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passa,

Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
Al pensar come tutto al mondo
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il di festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n' andò per la terra e l'oceáno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s' aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch' egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

XIV.

ALLA LUNA.

O grazïosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle lo venía pien d'angoscia a rimirarti : E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparía, chè travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l' affanno duri!

La

XV.

IL SOGNO.

Era il mattino, e tra le chiuse imposte Per lo balcone insinuava il Sole

Nella mia cieca stanza il primo albore;

Quando in sul tempo che più lieve il sonno
E più soave le pupille adombra,
Stettemi allato e riguardommi in viso
Il simulacro di colei che amore

Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
Degl' infelici è la sembianza. Al capo
Appressommi la destra, e sospirando,
Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
Serbi di noi? Donde, risposi, e come
Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duol! nè mi credea
Che risaper tu lo dovessi; e questo
Facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un' altra volta?

lo n' ho gran tema. Or dimmi, e che t' avvenne? Sei tu quella di prima? E che ti strugge Internamente? Oblivïone ingombra

I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune. Immensa
Doglia m' oppresse a queste voci il petto.

Ella segui: nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda com'è tutta indarno
L'umana speme. A desiar colei

Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortal; ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
Agl' inesperti della vita, e molto
All' immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
Taci, taci, diss' io, chè tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
O mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma

Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia? Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch' io ti ritrovi al mondo,
Creder nol posso! Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte s'addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre!
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda

Il fior dell' età mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise

Al viver nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
Soggiunsi, e di pallor velato il viso

Per la tua dipartita, e se d'angoscia
Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
Favilla alcuna, o di pietà, giammai
Verso il misero amante il cor t' assalse
Mentre vivesti? Io disperando allora
E sperando traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano dubitar si stanca

La mente mia. Che se una volta sola
Dolor ti strinse di mia negra vita,
Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
La rimembranza or che il futuro è tolto
Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
O sventurato. Io di pietade avara
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
Chè fui misera anch' io. Non far querela
Di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l'amore
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
Nome di giovanezza e la perduta

Speme dei nostri dỉ, concedi, o cara,
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d'affannosa
Dolcezza palpitando all' anelante
Seno la stringo, di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi

Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi,
LEOPARDI. Opere. — 1.

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