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nominata, e vo' che sia, più (1) virilmente si trattasse che nella VITA NUOVA, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo siccome ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene. Chè altro si conviene e dire e operare a una etade, che ad altra; perchè certi costumi sono idonei e laudabili a una etade, che sono sconci e biasimevoli ad altra, siccome di sotto nel quarto Trattato di questo libro sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi all'entrata di mia gioventute parlai, e in questa di poi quella già trapassata. E conciossiacosachè la vera intenzione mia fosse altra, che quella che di fuori mostrano le Canzoni predette, per allegorica sposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale storia ragionata; sicchè l' una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati; li quali priego tutti (2), che se il convito non fosse tanto splendido

(1) Le parole più virilmente si trattasse che nella VITA NUOVA, e le altre poco dopo siccome ragionevolmente quella fervida e passionata sono interlineate dal Tasso, il quale a canto dell' ultima notò ancora in margine passionata. Un po' più avanti ove è detto certi costumi sono idonei e laudabili . . . . che sono sconci e biasimevoli ecc., egli segnò le parole idonei — sconci.

(2) In questo passo: « priego tutti che se il convito non fosse ❝ tanto splendido quanto conviene alla sua grida, che non al ❝ mio vo'ere, ma alla mia facultate imputino ecc.", sembra che uno dei due che sia superfluo. Si legga però la nota dell' ab. Colombo alla nov. 8. g. 2 del Decamerone (pag. 222, tom. 2, ed. Parm., 1812), ove incontrasi bell'esempio del medesimo pleonasmo; e si vedrà in essa chiaramente spiegato l'ufficio dei pleonasmi

*

quanto conviene alla sua grida, che non al mio volere, ma alla mia facultate imputino ogni difetto; perocchè la mia voglia di compiuta e cara liberalità è qui seguace.

CAP. II.

NEL cominciamento di ciascun bene ordinato convito sogliono li sergenti prendere lo pane apposito (1) e quello purgare da ogni macola; per ch'io, che nella presente scrittura tengo luogo di quelli, da due macole mondare intendo primieramente questa sposizione, che per pane si conta nel mio corredo. L'una è, che parlare alcuno di sè medesimo pare non licito: l'altra s è, che parlare, sponendo, troppo a fondo pare non ragionevole. E lo illicito e'l non ragionevole il coltello del mio giudicio purga in questa forma. Non si concede per li Rettorici alcuno di sè medesimo sanza necessaria

di tale natura: il quale è d'impedire che, per l'interposizione di qualche proposizione un po' lunga tra due frasi insieme legate da una particella, il lettore corra pericolo di dimenticarsi la connessione ch' esse frasi hanno fra di loro; facendogliela risovvenire colla ripetizione della particella medesima. Cosi Dante istesso nel Poema (Inf. c. 26 v. 22.):

«Si che se stella buona, o miglior cosa

« M'ha dato 'l ben, ch'io stesso nol m' invidi »,

ove sembra di soprappiù il che innanzi ad io. E giova qui l'avvertire quest' uso, perchè nel Convito è frequente.

(1) apposito parola segnata dal Tasso, così subito appresso

macola.

l'uomo rimosso perche il parlatore non egli parla; le quali

cagione parlare (1). E da ciò è chè parlare non si può d'alcuno lodi o non biasimi quelli di cui due cagioni rusticamente stanno a fare parlare (2) di sè nella bocca di ciascuno. E per levare un dubbio che quivi surge, dico che peggio sta biasimare, che lodare; avvegnachè l' uno e l'altro non sia da fare. La ragione è, che qualunque cosa è per sè da biasimare è più laida che quella che per accidente. Dispregiare se medesimo è per sè biasimevole, perocchè allo amico dee l'uomo lo suo difetto contare segretamente, e nullo è più amico che l'uomo a sè, onde nella camera de' suoi pensieri sè medesimo riprendere dee e piangere li suoi difetti, e non palese. Ancora del non potere, e del non sapere bene sè menare, le più volte non è l'uomo vituperato; ma del non volere è sempre, perchè nel volere, e nel non volere nostro si giudica la malizia, e la bontade. E perciò chi biasima sè medesimo appruova

(1) Il passo che incomincia con queste parole E aa ciò è l'uomo rimosso e termina con Onde chi loda sè mostra che non crede essere buono tenuto è contrassegnato in margine dal Tasso. Le ultime parole qui riportate sono anche interlineate, e così pure quelle altre prima E però chi biasima sè medesimo, appruova sè conoscere ecc. fino a è da lasciare di parlare sè biasimando.

