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Di sconsolato grido

L'alto sen dell' Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote Della virtú nativa

Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote

Da poi che Febo instiga, altro che giuoco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori ésca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi

Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch' alle ruine
Delle italiche moli

Insultino gli armenti, e che l' aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivïon dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese

Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

Che del serto fulgea, di ch' ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Chè nullo di tal madre oggi s' onora:

Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne' perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede.

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VI.

BRUTO MINORE.

Poi che divelta, nella tracia (5) polve Giacque ruina immensa

L'italica virtute, onde alle valli
D' Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio de' barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,

A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;

Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per I' atra noise in erma sede,
Fermo già di morir, gl' inesorandi
Numi e l'averno accusa,

E di feroci note

Invan la sonnolenta aura percote.
Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell' inquïete larve

Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice

A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.

Dunque tanto i celesti odii commove

La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,

Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?
Preme il destino invitto e la ferrata

Necessità gl' infermi

Schiavi di morte e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, de' necessari danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?

Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,

Di cedere inesperto; e la tiranna

Tua destra, allor che vincitrice il grava, Indomito scrollando si pompeggia, Quando nell' alto lato

L'amaro ferro intride,

E maligno alle nere ombre sorride.
Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fôra

Tanto valor ne'molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl' infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,

Ma libera ne' boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,

Reina un tempo e Diva. Or poi ch' a terra

Sparse i regni beati empio costume,

E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni

Virile alma ricusa,

Riede natura, e il non suo dardo accusa? Di colpa ignare e de' lor propri danni Le fortunate belve

Serena adduce al non previsto passo

La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;

Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe

O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,

Se il fato ignavo pende,

Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga, Candida luna, sorgi,

E l'inquïeta notte e la funesta
All' ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;

Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni

Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome,

Sotto barbaro piede

Ritornerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo

E la fera e l'augello,

Del consueto obblio gravido il petto,

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