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VEGGIO il mondo fallir, veggiolo stolto, E veggio la virtute in abbandono; E che le Muse a vil tenute sono, Talche l'ingegno mio quasi è sepolto.

Veggio in odio ed invidia tutto volto Il pensier degli amici, e in falso tono Veggio tradito dal malvagio il buono, E tutto a nostri danni il ciel rivolto.

Nessun al ben comun tien fermo segno, Anzi al suo proprio ognun discorre seco, Mentre ha di varj affetti il petto pregno.

lo veggio, e nel veder tengo odio meco; Talche vorrei vedere per disdegno O me senz' occhi, o tutto il mondo cieco.

ODE.

Non posso più soffrir tanto tormento, Tanto dolore e sparger tanti al vento Sospiri ; e certo indarno mi confido, E indarno io grido.

Indarno grido, ahi lasso, egli è palese Che amor tien l'empie corde all'arco tese, Spesso porgendo offese al core e al petto In gran dispetto.

In gran dispetto io vivo e in gran dolore, Ma colpa è stato sol di quel splendore Che passò al core, e per gli occhi ebbe via Per morte mia.

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E con lei congiurato è il cielo ancora,
Perch' io esca fuora di sì trista vita,
Altrui gradita.

Altrui gradita, a me certo nojosa
Quant' esser possa più spiacevol cosa.
O vita dolorosa, ch' io pur vivo
Di speme privo.

Di speme privo mi nutrisco in foco,
E d'altrui e di me mi cal sì poco,
Ch'io stimo gioco morte e corro a lei
Ch'io pur vorrei.

Ch'io pur vorrei com'ella fugge in fretta, Poter seguirla a guisa di saetta, E far d'amor vendetta e di me stesso, Dal duolo oppresso.

Dal duolo oppresso, ancor che la ritrovi, Senza aver cosa che diletti o giovi, Con pensier novi pur vado reggendo Il peso orrendo.

Il peso orrendo è certo che mi preme Della mia vita giunta all' ore estreme, Che spera e teme, e vince ogni languire Il mio martire.

PER L'ITALIA.

SONETTO.

Padre del ciel, se mai ti mosse a sdegno L'altrui superbia o la tua propria offesa, E l'Italia veder serva ti pesa Di gente fiera e sotto giogo indegno:

Mostrane d'ira e di giustizia segno, Ch' esser dee pur nostra querela intesa,

E pietoso di noi prendi difesa
Contra i nostri nemici e del tuo regno.

Vedi i figli del Reno e dell' Ibero
Preda portar dei nostri ameni campi, [ro.
Che già servi, or di noi s'han preso impe-
Dunque l'usato tuo furore avvampi,
E movi in pro di noi giusto e severo,
Chè solo in te speriam che tu ne scampi.

L. TORNIELLO BOROMEO,

DA NOVARA.

(1554.)

SONETTO.

MILLE fiate a Dio chiest' ho quell' ale Da potermi levar leggiera al cielo, Ma così grave è il mio caduco velo, Che uscir non so di questo mondo frale. Forse non piace a Lui, ch' io del mortale Ancor mi spogli, e cangi abito e pelo; Ne patito fors' ho quel caldo e gelo Che soffrir de' chi a tanta gloria sale. Faccia che piace a Lui, discerno almeno Dal falso il vero, e dal diritto il torto; E veggio che qua giù poco è sereno.

In mare errando andrò con sperar porto, E sarà porto ch' ei m' accolga in seno, Che per zelo di me so pur ch'è morto.

CHIARA MATRAINI,

DA LUCCA.

(1555.)

I FRUTTI D'AMORE.

SONETTO.

QUEL Soave d' amor che tanto piace È quasi un bel seren che addietro mena Nebbia folta d'error, di doglia e pena, Quando più scalda il ciel l' ardente face.

E quel che sembra in lui diletto e pace, È qual piaggia di fiori e d' erbe piena, Ove 'l pie del desio v' è giunto a pena, Che sente il morso del rio serpe audace;

Ed è quasi un tranquillo mar che porta Con second' aura ben spalmata nave Contro scogli e sirene e ria procella,

Là dove l' alma semplicetta assorta Resta nel centro della terra, grave Fatta a sè stessa ed al suo ben rubella.

SONETTO.

