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ta dai Vocabolaristi, e la ristampa di Venezia, per Niccolò d' Aristotile detto Zoppino, 1529 in 8., sono molto meno accurate del testo, chẹ trovasi unito alle prose di Dante e del Boccaccio, Firenze, Tartini e Franchi 1723 in 4.0 Nella Volgar Eloquenza Dante cita siccome sue le Canzoni << Amor, che nella mente mi ragiona « Donna pietosa e di novella etate « Donne che avete intelletto d'Amore « Poscia che Amor del tutto m' ha lasciato « Amor, tu vedi ben che questa donna « Doglia mi reca ne lo cuore ar¬ dire « Al poco giorno, ed al gran cerchio d'ombra »; ed il Sonetto « Amor, che muovi tua virtù dal Cielo. » Casella in Purgatorio canta l'altissima Canzone del Poeta a Amor, che nella mente mi ragiona. » Nel Canto ottavo del Paradiso, Piccarda dice a Dante, che trovasi ella con que' Principi celesti, a' quali egli nel mondo avea diretta la bellissima Canzone « Voi, che, intendendo, il terzo ciel movete.» Dovrebbesi eziandio dar fede all' attestazione, ed osservanza al giudicio de' critici e maestri dell' arte. Nella Canzone << Lasso me, ch' 'i non so in qual parte pieghi » il Petrarca, seguendo l' antica ·foggia d'innestare versi d' altrui in determinato sito tra' proprj, pose ad ultimi di quattro stanze un verso d' Arnaldo Daniello, uno di Guido Cavalcanti, ano di Dante Alighieri, ed uno di Cino. Dal ver

SO

« Così nel mio parlar voglio esser aspro», con cui terminò il Petrarca la terza stanza, comincia appunto una Canzone a Dante attribuita. Anche il Tasso nella settima delle sue Canzoni che comincia « Di pregar lasso e di cantar già stanco » terminò ciascuna stanza con un verso d'un Poeta famoso, e l'ultima con un proprio: l'ultimo verso della seconda stanza « Voi, che, intendendo, il terzo ciel movete » si lascia ravvisar da ognuno pel primo della famosa Canzone compresa fra quelle di Dante. Non rimane quindi più modo a dubitare, che di Dante veramente non sieno quelle Canzoni, se di lui le tenneró e il Petrarca ed il Tasso, che nel citarle ebbero intendimento di ridestarne gloria all' autore. Il Trissino, nelle sei Divisioni della sua Poetica, dopo aver detto: << Comincerò da la elezione de le parole, e poi dirò de le Rime, ne le quali sarò alquanto diffuso, per non essere state a questi nostri tempi così bene intese, come s' intendevano a i tempi di Dante, e del Petrarca, e degli altri buoni Autori; da le ragioni et uso de i quali non intendo in queste due cose dipartirmi; e per più chiara dimostrazione di questo, voglio, ovunque sarà bisogno di esempi, solamente dei loro servirmi; » cita, siccome indubbiamente di Dante, le seguenti Canzoni: « Le dolci rime d' Amor, ch' i' solia « Amor tu vedi ben, che questa don

na

« Al poco giorno, et al gran cerchio d' ombra « Doglia ini reca ne lo cuore ardire « In quella parte del giovinett' anno «Sì lungamente m' ha tenuto Amore « Poscia, ch' Amor del tutto m' ha lasciato « Virtù ch''l ciel movesti a si bel ponto « Ballata io vo', che tu ritrovi Amore « O voi, che per la via d' Amor passate. » Altre ne riscontreremo in appresso guarentite dalle ponderazioni del Quadrio, del Redi, del Muratori, del Salvini e d' altri. Frattanto a scegliere le Rime segnate più dalla interna bellezza, che da titolo esterno, stimiamo acconcio ripetere alcuna norma dalle altre opere dello stesso gran Padre della nostra Poesia, e dal consueto suo modo di scrivere, e di filosofare, come amante, e come poeta; avendo presente, ch' egli primo tra gl' Italiani scrisse le leggi della Poetica. Il Padovano Antonio di Tempo soltanto dopo la morte di Dante insegnar dovette l'arte del poctare volgarmente, giacchè il suo Trattato, de Ritmis vulgaribus, dicesi composto l'anno 1332. Non potè egli, se non dopo tal epoca, occuparsi nello studiare il suo Comento sopra i Sonetti e le Canzoni del Petrarca, che trovasi unito a quelli fatti da Francesco Filelfo, da Girolamo Squarciafico Alessandrino, e da Bernardo Licinio nella edizione in foglio, Bologna 1475, giudicati dal Crescimbeni quanto barbari nella locuzione, tanto curiosi per

le strane interpretazioni, che vi si leggono. Non sarebbe qui opportuno il ricercare, con quanta ragione Scipione Maffei pretendesse primo un Veronese, che sopra l' istessa materia in volgar lingua lungo Trattato compose, cioè Gidino da Sommacampagna, che visse in tempo di Mastino d'Antonio Scaligeri. Basti che la posterità ammirò come primo e dottissimo lo insegnamento lasciato dall' Alighiero nel libro secondo della Volgare Eloquenza al capo quinto intorno alla no biltà de' versi fra loro paragonati.

Narra il Mazzoni la invenzione di un Pittore, il quale a denotare la licenza di Dante intorno al parlare, e la purità della lingua del Petrarca, li dipinse ambedue in un prato, dove il Petrarca andava con mano scegliendo ad una ad una le più fresche frondi e i fiori più pregiati e riguardevoli, riducendoli poscia in vaghi mazzetti; e Dante con una falce ferrata in mano, atterrando ogni cosa, faceva d'ogni erba fascio, nè lasciava erba, che così non tagliasse. Lo stesso Mazzoni accusa tosto quel Pittore per molto indiscreto, e dice, che volendo egli prendere la similitudine da un uomo, che raccogliesse qualche cosa ne' campi, poteva porre nelle mani di quello, che aveva a rappresen➡ tare il Petrarca, più fiori che frutti, e nelle mani di quello, che doveva rassomigliar Dante, più frutti che fiori. Se non fosse quello di tal Pit

tore un matto giudicio, e se pur vero fosse ciò che delle Liriche di Dante osò altri sentenziare, che cioè, vagliano a mostrare com' egli alla gloria scientifica mirasse, più che alla poetica, dacchè sovraccaricava ei medesimo di erudito comento quelle Canzoni, le quali al canto non allo studio erano destinate; n'avremmo pure indizio acconcio nello indagare fra le spurie le autentiche Rime di Dante. Torquato Tasso, che tanto studio pose nella Divina Commedia, espresse di credere, che nel particolare della lingua le licenze di Dante non fossero nè tante nè tali co me molti stimavano: pel merito poi della espressione, della brevità e della magnificenza gli assegnò il terzo luogo tra Omero e Virgilio. Tuttavia anche il Tasso, in iscrivendo a Luca Scalabrino, dicea per ischerzo: io ho Dante e l'Ariosto nel numero di coloro, che si lasciano cader le brache; e voleva dire, come osserva il Muratori, che non mettevano fatica e studio veruno, per sostenere il decoro e la maestà poetica, trascurando eglino i versi numerosi, e le parole dicevoli al musico genio della poesia. Ciò ricordiamo unicamente per significare, che, oltre i pregi originali, i difetti medesimi, i quali per altro non pos-, sono tentare alcuno a riprodurli, perchè appartengono meno a Dante, che al tempo in cui egli scrisse, , possono farci ravvisare l' opera della sua

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