Tue forme il core e le pupille invano E preme in fuga l'odorate spiagge. Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara Di misfatto è la vita, onde poi scemo Di giovinezza, e disfiorato, al fuso Dell' indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Incaute voci Spande il tuo labbro: i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo De' celesti si posa. Oh cure, oh speme De' più verd' anni! Alle sembianze il Padre, Alle amene sembianze eterno regno Dié nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto. Morremo. Il velo indegno a terra sparto, Rifuggirà l' ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator de' casi. E tu cui lungo Amore indarno, e lunga fede, e vano D' implacato desio furor mi strinse, Giove, poi che perîr gl' inganni e il sogno Giorno di nostra età primo s' invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra Della gelida morte. Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori, Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno E l'atra notte, e la silente riva. X. IL PRIMO AMORE. Tornami a mente il dì che la battaglia Chè gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, lo mirava colei ch'a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore! E non sereno, e non intero e schietto, Dimmi, tenero core, or che spavento, Quel pensier che nel di, che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nell' emisfero: Tu inquieto, e felice e miserando, M'affaticavi in su le piume il fianco, Ad ogni or fortemente palpitando. E dove io tristo ed affannato e stanco Gli occhi al sonno chiudea, come per febre Rotto e deliro il sonno venía manco. Oh come viva in mezzo alle tenebre LEOPARDI. Opere. — 1. 7 Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi Moti per l'ossa mi serpeano! oh come Pensieri si volgean! qual tra le chiome Un lungo, incerto mormorar ne prome. E mentre io taccio, e mentr' io non contendo, Che dicevi o mio cor, che si partia Quella per che penando ivi e battendo? Della vampa d'amor, che il venticello Che l'aleggiava, volossene via. Senza senno io giacea sul di novello, Di quelle labbra uscir, ch' ultima fosse; Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese, La cara voce al core, e de' cavai Orbo rimaso allor, mi rannicchiai Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Locommisi nel petto, e mi serrava Ned io ti conoscea, garzon Quando in ispregio ogni piacer, nè grato Nė gli occhi ai noti studi io rivolgea, Deh come mai da me si vario fui, Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, E l'occhio a terra chino o in se raccolto, Di riscontrarsi fuggitivo e vago Ne in leggiadro soffria nè in turpe volto: Turbare egli temea pinta nel seno, E quel di non aver goduto appieno |