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IN QUAL TEMPO FU SCRITTO DA DANTE

IL TRATTATO DELLA MONARCHIA,

NOTA DEL PROFESSOR CARLO WITTE.

Un dotto alemanno, il signor Wegele, avendo in un suo libro, Vita ed opere di Dante, nella loro connessione colla storia dell' incivilimento, Jena 1852, emessa l'opinione, che la fede ghibellina di Dante, cioè la sua convinzione d'un potere imperiale ordinatore e moderatore non sottoposto alla potestà pontificia nelle cose politiche, debba essere anteriore all' esilio suo; giudicò il Witte opportuno di sviluppar le ragioni, che lo mossero ad assegnare al Trattato de Monarchia una data di gran lunga anteriore a quella che generalmente gli s'attribuisce, anteriore cioè agli anni 1310-1313. Il Witte pertanto ragiona così:

« Il non trovarsi nel Trattato De Monarchia nessuna allusione a circostanze attuali o ad avvenimenti speciali, dovrebbe muover dubbiezza contro al fondamento della supposizione, che si tratti di scritto composto a difesa di spedizione contemporanea. L'imperatore della Monarchia è personaggio meramente ideale, senza che si scuopra traccia d'un parti. colare individuo; nè si allude a condizioni o a casi del tempo e della venuta del settimo Arrigo. Si badi alla differenza che passa tra questo libro e la notissima lettera ai principi e popoli d'Italia, il cui scopo era precisamente quello, che erroneamente si è voluto attribuire alla Monarchia, di difendere cioè i diritti d'Arrigo VII, di far animo agli aderenti di lui, e di procacciargli nuovi amici. Il raziocinio nell' uno e nell'altro scritto è quasi identico, ma diversissimi sono e il mode e l'espressione e il sentimento. Nella Monarchia tutto, sino all' entusiasmo, partecipa d'un carattere teoretico: nella lettera all'incontro non c'è riga, in cui il lettore non senta il risuonare de' turbini or ora passati, la tristezza de' tempi non moderati da sommo reggitore, il risvegliarsi di nuove e liete speranze. Fin anche una testimonianza diretta si trova, tale

da escludere positivamente la contemporaneità di queste due apologie dell'impero. La lettera nomina Arrigo qual benedetto dal papa: Hic est, quem Clemens, nunc Petri successor, luce apostolicæ benedictionis illuminat; mentre la Monarchia (III, 3) cita il papa fra coloro che avversano l'impero nel senso di Dante: Summus pontifex D. N. J. C. vicarius et Petri successor.... nec non alii.... de zelo forsan, non de superbia contradicunt. Chi mai potrebbe supporre l'Alighieri avere scritto, nel tempo stesso e nella medesima occasione, due sentenze così contradittorie? Nel Convito (IV, 4 e 5) incontriamo nuova argomentazione intorno alla divina origine dell' impero; e quantunque essa di sovente si discosti da quella ch'è nella Monarchia, le somiglia però nella pacatezza teorica, e nell' essere scevra d'allusioni alle condizioni del presente. Ora quel trattato del Convito venne scritto di certo prima della discesa d'Arrigo in Italia. Ci crediamo dunque giustificati negando la connessione della Monarchia con siffatto avvenimento. Resta ora a decidere a qual tempo essa appartenga: se cioè debba collocarsi prima o dopo il viaggio del Lussemburghese.

» Il trattato della Monarchia comincia colle seguenti parole: Il principale officio di tutti gli uomini, i quali dalla natura superiore sono tirati ad amare la verità, pare che sia questo: che com' eglino sono arricchiti per la fatica degli antichi, cosi s' affatichino di dare delle medesime ricchezze a quelli che dopo loro verranno. Per che molto di lungi è dall' officio dell' uomo colui che, ammaestrato di pubbliche dottrine, non si cura di quelle alcuno frutto alla repubblica conferire. Costui non è legno, il quale piantato presso al corso delle acque, nel debito tempo frutti produce; ma è più tosto pestilenziale voragine, la quale sempre inghiottisce e mai non rende. Pensando io questo spesse volte, acciò che mai non fussi ripreso del nascoso talento, ho desiderio di dare a' posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri tentate. È egli da ammettersi che Dante, conscio del suo valore, e libero di falsa modestia, abbia potuto scrivere così nel 1311, forse più tardi ancora? Poteva egli farlo, parecchi anni dopo d' aver pubblicato i quattro trattati del Convito, di quell'enciclopedia della sapienza del suo secolo, lasciando anche da parte la Vita Nuova e le molte liriche poesie? O quelle parole non indicano esse uno scrittore, il quale si presenta la prima volta con un lavoro di qualche importanza, dovendo dir di sè stesso: il nome mio ancor molto non suona?

