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Quale a Cuma solea l'orribil maga,
Quando agitata dal possente Nume
Vaticinar s'udía. Così dal capo
Evaporar lasciò de gli olii sparsi
Il nocivo fermento, e de le polvi,
Che roder gli potrien la molle cute,
O d'atroce emicrania a lui le tempia
Trafigger anco. Or egli, avvolto in lino
Candido, siede. Avanti a lui lo specchio
Altero sembra di raccor nel seno
L'imagin diva; e stassi a gli occhi suoi
Severo esplorator de la tua mano,
O di bel crin volubile architetto.
Mille dintorno a lui volano odori,
Che a le varie manteche ama rapire
L'auretta dolce, intorno a i vasi ugnendo
Le leggerissim' ale di farfalla.

Tu chiedi in prima a lui, qual più gli
aggrada
[do
Sparger sul crin: se il gelsomino, o il bion-
Fior d'arancio piuttosto, o la giunchiglia,
O l'ambra, preziosa a gli avi nostri.
Ma se la Sposa altrui, cara al Signore,
Del talamo nuzial si duole, e scosse
Pur or da lungo peso il molle lombo;
Ah! fuggi allor tutti gli odori, ah! fuggi,
Che micidial potesti a un sol momento
Più vite insidiar. Semplici siéno

I tuoi balsami allor; nè oprarli ardisci
Pria che su lor deciso abbian le nari
Del mio Signore, e tuo. Pon mano poscia
Al pettin liscio, e coll'ottuso dente
Lieve solca i capegli; indi li turba
Col pettine e scompiglia: ordin leggiadro
Abbiano al fin da la tua mente industre.

Io breve a te parlai; ma, non pertanto,
Lunga fia l'opra tua; nè al termin giunta
Prima sarà, che da più strani eventi
Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi a lo speglio; e vedrai quivi
Non di rado il Signor morder le labbra
Impaziente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor, se artificiosa meno
Fia la tua destra, del convulso piede
Udrai lo scalpitar breve e frequente,
Non senza un tronco articolar di voce;
Che condanni e minacci. Anco t'aspetta
Veder talvolta il mio Signor gentile
Furiando agitarsi; e destra e manca
Porsi nel crine; e scompigliar con l'ugna
Lo studio di molt' ore in un momento.
Che più? Se per tuo male un di vaghezza
D'accordar ti prendesse al suo sembiante
L'edificio del capo, ed obliassi

Di prender legge da colui, che giunse [re,
Pur jer di Francia: ahi quale atroce folgo-
Meschino! allor ti pendería sul capo!
Che il tuo Signor vedresti ergers' in piedi ;
E versando per gli occhi ira e dispetto,
Mille strazi imprecarti ; e scender fino
Ad usurpar le infami voci al vulgo,
Per farti onta maggiore; e di bastone
Il tergo minacciarti; e violento
Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
Rotti cristalli e calamistri e vasi
E pettine ad un tempo. In cotal guisa,
Se del Tonante all' ara, o de la Dea
Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo,
Tauro spezzava i raddoppiati nodi,
E libero fuggía, vedeansi al suolo
Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
Litui, coltelli; e d'orridi muggiti
Commosse rimbombar le arcate volte;
E d'ogni lato astanti e sacerdoti
Pallidi all'urto e all'impeto involarsi
Del feroce animal, che pria si queto
Gía di fior cinto, e sotto a la man sacra
Umiliava le dorate corna.

