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tempo, che fece con essa all' amore, e sapete se cominciò presto il cattivo. Lo confessa da sè senza corda poco qui sotto:

Prima ch' io fuor di puerizia fosse.

Purg. XXX. 42.

E affranto rimaneva, perchè struggevasi a' suoi begli occhi ogni volta che la civettina di Beatrice, tutta smorfie e graziosi vezzi, qualche benigna occhiata gli dispensava; e ogni volta che facevagli qualche inchino, si sentiva egli allora mancar lo spirito, e provava mille e mille altri parosismi del folle amore. Vergognose debolezze d'un uomo di sì gran senno! Vi è chi stima, es sere stato piuttosto il Poeta a queste languidezze soggetto, quando essa, facendo con arte lusinghevole la ritrosa, volgevagli l'occhio torto, e sdegnosettà solo di furto dispettosamente guatavalo: ma sia ciò come si vuole, che io di questi loro delirj non me ne intendo. » Conchiudiamo, le parole recando del Biagioli in nota ai versi;

Mai non t'appresentò natura ed arte
Piacer, quanto le belle membra in ch'io
Rinchiusa fui, e che son terra sparte.
Purg. XXXI. 49.

« Fu veramente Beatrice una di quelle divine soprannaturali e straordinarie bellezze, che veggonsi

tratto tratto risplendere fra di noi, come stelle, sotto 'l corporeo e terrestre velo, immagini più sincere della bellezza di lassù, e degne ch'ogni gentil cuore arda sui loro altari il purissimo incenso di meraviglia e d'amore. » Amore suggeriva alla fantasia di Dante i più elevati fra' suoi concetti: d'altronde la sua dottrina teologica gli apprestava eminenti oggetti da contemplare: acconciamente prese quindi egli ad eternare ne' suoi versi la sua Beatrice, glorificandone lo spirito, con farle assumere le sembianze della Teologia; non però dimenticando mai in essa quella mortale, che fu pur l'unico oggetto del suo ardentissimo amore. Quella donna, miracolo visibile, dalla cui sperienza avevano gli uomini ajuto nella fede, onde tener possibili i miracoli non visti, per quanto abbia potuto apparire in parole ed in atti la scienza delle divine cose, è pur sempre ľ oggetto d'una passione, di cui nè il fragore dell' armi, nè l'esilio doloroso, nè l'ira ghibellina, nè le grida della teologica scuola, nè la morte, nè il tempo seppero da quel santo petto cancellare la dolcissima ricordanza.

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CAPO IV.

ni con tre gole Cerbero latra caninamente. Ritornato in sè stesso il Poeta, trovasi circondato da nuovi tormenti, dovunque vada, o volgasi, o guardi. Egli è disceso nel terzo cerchio, in cui cade una pioggia eterna, fredda, molesta. Le Ombre, che ivi mandano urli, sdrajate nel fango, sono quelle de' lurchi ghiottoni. Pluto presiede al quarto cerchio, urla con voce chioccia, e pro nuncia strane parole. Questo Pluto è il distributore delle ricchezze, ben diverso da Plutone, che stassi nella ghiaccia

Imperador del doloroso regno.
Inf. XXXIV. 27.

Coloro, che nullo spendio far seppero con misu-
ra, in grame giostre con quanti altro non cura-
rono, che di mettere in arca, urtansi a vicenda
ed incessantemente co' nemici petti: i primi ri-
sorgeranno coi crini mozzi, i secondi co' pugni
chiusi. I due viaggiatori trovano una fonte bol-
lente, la cui torbid' acqua e nerastra scende nel
cerchio inferiore, e vi forma la palude di Stige.
Nude e furiose qui si
lacerano a brani co' denti
le Ombre degli uomini stați soggetti alla collera,

e fitte nella belletta negra ingozzan fango quelle degli accidiosi. Flegias accoglie in una sua barca Virgilio e Dante, li trasporta dalla parte de'. supplizj più miti a quella de' più terribili, e li depone all' ingresso dell' orribile città del principe infernale, la quale stendesi dal sesto cerchio sino al fondo, ove trovasi incatenato Lucifero. Ivi sono puniti quelli, i cui delitti offendono più direttamente la Divinità. Scorgesi la città colle sue torri infiammate, e colle mura di ferro, custodita da migliaja di demonj. Un Angelo traversa lo Stige a piede asciutto, e con una bacchetta tocca la porta, che s'apre senza resistenza. Virgilio e Dante entrano, e vedono stendersi da tutti i lati una vasta campagna piena di dolori e di spaventevoli tormenti. Frattanto il nostro Alighiero, col farsi dire più d' una fiata nel corso del Poema dal Cantor de' bucolici carmi, che i più sottili dubbj gli verranno sciolti da Beatrice, fa nascere un vivo desiderio di vederla e d'udirla; e così ne fa eziandio, nella necessaria di lei assenza, il personaggio principale del suo Poema. Questo vivo desiderio ne fa compassionevolmente abbandonare quelle bell' anime, che trascinate un tempo dagli amorosi appetiti, e date al giocondare, perchè presero' diletto delle corporali bellezze, e secondarono in amore i consigli subitani ed inconsiderati, e più perchè morirono impeni

tenti, private ora dell'uso della vista, infra compianti, lamenti e strida disperate, sono continuo agitate e dibattute da vento rabbioso. Ne fa sorpassare le genti vinte un di dalla Gola, ed ora grandinate, e graffiate dal trifauce mastino; falsarj, simoniaci, eresiarchi, violenti, fraudolenti, barattieri, usurai, omicidiarj, incendiarj, masnadieri, bestemmiatori, traditori. Gli uni volgono contro gli altri gravissimi pesi; quelli stannosi sommersi nella stigia palude, e nella morta gora; questi sepolti in arche roventi od in avelli ammorbati da tristo fiato, o capovolti in buche infiammate, o lessati in lago di bollente pece; qui Centauri saettano quanti emerger vorrebbero da fiu mane di sangue; là uomini trasformati in nodosi bronchi ed aspri pruni, su cui fanno nido le arpie; uomini o seguitati da nere e bramose cagne, o arroncigliati o sferzati da demonj, o strozzati da colubri. Talora que' demonj corrono contro lo stesso Dante con animo di sbranarlo, talora si oppongono al cammino d' entrambi, chiudendo gl'ingressi, od ingannandoli cen menzogne per farli smarrire nel laberinto infernale.

Più oltre poi gli adulatori mena

Lor colpa al fondo d' una fossa lorda D'alta immondezza, e tal feccia ripiena, Che col parlar fallace ben s'accorda.

Gozzi.

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