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Sonetto CCLII.

S'io avessi pensato, che si care
Fossin le voci de' sospir mic' in rima;
Fatte l'avrei dal sospirar mio prima.

In numero più spesse, in stil più rare. · Morta colei, che mi facea parlare, E che si stava de' pensier mie'in cima, Non posso, e non ho più si dolce lima, Rime aspre e fosche far soavi e chiare. E certo, ogni mio studio in quel temp'era Pur di sfogare il doloroso core

In qualche modo, non d'acquistar fama: Pianger cercai, non già del pianto onore. Or vorrei ben piacer: ma quella altera Tacito stanco dopo se mi chiama.

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Soleasi nel mio cor star bella e viva,
Com'alta donna in loco umile e basso:
Or son fatt' io per l'ultimo suo passo ·
Non pur mortal, ma morto; ed ella è diva.
L'alına d'ogni suo ben spogliata e priva,
Amor della sua luce ignudo e casso
Dovrian della pietà romper un sasso:
Ma non è chi lor duol riconti, o scriva :
Che piangon dentro, ov' ogni orecchia è sorda,
Se non la mia; cui tanta doglia ingombra,
Ch'altro che sospirar nulla m'avanza.
Veramente siam noi polvere ed ombra:
Veramente la voglia è cieca e'ngorda:
Veramente fallace è la speranza.

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Soleano i miei pensier soavemente
Di lor obbietto ragionar insieme;
Pietà s'appressa, e del tardar si pente:
Forse or parla di noi, o spera, o teme.
Poichè l'ultimo giorno e l'ore estreme
Spogliar di lei questa vita presente;
Nostro stato dal ciel vede, ode, e sente:
Altra di lei non è rimasa speme.
O miracol gentile! o felice alma!

O beltà senza esempio altera, e rara,
Che tosto è ritornata, ond' ella uscio!
Ivi ha del suo ben far corona e palma
Quella, ch'al mondo sì famosa e chiara
Fe' la sua gran virtute, e'l furor mio.

Sonetto CCLV.

I'mi soglio accusare; ed or mi scuso; Anzi mi pregio, e tengo assai più caro ; Dell'onesta prigion, del dolce amaro Colpo, ch'i' portai già molt'anni chiuso. Invide Parche, sì repente il fuso

Troncaste, ch'attorcea soave e chiaro Stame al mio laccio, e quell' aurato e raro Strale onde morte piacque oltra nostr' uso! Che non fu d'allegrezza a' suoi dì mai, Di libertà, di vita alma sì vaga,

Che non cangiasse'l suo natural modo, Togliendo anzi per lei sempre trar guai, Che cantar per qualunque, e di tal piaga Morir contenta, é viver in tal nodo.

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Due gran nemiche insieme erano aggiunte,
Bellezza ed onestà con pace tanta;
Che mai rebellion l'anima santa

Non sentìi, poi ch'a star seco fur giunte:
Ed or per morte son sparse, e disgiunte:
L'una è nel ciel, che se ne gloria, e vanta:
l'altra sotterra, ch'i begli occhj ammanta,
Ond' uscir già tante amorose punte.
L'atto soave, e'l parlar saggio umile,
Che movea d'alto loco, e'l dolce sguardo,
Che piagava'l mio core, ancor l'accenna;
Sono spariti e s'al seguir son tardo,
Forse avverrà, che'l bel nome gentile
Consacrerò con questa stanca penna,

Sonetto CCLVII.

Quand' io mi volgo indietro a mirar gli anni,
Ch' hanno fuggendo i miei pensieri sparsi;
E spento 'l foco ov'agghiacciando i' arsi;
E finito 'l riposo pien d'affanni;
Rotta la fe degli amorosi inganni;

E sol due parti d'ogni mio ben farsi,
L'una nel cielo, e l'altra in terra starsi;
E perduto 'l guadagno de' miei danni;
I' mi riscuoto; e trovomi sì nudo,

Ch'i' porto invidia ad ogni estrema sorte; Tal cordoglio e paura ho di me stesso. O mia stella, o fortuna, o fato, o morte, O per me sempre dolce giorno e crudo, Come m'avete in basso stato messo!

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Ov'è la fronte, che con picciol cenno
Volgea'l mio core in questa parte, e'n quella?
Ov'è'l bel ciglio, e l'una e l'altra stella,
Ch'al corso del mio viver lume denno?
e'l senno,

Ov'è'l valor, la conoscenza,

L'accorta, onesta, umil, dolce favella? Ove son le bellezze accolte in ella, Che gran tempo di me lor voglia fenno? Ov'è l'ombra gentil del viso umano:

Ch'ora e riposo dava all' alma stanca, E là've i miei pensier scritti eran tutti ? Ov' è colei, che mia vita ebbe in mano? Quanto al misero mondo, e quanto manca Agli occhj miei! che mai non fieno asciutti.

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Quanta invidia ti porto, avara terra,
Ch'abbracci quella, cui veder m'è tolto;
E mi contendi l'aria del bel volto
Dove pace trovai d'ogni mia guerra!
Quanta ne porto al ciel, che chiude e serra,
E si cupidamente ha in se raccolto
Ló spirto dalle belle membra sciolto;
E per altrui si rado si disserra!
Quanta invidia a quell'anime, che'n sorte
Hann'or sua santa e dolce compagnia;
La qual' io cercai sempre con tal brama!
Quanta alla dispietata e dura morte;
Ch' avendo spento in lei la vita mia,
Stassi ne' suoi begli occhj, e me non chiama.

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Valle, che de' lamenti miei se' piena;
Fiume, che spesso del mio pianger cresci;
Fere silvestri, vaghi augelli, e pesci,
Che l'una e l'altra verde riva affrena;
Aria de' miei sospir calda e serena;
Dolce sentier, che sì amaro riesci;
Colle, che mi piacesti, or mi rincresci,
Ov'ancor per usanza Amor mi mena;
Ben riconosco in voi l'usate forme,
Non, lasso, in me; che da sì lieta vita
Son fatto albergo d'infinita doglia.
Quinci vedea'l mio bene; e per quest'orme
Torno a veder, ond' al ciel nuda è gita
Lasciando in terra la sua bella spoglia.

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Levommi il mio pensiero in parte ov'era
Quella, ch'io cerco, e non ritrovo in terra:
Ivi fra lor, che'l terzo cerchio serra,
La rividi più bella, e meno altera.
Per man mi prese, e disse: in questa spera
Sarai ancor meco, se'l desir non erra:
I' son colei, che ti die' tanta guerra,
E compie' mia giornata innanzi sera.
Mio ben non cape in intelletto umano:

Te solo aspetto; e quel che tanto amasti,
E là giuso è rimaso, il mio bel velo.
Deh, perchè tacque, ed allargò la mano?
Ch' al suon de' detti sì pietosi e casti
Poco mancò, ch'io non rimasi in cielo.

Petrarca II.

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