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Dinanzi una colonna

Cristallina, ed iv'entro ogni pensiero'
Scritto; e fuor tralucea sì chiaramente,
Che mi fea lieto; e sospirar sovente.

Alle pungenti, ardenti, e lucid' arme;
Alla vittoriosa insegna verde;
Contra cu' in campo perde

Giove, ed Apollo, e Polifemo, e Marte:
Ov'è'l pianto ognor fresco, e si rinverde,
Giunto mi vidi: e non possendo aitarme,
Preso lasciai menarme

Ond' or non so d'uscir la via nè l'arte.
Ma sì com'uom talor che piange, e parte
Vede cosa, che gli occhi e'l cor alletta,
Così colei, per ch'io son in prigione,
Standosi ad un balcone,

Che fu sola a' suoi di cosa perfett,
Cominciai a mirar con tal desio,

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Che me stesso, e'l mio mal posi in obblio.

I'era in terra, e'l cor in paradiso,
Dolcemente obbliando ogni altra cura:
E mia viva figura

Far sentia un marmo, è'mpier di meraviglia;
Quand' una donna assai pronta e sicura,
Di tempo antica, e giovane del viso,
Vedendomi si fiso

All'atto della fronte, e delle ciglia,
Meco, mi disse, meco ti consiglia:
Ch'i'son d'altro poder, che tu non credi;
E so far lieti e tristi in un momento,

**

Più leggiera che'l vento;

E reggo, e volvo quanto al mondo vedi. Tien pur gli occhj com' aquila in quel Sole; Parte da orecchj a queste mie parole.

Il dì che costei nacque, eran le stelle,
Che producon fra voi felici effetti,
In luoghi alti ed eletti,

L'una ver l'altra con amor converse:
Venere e'l Padre con benigni aspetti
Tenean le parti signorili e belle;
E le luci empie e felle

Quasi in tutto del ciel eran disperse.
Il Sol mai si bel giorno non aperse:
L'aere e la terra s'allegrava; e l'acque
Per lo mar avean pace, e per li fiumi.
Fra tanti amici lumi

Una nube lontana mi dispiacque;
La qual temo, che 'n pianto si risolve,
Se pietate altramente il ciel non volve.

Com'ella venne in questo viver basso;
Ch' a dir il ver non fu degno d'averla ;
Cosa nova a vederla,

Già santissima e dolce, ancor acerba;
Parea chiusa in or fin candida perla :
Ed or carpone, or con tremante passo
Legno, acqua, terra, o sasso,
Verde facea, chiara, soave; e l'erba
Con le palme, e co' più fresca e superba;
E fiorir co' begli occhj le campagne ;
Ed acquctar i venti, e le tempeste,

Con voci ancor non preste

Di lingua, che dal latte si scompagne; Chiaro mostrando al mondo sordo e cieco, Quanto lume del ciel fosse già seco.

Foichè, crescendo in tempo ed in virtute, Giunse alla terza sua fiorita etate; Leggiadria nè beltate

Tanta non vide il Sol credo giammai.
Gli occhi pien di letizia e d'onestate;
E' parlar di dolcezza e di salute.
Tutte lingue son mute

A dir di lei quel, che tu sol ne sai.
Si chiaro ha'l volto di celesti rai,

Che vostra vista in lui non può fermarse;
E da quel suo bel carcere terreno
Di tal foco hai'l cor pieno;

Ch'altro più dolcemente mai non arse.
Ma parmi che sua subita partita
Tosto ti fia cagion d'amara vita.

Detto questo, alla sua volubil rota
Si volse, in ch'ella fila il nostro stame,
Trista e certa indovina de' miei danni:
Che dopo non molt'anni

Quella, perch' io ho di morir tal fame,
Canzon mia, spense morte acerba e rea,
Che più bel corpo uccider non potea.

Sonetto

CCLXXXII.

Or hai fatto l'estremo di tua possa,

fossa.

O crudel morte; or hai'l regno d'Amore Impoverito; or di bellezza il fiore E'l lume hai spento, e chiuso in poca Or hai spogliata nostra vita, e scossa D'ogni ornamento, e del sovran suo onore : Ma la fama, e'l valor che mai non more, Non è in tua forza: abbiti ignude l'ossa; Che l'altro ha'l cielo, e di sua chiaritate,

Quasi d'un più bel Sol, s'allegra, e gloria; E fia'l mondo de' buon sempre in memoria. Vinca❜l cor vostro in sua tanta vittoria, Angel novo, là su di me pietate; Come vinse qui'l mio vostra beltate.

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L'aura, e l'odore, e'l refrigerio, e l'ombra
Del dolce lauro, e sua vista fiorita,
Lume e riposo di mia stanca vita,
Tolto ha colei, che tutto'l mondo sgombra.
Come a noi'l Sol, se sua soror l'adombra,
Così l'alta mia luce a me sparita,

Io cheggio a morte incontr'a morte aita: Di si scuri pensieri Amor m'ingombra. Dormito hai, bella donna, un breve sonno: Or se' svegliata fra gli spirti eletti,

Ove nel suo Fattor l'alma s'interna: E, se mie rime alcuna cosa ponno, Consecrata fra i nobili intelletti,

Fia del tuo nome qui memoria eterna.

Sonetto

CCLXXXIV.

L'ultimo, lasso, de' miei giorni allegri,
(Che pochi ho visto in questo viver breve)
Giunt' era; e fatto 'l cor tepida neve,
Forse presago de' di tristi e negri.
Qual ha già i nervi, eipolsi, ei pensier egri,
Cui domestica febbre assalir deve;
Tal mi sentia, non sapend'io che leve
Venisse'l fin de' miei ben non integri.
Gli occhj belli, ora in ciel chiari, e felici
Del lume, onde salute e vita piove,
Lasciando i miei qui miseri, e mendici,
Dicean lor con faville oneste e nove :
Rimanetevi in pace, o cari amici:
Qui mai più no, ma rivedrenne altrove.

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O giorno, o ora, o ultimo momento,
O stelle congiurate a'mpoverirme!
O fido sguardo, or che volei tu dirme,
Partend' io per non esser mai contento?
Or conosco i miei danni; or mi risento:

Ch'i' credeva (ahi credenze vane e'nfirme!)
Perder parte, non tutto, al dipartirme.
Quante speranze se ne porta il vento!
Che già il contrario era ordinato in cielo,
Spegner l'almo mio lume, ond' io vivea;
E scritto era in sua dolce amara vista.
Ma innanzi agli occhj m'era posto un velo,
Che mi fea non veder quel ch'i' vedea-;
Per far mia vita subito più trista.

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