pag 25, seg.

t'accusano d'eresia e i giornalisti non fanno insieme da critici e spie, non è poco.

CXXIV. Contendono e contenderanno fino a quel dì che verrà onnipotente, se pur verrà mai, l'arbitrio della nazione ad imporre silenzio a' grammatici. Per ora giovi a' loro padroni che i valentuomi seguano a disputare del come s'abbia da scrivere tanto che mai nessuno l'impari. E che altro poteva fare l' Accademia della Crusca fondatasi mentre Filippo II e il Concilio di Trento, e l'istituzione de' Gesuiti occupavano a un tratto l' Italia (1)? Allora i magnanimi tacquero, e se taluno d' età in età riparlò con l' eloquenza degli avi, la loro patria non era più atta ad intendere; e la lingua piacque ridotta a musica senza pensiero, finchè la filosofia del secolo scorso e poi la vittoria trapiantarono in Italia lo stile Francese che la sviò da' latini e da' greci. Tuttavia accrebbe le idee; e perchè imbarbariva la lingua per mezzo della tirannide, irritò l'amor patrio, e taluni la depuravano anche della scabbia insinuatasi

(1) Discorso sul Testo del Decameroue, pag. XCII— XCVI.-Ediz. Pickering.

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