Tu non pertanto coraggioso e forte
Soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il foco d'ira
In nobil cor. Tosto il Signor vedrai
Mansuefatto a te chieder perdono;
E sollevarti oltr'ogni altro mortale
Con preghi e scuse, a niun altro concesse;
Onde securo sacerdote allora
L'immolerai, qual vittima, a Filauzio,
Sommo nume de' Grandi; e, pria d'ognal-
Larga otterrai del tuo lavor mercede. [tro,
Or, Signore, a te riedo. Ah! non sia colpa
Dinanzi a te, s'io traviai col verso,
Breve parlando ad un mortal, cui dêgni
Tu de gli arcani tuoi. Sai, che a sua voglia
Questi ogni di volge e governa i capi
De' più felici spirti; e le matrone,
Che da' sublimi cocchi alto disdegnano
Volgere il guardo a la pedestre turba,
Non disdegnan sovente entrar con lui
In festevoli motti, allor ch'esposti
A la sua man sono i ridenti avorii
Del bel collo, e del crin l' aureo volume.
Perciò accogli, ti prego, i versi miei
Tuttor benigno; ed odi or, come puossi
L'ore a te render graziose, mentre
Dal pettin creator tua chioma acquista
Leggiadra, o almen non più veduta forma.

Picciol libro elegante a te dinanzi Tra gli arnesi vedrai, che l'arte aduna

Per disputare a la natura il vanto
Del renderti si caro a gli occhi altrui.
Ei ti lusinghera forse con liscia,
Purpurea pelle, onde fornito avrallo
O Mauritano conciatore o Siro;
E d'oro fregi dilicati, e vago
Mutabile color, che il collo imiti
De la colomba, v' avrà posto intorno
Squisito legator Batavo o Franco.
Ora il libro gentil con lenta mano
Togli, e non senza sbadigliare un poco,
Aprilo a caso, o pur là dove il parta
Tra una pagina e l'altra indice nastro.
O de la Francia Próteo multiforme, [to
Voltaire, troppo biasinato, e troppo a tor-
Lodato ancor; che sai con novi modi
Imbandir ne' tuoi scritti eterno cibo
A i semplici palati; e se' maestro
Di coloro che mostran di sapere :
Tu appresta al mio Signor leggiadri studi
Con quella tua Fanciulla, a gli Angli in-
festa,

Che il grande Enrico tuo vince d'assai;
L'Errico tuo, che non peranco abbatte
L'Italian Golfredo, ardito scoglio
Contro a la Senna, d'ogni vanto altera.
Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
Celebrata, Ninon, novella Aspasia,
Taide novella a i facili sapienti
De la Gallica Atene, i tuoi precetti
Pur dona al mio Signore ; e a lui non meno
Pasci la nobil mente, o tu (1), ch'a Italia,
Poi che rapirle i tuoi l'oro e le gemme,
Invidiasti il fedo loto ancora,

On le macchiato è il Certaldese, e l'altro,
Per cui va si famoso il pazzo Conte.

Qcesti, o Signore, i tuoi studiati autori
Fieso, emill' altri, che guidaro in Francia
A novellar con le vezzose schiave
I bendati Sultani, i Regi Persi,
E le peregrinanti Arabe dame;
O che, con penna liberale, a i cani
Razion donaro e a i barbari sedili,
E dier feste e conviti e liete scene
A polli ed a le gru, d'amor maestre.
Oh pascol degno d'anima sublime!
Oh chiara, oh nobil mente! A te ben dritto
E che si curvi riverente il vulgo,
Egli oracoli attenda. Or chi fia dunque
Si temerario, che in suo cor ti beffi,
Qualor, partendo da si begli studi,
Del tuo paese l'ignoranza accusi;

(1) LA FONTAINE

E tenti aprir col tuo felice raggio
La Gotica caligine, che annosa
Siede su gli occhi a le misere genti?
Così non mai ti venga estranea cura
Questi a troncar si preziosi istanti,
In cui, non meno de la docil chioma,
Coltivi ed orni il penetrante ingegno.