» Se continuiamo a tener la Monarchia a confronto col Convito, composto verso la fine del 1308, incontreremo altri

passi additanti la priorità di quella. Nella Monarchia (II, 3) si dice: Constat, quod merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet propriæ vel majorum: est enim nobilitas virtus et divitiæ antiquæ, juxta philosophum in politicis. Nel Convito (IV, 3) ripudia con asprezza tale sentenza: Questa opinione, che gentilezza era antica ricchezza e bei costumi, è quasi di tutti...., che fanno altrui gentile per esser di progenie lungamente stata ricca, conciossiacosachè quasi tutti così latrano. La contradizione è ovvia, nè si può dubitare quale delle due sentenze sia anteriore all' altra. Se nella Monarchia Dante dice constare che nobiltà si acquista per la virtù propria e quella de' maggiori, egli non si mostra consapevole dell' altra opinione, che dalla sola propria virtù la fa derivare. Allorchè poi nel Convito, con parole aspre, cita come opinione quasi di tutti quella, che ricchezze ereditate procacciano nobiltà, sembra indicare essere stato egli medesimo di siffatto parere. Si aggiunge poi, che il luogo ben noto del Paradiso (canto XVI, v. 1-9) tiene molto più del ragionamento del Convito, che non di quello della Mo

narchia....

» Generalmente parlando, la Monarchia ci fa impressione di scritto meno maturo. Il modo di ragionare è inceppato, e non privo di sofismi. L'autore cerca d'imporre al lettore mediante i nomi e il numero delle autorità, da lui non sempre appositamente citate. Alcune citazioni sono così inesatte da non potersi rintracciare per esempio, quella d' Orosio (II, 3), mentre altre sono assolutamente false. Nel libro II, cap. 5, si attribuisce a Tito Livio un passo intorno a Cincinnato, che senza dubbio è preso da Orosio (II, 12). Nel nono capitolo cita Livio quale autorità per una delle tradizioni medievali d'Alessandro Magno. L'opera di san Martino Dumiense,

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Bracarense, sulle virtù cardinali, secondo l'opinione prevalsa ne' bassi tempi, è nella Monarchia (II, 5) ascritta a Seneca, mentre nel Convito (III, 8), senza dubbio in seguito a studii più maturi, la cita senza nome d'autore. La lettura de' classici ed altri autori si palesa poi nel Convito molto più estesa che non nella Monarchia.

Rimane da citarsi un argomento, il quale, quantunque meno ovvio, ci sembra aver gran peso nel determinare la priorità della Monarchia. Si sa quanta importanza quella età abbia dato alle questioni in questo libro esaminate. Non vogliamo già attribuire soverchio peso al fatto, che mentre Dante lamenta la temporalis monarchic notitia maxime latens, ed annunzia volere intentatas ab aliis ostendere veritates, di già sotto Arrigo VII, Engelberto, abbas admontensis, si accinse a somigliante dimostrazione nel libro De ortu

et fine romani imperii. Ma altra coincidenza rimane da osservarsi. Verso la fine del 1302 papa Bonifazio VIII pubblicò la bolla Unam Sanctam, la quale, quantunque più specialmente diretta contro le pretensioni di Filippo il Bello, sviluppa una teoria generale delle relazioni tra il potere ecclesiastico e il temporale; teoria affatto contradicente a quella, di cui l'Alighieri si fece il campione. Ci asteniamo dall' ammettere che se la bolla avesse preceduto il trattato della Monarchia, l'autorità di papa Bonifazio avrebbe bastato a ritener Dante dalla dimostrazione delle sue idee; anzi non parrebbe strano che l'autore del trattato avesse voluto combattere le ragioni papali senza nominarne l'autore. Ma in tal caso saremmo autorizzati ad aspettarci una replica o confutazione compiuta e salda delle ragioni addotte da sì eccelso avversario. Quantunque però l'una e l'altra argomentazione intorno a questione molto combattuta, in varii luoghi s' incontri, com'è ben naturale, contuttociò una siffatta confutazione manca a tal segno da farci giudicare impossibile l'aver Dante conosciuta la bolla allorchè compose la Monarchia. Le ragioni dalle sacre Scritture dedotte affine di provare la dipendenza del poter secolare dall' ecclesiastico, a cui rispondono i capitoli 4 e 9 della Monarchia, sommano a sei: altrettante se ne trovano nella bolla: ma essa e il trattato non coincidono se non in due di questi passi, tolti da Luca, XXII, 38, e da Matteo, XVI, 19. Dei quattro altri, su cui il pontefice si fonda, nella Monarchia non si fa menzione; anzi, ed è cosa notabile, l'autore ne cita uno (Giovanni, XIX, 23, Monarchia, III, 10), qual argomento in suo favore, senz'altra osservazione; mentre si mette a combattere quattro sentenze, che nella bolla non si trovano difese nè punto nè poco.