(2) La lez. comune è a fare di sè. E nel SAGGIO (pag. 40) avevamo corretto « a fare parole di sè. » Ora adottiamo la lez. del Cod. Gadd. 135 primo, la quale riempie la laguna in modo che torna il medesimo della nostra emendazione. E si noti che parLare va qui preso in forza di nome per discorso, o simile.

se conoscere lo suo difetto, appruova sè non essere buono per che per sè è da lasciare di parlare sè biasimando (1). Lodare sè è da fuggire siccome male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio: è loda (2) nella punta delle parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre. Chè parole sono fatte per mostrare quello che non si sa. Onde chi loda se mostra che non crede essere buono tenuto che non gli incontra sanza maliziata coscienza, la quale se lodando discuopre, e discuoprendo si biasima (3). E ancora la propria loda e il proprio biasimo è da fuggire per una ragione (4) egualmente siccome falsa testimonianza fare; perocchè non è uomo che sia di sè vero e giusto misuratore, tanto la propria carità (5)

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(1) La sentenza è d'Aristotile: Laudare se vani; vituperare stulti est. Val. Max. 1. 7 c. 2. — ·On ne parle jamais de soi sans perte. Montagne.

(2) Nel SAGGIO (pag. 107.) abbiamo notato col Perticari che così dee leggersi, essendo questa la sentenza : « è lode nell' apparenza, è vituperio nella sostanza ». La lez. volgata è: e laido nella punta delle parole: e vituperio ecc.

(3) Queste parole fino a testimonianza fare sono interlineate dal Tasso.

(4) I due Codici Marciani, tre Gaddiani, il Vat. Urb. e le antiche edizioni leggono concordemente ragione. Il Biscioni ha infelicemente preferito cagione.

(5) La propria carità, cioè l'amor proprio. In un Lessico greco-latino, stampato in Ferrara nel 1510 per Giovanni Maciochio Bondeno, alla v. Q.λavría si legge la seguente erudita annotazione : Φιλαυτία, as amor sui ipsius. Hic solet maxime oculos præstringere, et quasi nubeculam offundere, ne veritatem ad nos attinent, dispiciamus. Hinc jure Horatius

rerum

, quæ

ne nganna (1). Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che vende coll'una e compera coll' altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare, e con piccola cerca lo bene; sicchè il numero e la quantità e il peso del

cœcum amorem sui dixit: et Aristoteles quasi probrosam Qıλavroỡ appellationem aversatur in nono Moralium; fieri enim non potest, ut qui omnia propriis commodis metitur, humanæ societatis leges observet. Non ibo tamen inficias, cuique animantum insitum a natura, ut se magis, quam ceteros omnes, amet ac tueatur. Hinc Terentianum illud in Andria: (Act. II s. V.)

Verum illud verbum est, vulgo quod dici solet:

Omnes sibi malle melius esse, quam alteri.

decere

Et illud apud græcos vulgatum: φιλέι δ' ἑαυτῶ πλεῖον ἐδεὶς ουδένα. Et Plato in quinto de Legibus: Τοῦτο δὲ ἔστιν ὁ λέω γουσιν, ὡς φίλος αυτῷ πᾶς ἄνθρωπος φύσει τε' ἐστί nai öętãs ixu: passim, scilicet, in ore omnium esse, sibi quemque natura maxime amicum esse. Cujus sententiæ et Aristoteles in septimo de Moribus ad Eudemum sic meminit: ▲oκεῖ γὰρ ἐξίοις μάλιστα έκαστος αυτὸς αὐτῷ φίλος. Επ qua hominum opinione videtur illud Euripidis acceptum: Ως πᾶς τις αυτόν τῇ πέλας μᾶλλον φιλέι.

Quod quisque ceteris se amat vehementius.

Gr. avria Inglese, self-love. Horat. cœcus amor sui; del quale dice Platone: ὁ φιλῶν τυφλοῦται περὶ τὸ φιλούμενον; l'amante s'accieca intorno all'amato; cioè l'uomo intorno a sè stesso. BISCIONI.

(1) Da queste parole Onde avviene ecc. fino a contrario il Tasso ha contrassegnato il luogo con una linea in margine, e da contrario fino a perchè nè consentire nè negar puote lo così estimato sanza cadere in colpa di lodarsi, o di biasimarsi, ha interlineate tutte le parole, segnando in margine a canto di queste ultime: Bella.

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