Non pertanto avverrà, che tu sospenda
Quindi a pochi momenti i cari studi,
E che ad altro ti volga. A te quest' ora
Condurrà il merciaiuol che in patria or tor-
Pronto inventor di lusinghiere fole, [na;
E liberal di forestieri nomi

A merci che non mai varcaro i monti.
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi, ch' osi
Unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambi
Mille fregi e gioielli, a cui la moda
Di viver concedette in giorno intero
Tra le folte d'inezie, illustri tasche.
Poi lieto se n'andrà con l'una mano
Pesante di molt' oro; e in cor gioiendo,
Spregerà le bestemmie imprecatrici,
E il gittato lavoro, e i vani passi
Del calzolar diserto, e del drappiere;
E dirà lor: Ben degna pena avete,
O troppo ancor religiosi servi

De la Necessitade, antiqua, è vero,
Madre e donna dell'arti, or nondimeno
Fatta cenciosa e vile. Al suo possente,
Amabil vincitor v'era assai meglio,
O miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso
Oggi sol puote dal ferace corno
Versar sull' arti, a lui vassalle, applausi,
E non contesi mai premii e dovizie.

L'ora fia questa ancor, che a te conduca
Il dilicato miniator di belle,
Ch'è de la corte d'Amatunta e Pafo
Stipendiato ministro, atto a gli affari
Sollecitar dell' amorosa Dea.
Impaziente or tu l'affretta e sprona,
Perchè a te porga il desiato avorio,
Che de le amate forme impresso ride :
O che il pennel cortese ivi dispieghi
L'alme sembianze del tuo viso, ond' abbia
Tacito pasco, allor che te non vede,
La pudica d'altrui sposa, a te cara;
O che di lei medesma al vivo esprima
L'imagin vaga; o, se ti piace, ancora
D'altra fiamma furtiva a te presenti
Con più largo confin le amiche membra.

Ma, poi che al fine a le tue luci esposto
Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva,
Se bene il simulato al ver risponda,

Vie più rigido assai, se il tuo sembiante
Esprimer denno i colorati punti,
Che l'arte ivi dispose. Oh quante mende
Scorger tu vi saprai! Or brune troppo
A te parran le guance; or fia ch'ecceda
Mal frenata la bocca; or, qual conviensi
Al camuso Etiope, il naso fia.
Ti giovi ancora d'accusar sovente
Il dipintor, che non atteggi industre
L'agili membra e il dignitoso busto;
() che con poca legge a la tua imago
Dia contorno, o la posi, o la panneggi.

É ver, che tu del grande di Crotone
Non conosci la scuola; e mai tua mano
Non abbassossi a la volgar matita,
Che fu nell'altra età cara a' tuoi pari,
Cui sconosciute ancora eran più dolci
E più nobili cure, a te serbate.
Ma che non puote quel d'ogni precetto
Gusto trionfator, che all' ordin vostro,
In vece di maestro, il ciel concesse;
Ed onde a voi coniò le altere menti,
Acciò che possan de' volgari ingegni
Oltrepassar la paludosa nebbia,
E d'acre più puro abitatrici,
Non fallibili scerre il vero e il bello?

Perciò qual più ti par loda, riprendi, Non men fermo d'allor che a scranna siedi, Raffael giudicando, o l'altro eguale, Che del gran nome suo l'Adige onora ; E a le tavole ignote i noti nomi Grave comparti di color, che primi Fur tra' pittori. Ah! s' altri è si procace, Ch'osi rider di te, costui paventi L'augusta maestà del tuo cospetto : Si volga a la parete; e mentr' ei cerca Por freno in van col morder de le labbra A lo scrosciar de le importune risa, Che scoppian da' precordii, violenta Convulsione a lui deformi il volto; E lo affoghi aspra tosse; e lo punisca Di sua temerità. Ma tu non pensa, Ch'altri ardisca di te rider giammai; E mai sempre imperterrito decidi.

Or l'imagin compiuta intanto serba, Perchè in nobile arnese un di si chiuda Con opposto cristallo, ove tu faccia Sovente paragon di tua beltade Con la beltà de la tua Dama : o a gli occhi Degl' invidi la tolga, e in sen l'asconda Sagace tabacchiera; o a te riluca Sul minor dito fra le gemme e l'oro; O de le grazie del tuo viso dêsti Soavi rimembranze, al braccio avvolta

De la pudica altrui sposa, a te cara.