"Se a queste ragioni positive aggiungiamo altra negativa, essere cioè la Monarchia, oltre la Vita Nuova, unica tra le opere dantesche in cui non si alluda all'esilio, non possiamo non esser d'avviso, che il più volte ricordato trattato abbia avuto origine prima del 1302, anzi prima del 1300. Trovandosi nella Monarchia (II, 1, ut ipse solebam) la dichiarazione dell'autore intorno all' aver partecipato nella prima gioventù alle opinioni guelfe della patria e casa sua; è agevole il conoscere di quale e quanta importanza, pel retto intendimento dell' indole di Dante e della sua attitudine politica, sia il fatto d' aver egli, appena giunto a vera maturità, non solamente abbracciate le opinioni ghibellino-imperiali, che dovettero poi decidere della sua sorte, ma di averle ridotte già sin d'allora a compiuto sistema. "

A queste osservazioni del Witte credo opportuno dover far seguire alcune mie parole. Che la Monarchia non sia un

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libro composto a difesa di spedizione contemporanea (la spedizione d'Arrigo); vale a dire, non sia un libro di circostanza, ma un libro che abbia tutto il carattere d'un lavoro teoretico, bene è stato dal Witte dimostrato. Ma se per gli argomenti da lui posti in campo si prova, che il libro è anteriore al 1310, non discende la conseguenza che sia pure anteriore al 1300, cioè anteriore non solo all' esilio di Dante, ma eziandio al suo priorato. Non starò qui a dir le ragioni, per le quali io credo non essere stato il Convito pubblicato da Dante prima del 1314; ma anco ammettendo col Witte che fosse pubblicato qualche anno innanzi, e convenendo con esso (nè qui v' ha principio di dubbio) che al Convito sia anteriore la Monarchia, non veggo la ragione per la quale non si possa a questo libro assegnare una data meno dal 1310 lontana di quello che il Witte vorrebbe. Ma dice il Witte la Monarchia dover esser anteriore anco al 1302, perciocchè in quest'anno essendo da papa Bonifazio stata pubblicata la bolla Unam Sanctam, il libro di Dante avrebbe dovuto essere una confutazione compiuta e salda delle ragioni addotte da si eccelso avversario. Pure io osservo, che una confutazione diretta delle parole d' un pontefice non poteva conve Dire ad un buon cattolico com'era Dante, il quale, cominciando la battaglia contro coloro i quali, indotti da alcuno zelo inverso la Chiesa loro madre, la verità che qui si cerca ron conoscono, protesta di voler usare tutta quella reverenza, la quale è tenuto usare il pio figliuolo inverso il padre, piv inverso la madre, pio inverso Cristo e la Chiesa e il pastore, e inverso tutti quelli che confessano la cristiana religione (III, 3). Dubita infatti lo stesso Witte, se l'autorità di papa Bonifazio avrebbe bastato a ritener Dante dalla dimostra zione delle sue idee. Ma come l'avrebbe ritenuto quand'egli avesse, com' ha di fatto, trattato teoricamente il subietto, rivolgendo i suoi argomenti e i suoi sillogismi contro i Decre. talisti? E perchè v'era di mezzo una bolla, non poteva Dante, usando tutta la riverenza, siccom' egli protesta, confutare non direttamente il papa, ma in via di trattazione scientifica, le pretese de' cherici? Ma Dante, s' insisterà, avrebbe dovuto in un modo o in un altro confutare tutte e singole le ragioni da Bonifazio addotte. Ed io domanderò: era egli ciò necessario? era egli ciò indispensabile? E d'altra parte, se a Dante era ignota l'opera di san Tommaso, colla quale poteva sciogliere il nodo della questione, non poteva essergli ignota la bolla di Bonifazio? Ma il fatto si è che la bolla On gli era ignota; poichè nella Monarchia le allusioni ad essa non mancano, nè vi manca la confutazione del principio de' due gladii, portato in campo da iBonifazio: e questo

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