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di cui le unghia della Lupa aveano squarciato la inconsutile vesta; che intendea liberare l'Umanità dalla miseria in cui, dimentica dell'Intelligenza superiore e fatta belva di molti capi, si dibatteva: con additarle l' Inferno a cui conduce la via della Lupa, e intonandole colla tromba del Santo Spirito: ECCE QUAM BONUM ET QUAM

JUCUNDUM HABITARE FRATRES IN UNUM.

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Comm. passim.-Monarch. lib. I in fine.-Salm. CXXXII, 1.

CAPITOLO DECIMOTTAVO

Se, e quanta parte di personali risentimenti cospirasse nell'animo del Poeta a ringagliardire la voce della coscienza; fin dove, senza aiuto d'armi vittoriose, e' fosse deliberato ad assumere apertamente la sacra missione d'intimare a' mortali la volontà della loro eternale imperatrice, la Intelligenza, riesce ben arduo il chiarire.

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Certo, e' non era tal uomo a scordare (chi l'avrebbe saputo!) l'onta e il martirio inflittigli dalla lupa meretrice e dalle belve cui quella ammogliavasi, o da illudersi poter vincere, per sola virtù di nuda parola, i démoni dell' età sua, senza ch'altro messo di Dio secolui concorresse coll' armi alla difficile impresa. Da ciò quella continua vicenda per tutto il Poema rispondente alla varia fortuna delle armi antiguelfe in Italia — or di profetiche ire che irrompono minacciose; or d' odî repressi, e quanto più repressi roventi, che si ravvolgono in pensato velame, ma non si fitto che il tempo e gli eventi non potessero un giorno squarciarlo. Da ciò quel perenne contrasto nell' animo suo (vivente non divulgò, o non intere, le due ultime Cantiche) fra il timore di perdere ogni asilo fra gli uomini, se tutto e liberamente dicesse il vero, e quello di perdere vita fra' posteri, se timidamente lo rivelasse.

Senonchè, quali che fossero, gli odì, le speranze, i

gare

timori, che a vicenda lo incitavano, o rattenevano nella inagnanima impresa, questo di certo può dirsi, e gli è lode pari solo all'ingegno: che mai non ebbe a rinneanco a' giorni in cui l'animo stanco dettavagli i più miti sensi del Convito pur un solo de' suoi principi, o a smentire la legge ch' ei pose a sè stesso di spregiare a ugual modo i favori ed i colpi della Ventura; di che, drittamente altero, vantavasi quando di sè facea dire alla beatrice: L'AMICO MIO, E NON DELLA VENTURA.

E se di ciò fo ricordo, non è senza perchè.

Prima di chiudere il presente lavoro, giova tornare, in modo diretto, sulla idea principale che in esso presi a trattare. E come, all'inizio, esaminando alcun luogo delle Opere Minori, che riusciva inesplicabile e assurdo stando al modo comune d' intendere la beatrice, ci si schiuse spontaneo il vero concetto di essa, così, sul finire prendendo ad esame un verso della Commedia, di strano o inettissimo senso nell'ovvio modo di ravvisare la beatrice, verrà posto il suggello al significato che in essa trovammo. Adempiremo così le condizioni metodiche d'ogni vera scienza: la quale, tentando, ritrova; applicando, conferma.

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Dove la beatrice, nella Commedia, allegoricamente rappresentasse, come ci han detto finoggi, la Scienza teologica, il verso or citato « L'amico mio, e non della Ventura» riuscirebbe poco meno che assurdo: perchè, e qual significato avrebbe l'essere amico alla Teologia, e non alla Fortuna? o se vuolsi, l' essere Dante amato dalla Teologia, e non dalla Fortuna? L'antitesi fra' due termini della proposizione che si chiude in quel verso,

antitesi comandata dalla sua stessa forma grammaticale, dove sarebbe ella mai, o chi saprebbe trovarla? Teologia e Fortuna sono certo due termini disparati; ma non contradittori. I contradittori si deducono a vicenda tra loro dal senso opposto; canone logico che lo stesso Alighieri così formulava : « inferunt se contradictoria invicem a contrario sensu» come, a modo d'esempio, da morte, vita; da moto, quiete, e all' opposto. 1 Or Ichi oserebbe mai dire che il contradittorio della scienza teologica sia la fortuna?»

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Questo solo cred' io, sarebbe dovuto bastare per escludere il senso che fu dato alla beatrice; e per affaticarsi a cercarlo in ciò che veramente nel pensiero di Dante era il contrario della fortuna.

Ed era facile assunto.

Nel Convito scrivea : « Disse Aristotile che quanto più l'uomo soggiace all' Intelletto, tanto meno soggiace alla Fortuna. » E il passo d' Aristotile cui riferivasi è questo: « Ubi Mens plurima, ibi Fortuna minima. Ubi plurima Fortuna, ibi Mens perexigua: » concetto cui rispondeva il biblico verso: « Homo, cum in honore esset, non intellexit. >>

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E dopo ciò, non altro resterebbe per vero ad aggiungere, se non che l'Alighieri medesimo apertamente additò qual fosse il significato della sua beatrice-beata: il contrario della Fortuna, la Intelligenza. Ma non sarà inutile spero, seguire, com' ho fatto per tutt'altri ele

▲ Monarch. lib. II, cap. 10.

2 Tratt. IV, cap. 11.

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3 Magn. Moral., lib. II, cap. 9.—Salm. XLVIII, 12, 21.

menti, la genesi storica e logica di quel concetto d'antitesi, insino al punto in cui prese nella sua mente le forme con che venne a far parte del suo sistema.

L'antagonismo fra Intelligenza e Fortuna, contrastantisi il dominio materiale e morale sull'Universo e sull'Uomo, fu antichissimo e comune argomento alle investigazioni de' filosofi, a' precetti de' moralisti, alle fantasie de' poeti e de' popoli. Sul primo vestibolo di quella che dicevano Filosofia "naturale una quistione si offriva spontanea a' suoi primi cultori: l'universo e le sue leggi son eglino effetto d'una Intelligenza coordinatrice e provvedente, o l'inconsulta emanazione d'una cieca potenza? E così pure a tutte le scuole della Filosofia morale fra' Greci, per le quali non altro era l'Etica che la scienza del massimo bene, nell' investigarlo, affacciavasi la preliminare domanda: i beni di che godono gli uomini sono repartiti secondo ragione, o pur no?— Rivelavasi così fin d'allora quella invincibile tendenza analogica ed egoistica che spinge l'uomo a fare delle sue facoltà e di sè stesso il tipo e lo scopo dell'esistente e dell' ideabile.

La MENTE universale di Anassagora, e il Caso di Democrito furono i termini estremi delle svariate soluzioni che ottennero i due quesiti.

Primo Aristotile portava drittamente il problema di quell'antagonismo, dall'ontologico, nel vero suo campo logico e subbiettivo. E notò come tutti i fenomeni, sì fisici che morali, potendo attribuirsi o a leggi costanti della natura, o ad umano volere, ogni fatto del quale o non si sappia vedere la legge naturale da cui dipen

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