Ma giunta è al fin del dotto pettin l'opra. Già il maestro elegante intorno spande De la man scossa un polveroso nembo; Onde a te innanzi tempo il crine imbianD'orribil piato risonar s'udio [chi. Già la corte d'Amore. I tardi vegli Grinzuti osâr co i giovani nipoti Contendere di grado in faccia al soglio Del comune Signor. Rise la fresca Gioventude animosa, e d'agri motti Libera punse la senil baldanza. Gran tumulto nascea : se non che Amore, Ch' ogni diseguaglianza odia in sua corte, A spegner mosse i perigliosi sdegni ; E a quei, che militando incanutiro Suoi servi; impose d'imitar con arte I duo bei fior, che in giovenile gota Educa e nutre di sua man Natura. Indi fe' cenno; e in un balen fur visti Mille alati ministri, alto volando, Scoter le piume; e lieve indi fiocconne Candida polve, che a posar poi venne Su le giovani chiome; e in bianco volse Il biondo, il nero e l'odiato rosso. L'occhio così nell' amorosa reggia Più non distinse le due opposte etadi; E solo vi restò giudice il tatto.

Or tu adunque, o Signor, tu che se' il
primo

Fregio ed onor dell' amoroso regno,
I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
Pria da provvida man, la bianca polve
In piccolo stanzin con l'aere pugna,
E de gli atomi suoi tutto riempie,
Egualmente divisa. Or ti fa core;
E in seno a quella vorticosa nebbia
Animoso ti avventa. Oh bravo! oh forte!
Tale il grand' Avo tuo tra 'l fumo e 'l foco
Orribile di Marte furiando

Gittossi allor che i palpitanti Lari
De la patria difese; e ruppe e in fuga
Mise l'oste feroce. Ei non pertanto,
Fuligginoso il volto, e d'atro sangue
Asperso e di sudore, e co' capegli
Stracciati ed irti, da la mischia uscio,
Spettacol fero a' cittadini istessi,
Per sua man salvi; ove tu, assai più dolce
E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
Uscirai quindi a poco a bear gli occhi
De la cara tua patria, a cui dell' Avo
Il forte braccio, e il viso almo, celeste
Del Nipote dovean portar salute.

Ella ti attende impaziente, e mille

Anni le sembra il tuo tardar poch' ore.
E tempo omai, che i tuoi valletti al dorso
Con lieve man ti adattino le vesti,
Cui la Moda e 'l Bongusto in su la Senna
T'abbian tessute a gara, e qui cucite
Abbia ricco sartor, che in su lo scudo
Mostri intrecciato a forbici eleganti
Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi
A la materia la stagion diversa; [ora,
Ma sien, qual si conviene al giorno e all'
Sempre vari il lavoro e la ricchezza (c).

Fero Genio di Marte, a guardar posto
De la stirpe de' Numi il caro fianco,
Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi,
Lieve e corta non già, ma, qual richiede
La stagion bellicosa, al suol cadente,
E di triplice taglio armata e d'elsa,
Immane. Quanto esser può mai sublime
L'annoda pure; onde l'impugni all'uopo
La furibonda destra in un momento;
Ne disdegnar con le sanguigne dita
Di ripulire ed ordinar quel nodo,
Onde l'elsa è superba : industre studio
E di candida mano; al mio Signore
Dianzi donollo, e gliel appese al brando
La pudica d'altrui sposa, a lui cara.
Tal del famoso Artù vide la corte
Le infiammate d'amor donzelle ardite
Ornar di piume e di purpuree fasce
I fatati guerrieri; onde più ardenti
Gisser poi questi ad incontrar periglio
In selve orrende tra i giganti e i mostri.
Figlie de la Memoria, inclite Suore,
Che invocate scendeste, e i feri nomi
De le squadre diverse e de gli Eroi
Annoveraste a i Grandi, che cantaro
Achille, Enea e il non minor Buglione :
Or m'e duopo di voi : tropp'ardua impresa,
E insuperabil senza vostr’aita,
Fia ricordare al mio Signor di quanti
Leggiadri arnesi graverà sue vesti,
Pria che di se medesmo esca a far pompa.
Ma qual tra tanti e si leggiadri arnesi
Si felice sarà, che pria d'ogni altro,
Signor, venga a formar tua nobil soma?
Tatti importan del par. Veggo l'astuccio,
Di pelle rilucente ornato e d'oro,
Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
Occupar di sua mole : esso a mill' uopi
Opportuno si vanta; e in grembo a lui,
Atta a gli orecchi, a i denti, a i peli,

