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Sidonio Apollinare, e tanti altri, sanno conciliare ad un tempo i pastorali doveri cogli studi della pagana cultura, confondere gli elementi delle due civiltà per farne uscir fuori quella che verrà a chiudere il suo ciclo coll Alighieri.

L'abuso della esegèsi allegorica, applicata alle tradizioni e alle opere del mondo pagano, avea siffattamente radici ne' principî che tramutarono l'antica civiltà nella nuova che, strano a dirsi!, ben poteva S. Girolamo molti secoli innanzi antivederne per l'appunto sino le ultime conseguenze. Scrivendo al suo amico Paolino diceva: << Di tal passo seguendo, un giorno si verrà a dire sinanche che Virgilio conobbe i misteri di nostra fede perchè scrisse che la Giustizia ritornava già sulla terra, e nuovamente era apparsa l'innocenza dell'età d'oro, e disceso un Figlio dal cielo. E si giungerà ad affermare che fossero parole di Dio Padre al Figliuolo quelle che il Poeta fa dire da Venere ad Amore Mio figlio, sola virtù mia, e mia alta potenza!

Or che avrebbe mai detto Geronimo se ciò ch'esso accennava come assurda ed ultima esagerazione del sistema vigente nell'età sua lo avesse visto, dopo nove secoli, puntualmente avverato dall'Alighieri allorchè nel Purgatorio fa dire da Stazio a Virgilio:

<< Quando dicesti secol si rinnova,

Torna Giustizia, e primo tempo umano,

<< E progenie discende dal ciel nova,

<< Per te poeta fui, per te cristiano;

o quando nel Convito, quasi ad avverare l'altro presagio, lo stesso Dante scriveva: » ragionevole è credere

che li movitori del cielo di Venere (angeli) naturati dell'amore dello Spirito Santo, fanno lo movimento di quel cielo pieno d'amore, siccome testimonia Virgilio ove dice Venere ad Amore: Figlio, virtù mia, figlio del sommo Padre; e Ovidio quando dice che Venere disse ad Amore: Figlio, armi mie, potenza mia! 1

Quando veggiamo i più forti intelletti avere sì completamente perduto la genuina intelligenza dei classici, e solo in essi ammirare come bellezze estetiche i più aridi e falsi significati teologici e scolastici; quando udiamo un Alighieri dirci nel Convito: che il Catone di Lucano esprime Dio Padre; e Marsia sua moglie, repudiata e passata ad Ortensio, l'anima che si volge alle cure mondane; e il ritorno a Catone di Marsia già vecchia, supplicante che la riammetta al suo talamo, l'anima stanca delle cure del mondo rivolgentesi a Dio; quando lo stesso Alighieri-e i suoi predecessori e contemporanei con lui vede nella Eneide un lungo trattato di psicologia e di morale: Enea simboleggiare l'umano intelletto; Troia, abbandonata e disfatta, la vita dei sensi domata; Farduo e lungo peregrinaggio d'Enea e dei compagni, gli stenti dell'anima e di tutte le facoltà intellettive per approdare in Italia, cioè per giungere alle dolcezze della contemplazione ideale; Turno, e i suoi commilitoni, osteggianti la impresa, le perturbazioni dell'animo avverse alla vita contemplativa; e Venere, amica a Troia e sì infesta al viaggio d'Enea, la potenza sensuale: quando queste e simili interpretazioni ci mostrano con quali preoccupazioni si leggessero i classici, tanto da vedere sinanco nei

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più osceni libri erotici trattati di morale ascetica, chi vorrà maravigliare se la più alta meta cui credesse potere toccare il poeta del medio evo, e Dante in ispecie, quella fosse del simboleggiare, sotto il litterale e apparente, diverso e più recondito senso!

E sarebbe tempo oramai di chiarire le influenze che questo canone estetico

ma certo

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erroneo o no, poco monta, venne esercitando su tutte le arti espressive di quella età.

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Ma prima mi è d'uopo esaurire ancora una indagine, dare risposta al seguente quesito: Tanta universalità del sistema simbolico, sia nello intendere, sia nel creare le opere d'arte, tanta persistenza a durare per dieci secoli, a traverso le più svariate fasi della storia civile, da Marziano Capella e Boezio sino all'Alighieri ed al Frezzi, può veramente attribuirsi soltanto alle cagioni ch'io ne addussi e sviluppai sino ad ora, cioè la tendenza sintetica propria d'ogni inizio di civiltà; il desiderio di rilevare, con supposti sensi morali, la importanza del politeismo; la sagace tendenza della cristiana polemica a far servire tutti gli elementi della pagana civiltà per le esigenze della novella?

Tutto ciò non è poco; ma non sarebbe bastato di certo. A spiegare la universalità e perduranza di quel sistema è d'uopo cercare ed aggiungere qualch'altra cagione più generale e durevole, e che possa dirsi del pari inerente ad una civiltà cadente e decrepita, come quella degli ultimi secoli dello impero romano, nonchè a quella che ridestavasi a nuova giovane vita dall'undecimo al decimoquinto.

Questa cagione io credo averla trovato nell' indole

stessa della ontologia cristiana. È dagli stessi principî costitutivi del cristianesimo, considerato come dottrina ontologica comune ugualmente a tutti i secoli di cui parliamo, che si vedrà sorgere la necessità della forma simbolica, non solo nelle arti espressive, ma ed anche in tutti gli altri elementi ed istituzioni sociali.

Di ciò tratterò nel seguente capitolo.

CAPITOLO TERZO. ·

Cardine delle cristiane dottrine ontologiche era la ricisa e netta credenza in due mondi: intellettuale e invisibile l'uno, manifesto l'altro e sensibile; il primo, tipo ideale e assoluto, imagine materiale e caduca il secondo.

Di siffatta credenza, già formulata dalla scuola Platonica più secoli innanzi l'êra volgare, sulle orme dell'antichissima orientale filosofia, durò costante la tradizione in Alessandria, non solo nelle Scuole posteriori al cristianesimo, o sincretiche, ma ed altresì nelle anteriori, od avverse.

« La filosofia barbara -- così Clemente Alessandrino, parlando della orientale-conobbe esistere un mondo intelligibile, ed un altro materiale: archetipo il primo, e l'altro imagine di quell'esemplare. 1

<< Platone opinò soggiunse Agostino - essere due mondi, uno intelligibile, nel quale abitasse la stessa Verità, e l'altro creato, che ci è manifesto pe' sensi. E però disse vero il primo, e verisimile questo fatto ad imagine dell'altro. » 2

1 Strom. lib. V.-Cf. Eusebio praep. evang. lib. XI, c. 12, ov'è da rettificare la citazione ch'ei fa del libro di Clemente.

2 Contra Acad. lib. III, c. 17, n. 37.-Cf. Platone nel Timeo, e nel Fedone.

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