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tente, prima s'adirò ferocemente col limite, ch' egli chiamò fato; poi si diffidò d' oltrepassarlo; poi, scambiato l'effetto colla causa, sentenziò che il dolore solo era il vero. E come aveva letto il dolore in tutti, e cantato il dolore da per tutto; spiegò il tutto col dolore.

Applicando il suo prodigioso intelletto all' universo, egli seguì l'ordine stesso che aveva seguíto quando v' applicò la fantasia; e, nelle sue Operette morali e nella sua Comparazione di Bruto minore e di Teofrasto, egli spiegò col dolore prima il mondo intellettuale estrinseco, poi il mondo intellettuale intrinseco, e poi il mondo materiale.

Stanco alla fine da un così affannoso e sterminato viaggio, fatto già quasi insensibile alle loro punture, s' adagiò sulle spine stesse del suo dolore; e risolute le tre scienze, onde aveva tentato l'universo, come in una vasta pozione sonnolenta, vi bevette a larghi tratti l'obblio di tutto l'ente e di se stesso. Ultimamente, smaltita la fiera bevanda, si ridestò; e della potente assimilazione di quella si valse a sorridere, ora sdegnosamente, ora mestamente, ora amaramente, del tutto. I Pensieri e i Paralipomeni (4) sono la manifestazione di questo triplice e spaventevole sorriso (5).

Tale fu l'ingegno del Leopardi, e tale la sua storia, considerato nella sua sostanza o, se eziandio si voglia, nella sua forma intrinseca. La forma estrinseca, nella quale esso si manifestò agli altri uomini, fu la più bella che fosse mai assunta dalla più bella lingua parlata. Egli scriveva greco, latino e italiano

antico da mentire un antico: e come nel 17 i filologhi tedeschi avevano tolte per antiche e vere due Odı greche (l' una ad Amore e l'altra alla Luna) e un Inno a Nettuno, medesimamente greco, del quale fu finta darsi la sola versione e le note; così nel 26 il Cesari tolse per antico e vero testo di lingua il Volgarizzamento del Martirio de' santi padri. Ma la forma vera e spontanea in cui quel prodigioso ingegno si manifestò, e nella quale noi dobbiamo veramente studiarlo, fu la lingua italiana odierna. In questa egli sciolse l'antico problema di dire tutto puramente e potentemente; e mostrò che il grande scrittore dee e può essere giusto sovrano e non oppresso suddito della lingua. Mai nessun linguaggio umano non ubbidi più spontaneamente a nessun uomo di quel che la nostra lingua ubbidisse a questo inimitabile scrittore. Forte ed avventato nei primi sdegni concitati in lui da quel dolore ch'egli sentiva palpitare non meno nella sua propria vita che nell' universale, fiero e terribile nella disperazione che gliene seguì, grave ed ineffabilmente semplicissimo nel sopore della stanca rassegnazione ch' ultimamente lo invase, il suo stile rappresentò a un tempo la varietà, l'unità e la perfezione dell'universo, disse tutto in tutti i modi in cui poteva essere detto, e fu grande e vivo esempio che la parola umana è, se può arrischiarsi il vocabolo, la sintesi del mondo, e si arresta solo nel confine che separa il mondo dall'infinito.

Oltre a così potenti cagioni, l'incanto che il suo stile operava o in versi o in prosa, consisteva nella perfezione della proprietà e dell'ordinamento delle

parole. Egli ritrasse l'artifizio dal cinquecento, la semplicità dal trecento, e l'essere proprio e particolare del suo stile, prima dai greci, sommo esempio di perfetto, e poi dal suo secolo e da se stesso, onde l'uomo dee ritrarre innanzi tutto. E non ostanti i suoi sterminati studi, soleva dire che quando lo scrittore toglie la penna, dee dimenticare il più possibile che vi è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.

Estimava assai più difficile l'eccellente prosa che gli eccellenti versi, perchè diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l'altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di poter tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi colle più difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Manuzzi fece sì prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell' Interpretazione del Petrarca, come s' abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitato a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d'Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell' Impresa, di Senofonte, che così come a nessun greco era ancora seguito di rivivere nella lingua italiana, così a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l'intempestiva morte e, forse, la mistica diver

LEOPARDI. Opere. — 1.

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sità onde questi due divini ingegni contemplarono l'universo, non è dubbio ch' egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande e nuova èra delle lettere italiane.

Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua

propria essenza, ma ancora nelle varie forme onde si è venuto di mano in mano palesando, è tempo ormai di considerar l'uomo tutto insieme nelle sue attenenze, o accidentali o naturali, sia cogli altri uomini sia con se medesimo; e, in somma, ne'suoi successi e ne'suoi costumi.

Nato sulla cima di un monte (dove l'antico Piceno si piacque di porre le sue città), d'una famiglia gentile, costumata e religiosa, la tenerezza paterna e fraterna, il cielo, le stelle, la luna nascente dall'acque e il sole cadente dietro le lontane vette dell' Apennino, furono i suoi primi sentimenti e le sue prime gioie. Egli si preparò alla vita come a un giorno festivo; e le sue prime parole furono una benedizione degli uomini e della natura che parevano così carezzevolmente accompagnarlo. Ma poi che la provetta età e la smisurata altezza del suo ingegno gli ebber renduta più necessaria la grandezza dei concittadini che la bontà dei consanguinei, ed il male inemendabile che poscia l'estinse, gli ebbe penetrato talmente l'ossa e le midolle che le nevi della montagna non gli furono più sopportabili, nell' acerbezza de' suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta, dispregiò gli

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uni e maledisse l'altra; e, benchè insino alle lacrime dolentissimo de' suoi cari congiunti, il più costante desiderio della sua vita fu d'andarne a vivere al.rove.

Spinto da così fieri stimoli, nel novembre del 22 venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella più che umana antichità ch'egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscial s'involse non meno avidamente fra i codici, massime della Barberiniana, v'imprese un catalogo dei manoscritti greci, ed altri gravi e stupendi lavori; e se la natura e la fortuna non gli avessero così iniquamente mancato, l'immortale Mai, ch'egli tanto e tanto meritamente ammirò, non sarebbe stato più solo. Visitato e carezzato a ventiquattro anni dai più gravi oltramontani che dimoravano allora in quella città, il summo Niebuhr faceva pubblica fede al mondo della presente e futura grandezza del giovane recanatese; ed in nome della dottissima Germania, che egli così nobilmente rappresentava, gli offerì indarno in Prussia, quel che non gli avrebbe offerto indarno e mai non gli offerì l' infelicissima Italia, una cattedra di filosofia greca. Poscia, vagando tuttavia solitario, interrogò lungamente quei silenzi e quelle ruine, e lungamente, in sul tramonto del dì, pianse, al lontano pianto delle campane, la passata e morta grandezza. E nel maggio del 23 si ritrasse mesto e taciturno alla solitudine natia.

Quivi, mentre l'inesorabile natura avanzava, senza mai posare, nel suo mortifero lavoro, egli pianse, oltre a due anni, i desiderii e le speranze perdute;

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