all' ugne,

Vien forbita famiglia. A lui contende I primi onori, d'odorifer' onda

Colmo cristal, che a la tua vita in forse
Rechi soccorso, allor che il vulgo ardisce
Troppo accosto vibrar da la vil salma
Fastidiosi eflluvi a le tue nari.

Ne men pronto di quella all' uopo istesso
L'imitante un cuscin, purpureo drappo
Mostra turgido il sen d'erbe odorate,
Che l'aprica montagna in tuo favore
Al possente meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina rupe
Prezioso vasello inde traluce
Non volgare confetto, ove a gli aromi
Stimolanti s'unío l'ambra, o la terra,
Che il Giappon manda a profumar de'
Grandi

L'etereo fiato; o quel che il Caramano
Fa gemer latte dall' inciso capo
De' papaveri suoi; perchè, qualora
Non ben felice amor l'alma t'attrista,
Lene serpendo per le membra, acqueti
A te gli spirti, e ne la mente induca
Lieta stupidità, che mille aduni
Imagin dolci, e al tuo desio conformi.
A questi arnesi il cannocchiale aggiugni,
E la guernita d'oro Anglica lente.
Quel, notturno favor ti presti allora
Che in teatro t'assidi, e t'avvicini
Gli snelli piedi e le canore labbra
Da la scena rimota; o con maligno
Occhio ricerchi di qualch' alta loggia
Le abitate tenébre; o miri altrove
Gli ognor nascenti e moribondi amori
De le tenere Dame; onde s' appresti
Per l'eloquenza tua nel di vicino
Lunga e grave materia. A te la lente
Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
Economa presieda; e si li parta,
Che il mirato da te vada superbo:
Ne i malvisti accusarti osin giammai.
La lente ancora, all'occhio tuo vicina,
Irrefragabil giudice condanni,

O approvi di Palladio i muri e gli archi,
O di Tizian le tele. Essa a le vesti,
A i libri, a i volti femminili applauda
Severa, o li dispregi. E chi del senso
Comun si privo fia, che opporsi unquanco

Osi al sentenziar de la tua lente?
Non per questi però sdegna, o Signore,
Giunto a lo specchio, in gallico sermone
Il vezzoso Giornal; non le notate,
Eburnee tavolette, a guardar preste
Tuoi sublimi pensier, fin ch'abbian luce
Doman tra i begli spirti; e non isdegna
La picciola guaína, ove a' tuoi cenni

Mille stan pronti ognora argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace
Ho vedut'io le man render beate
Uno apprestato a tempo, unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
Lasci 'l coltello, a cui l'oro e l'acciaro
Donår gemina lama; e a cui la madre
De la gemma più bella d'Anfitrite
Die manico elegante, ove il colore
Con dolce variar l'iride imita?
Opra sol fia di lui, se ne' superbi
Convivii ognaltro avanzerai per fama
D'esimio trinciatore; e se l'invidia
De' tuoi gran pari ecciterai, qualora,
Pollo o fagian con la forcina in alto
Sospeso, a un colpo il priverai dell'anca
Mirabilmente. Or ti ricolmi al fine
D'ambo i lati la giubba ed oleoso
Spagna e Rape, cui semplice origuela
Chiuda, o a molti colori oro dipinto;
E cupide ad ornar tue bianche dita
Salgan le anella, in fra le quali, assai
Più caro a te dell' adamante istesso,
Cerchietto, inciso d'amorosi motti,
Stringati alquanto, e sovvenir ti faccia
De la pudica altrui sposa, a te cara.

Compiuto e il gran lavoro. Odi, o Signo-
Sonar già intorno la ferrata zampa [re,
De' superbi corsier, che irrequieti
Ne' grand' atrii sospigne, arretra e volge
La disciplina dell' ardito auriga.
Sorgi, e t'appresta a render baldi e lieti
Del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente Signor scender non lice
Da le stanze superne, infin che al gelo
O al meriggio non abbia il cocchier stanco
Durato un pezzo; onde l'uom servo intenda
Per quanto immensa via natura il parta
Dal suo Signore. I miei precetti intanto
Io seguiro; che varie al tuo mattino
Portar dee cure il variar de i giorni.

Tal di ti aspetta d'eloquenti fogli Serie a vergar, che al Rodano, al Lemáno, All' Amstel, al Tirreno, all' Adria legga Il libraio, che Momo e Citeréa Colmar di beni; o il più di lui possente Appaltator di forestiere scene, Con cui per opra tua facil donzella Sua virtù merchi, e non sperato ottenga Guiderdone al suo canto. Oh di grand'alma Primo fregio ed onor, Beneficenza, Che al merto porgi ed a virtù la mano! Tuil ricco e il grande sopra il vulgo innalzi; Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.

Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse Den qualch'ore serbarsi al molle ferro, Che il pelo a te, rigermogliante a pena, D'insula guancia miete; e par che invidii, Ch' altri, fuor che lui solo, esplori o scopra Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorChe di lavacro universal convienti [no, Bagnar le membra, per tua propria mano O per altrui con odorose spugne Trascorrendo la cute. È ver, che allora D'esser mortal ti sembrerà; ma innalza Tu allor la mente; e de' grand' avi tuoi Le imprese ti rimembra e gli ozii illustri, Che infino a te per secoli cotanti Misti scesero al chiaro, altero sangue; E l'ubbioso pensier vedrai fuggirsi Lunge da te per l'aëre rapito Sull' ale de la Gloria alto volanti; Ed indi a poco sorgerai, qual prima, Gran Semideo, che a sè solo somiglia. Fama è così, che il di quinto le Fate Loro salma immortal vedean coprirsi Già d'orribili scaglie, e in feda serpe Volta strisciar sul suolo, a sè facendo De le inarcate spire impeto e forza; Ma il primo Sol le rivedea più belle Far beati gli amanti, e a un volger d'occhi Mescere a voglia lor la terra e il mare.

Fia d'uopo ancor, che da le lunghe cure T'allevii alquanto, e con pietosa mano Il teso per gran tempo arco rallenti. Signore, al ciel non è più cara cosa Di tua salute; e troppo a noi mortali E il viver de' tuoi pari util tesoro. Tu adunque, allor che placida mattina Vestita riderà d'un bel sereno, Esci pedestre; e le abbattute membra All' aura salutar snoda e rinfranca. Di nobil cuoio e te la gamba calzi Purpureo stivaletto; onde il tuo piede Non macchino giammai la polve e'l limo, Che l'uom calpesta. A te s'avvolga in

torno

Leggiadra veste, che sul dorso sciolta
Vada ondeggiando, e tue formose braccia
Leghi in manica angusta, a cui vermiglio
O cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color, che l' elitropio tigne,
Sottilissima benda indi ti fasci
La snella gola. E il crin... Ma il crin,
Signore,

Forma non abbia ancor da la man dotta
Dell'artefice suo; che troppo fora,
Ahi! troppo grave error lascia tant' opra

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