Se l'aver per altrui sè stesso a vile, E far d'una bell' alma e d'un bel volto Idolo al suo, nè mai da lui rivolto Star col pensier divotamente umile,

S'arder di e notte a un foco almo e genFra mille cari e forti lacci avvolto, [tile E voler poco, desiando molto, Ne per pioggia o per sol cangiar mai stile;

Se languir dolce, e gioja ogni tormento, E provar come in un crudele e pio Spesso si mostra a' suoi seguaci amore,

Fede può far d'un saldo, acceso core, Fede insieme ed amor s'acquisti il mio, Che, ardendo in voi, si è di vita spento.

SONETTO.

Fera son io di quest'ombroso loco Che vo con la saetta in mezzo il core Fuggendo, lassa, il fin del mio dolore, E cerco chi mi strugge a poco a poco.

E come augel che fra le penne il foco Si sente acceso, onde volando fuore Dal dolce nido suo, mentre l'ardore Fugge coll' ali, più raccende il foco;

Tal io fra queste frondi all' aura estiva Coll'ali del desio volando in alto, Cerco il foco fuggir che meco porto:

Ma quanto vado più di riva in riva Per fuggir il mio mal, con fiero assalto Lunga morte procaccio al viver corto.

LA LIBERTA.

SONETTO.

Mai, fuor di libertà, dolce nè cara Cosa non fu, nè fia bella e gradita, Onde il buon Cato prima uscir di vita Volle che servitute empia ed amara.

Felice quel che a l'altrui esempio impa E la grazia di Dio larga infinita [ra, Conosce e gode, anzi che fia partita La sua tranquillità serena e chiara.

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Quivi con le sorelle canterai I miei pensieri per letizia folli, Perché i desiri miei fatti ha satolli Quest' aristarco, e me tratta di guai.

Ed al gran Castelvetro in atto umíle Dirai: Se 'l ciel mi dà tanto valore Degno di voi, ed al gran merto eguale, Che posto avrai mai sempre e linguae

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PARI non ebbe mai fede alla mia
La Greca che vent'anni Ulisse attese;
Ne a più bel fin, nè più lodato intese
La chiara Evadne, o la fedele Argia.

Quant'io che dove avvien che tu non sia,
Parmi non solo aver l' ore mal spese,
Ma che mi sian tutte l' insidie tese,
E ch' io provi ogni stella ingrata e ria;

Torna sposo fedel, torna mia vita, Che se non vieni a me, vedrai tu quello Che forse non pensaro i due vivendo.

Morro prima di te, ch 'a tal m'invita Il tuo cor verso me troppo rubello, Ch'ognor bramosa un simil fine attendo.

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Darvi umilmente nelle mani il freno,
Che al piacer vostro, come vento foglia,
La volgeste in un punto, in un baleno;
Ma trassi ancor me stessa dalla soglia
Della memoria, e a voi la posi in seno;
V' ebbi voi sempre, e me posi in obblio,
E con me insieme ancor uomini e Dio.

Così conversa in voi, mio lume, intanto,
E fattovi di me tempio ed altare,
Preso di riverenza il sacro manto,
Onde fosser mie preci a voi più care,
V' offersi umile i sensi, e l'alma, e quanto
Per me mai si potesse o dire o fare.
Non arrivai (ben sollo) al vostro merto;
Più non potetti: io ben di ciò v'accerto.

Tutti i tormenti allor, tutte le pene Mi furo a sopportar lieti e soavi; Che essendo cara a voi, dolce mio bene, Che tenevate del mio cuor le chiavi, Con dolce rimembrar, con bella speme, Mitigava i pensier nojosi e gravi; I pensier che di tenebre e d'orrore Empion sovente il bel regno d' Amore.

Ma or che voler vostro, o mia fortuna, Privata a torto m' ha d'ogni contento, E che le mie preghiere ad una ad una, Quante ne porgo, se le porta il vento, Non vive alcun mortal sotto la luna Che senta al par di me doglia e tormento; Al par di me la cui perdita eccede [de. Ogn'altra di gran lunga, e ogn'uom sel ve

Viappiù che neve ho sempre il cuor gelaChe perdè al tutto il natural calore, [to, Quando da voi sentissi abbandonato, E del duol fatto preda, e del timore: Perchè ogni spirto allor si tristo stato Avendo oltre misura in grave orrore Dietro a voi, vita sua, mosse le piante, Ond' io, lassa, restai fredda e tremante. L'anima ancor non ben certa e sicura Di poter senza voi viver un giorno, Per far men grave la sua pena dura, Segui de' bei vostr' occhi il lume adorno: Quinci nascostamente or questo fura, Ed or quel guardo, mentre a lor d' intorno Errando vanne desiosa e intenta, Ne par che del mio male affanno senta.

Poco dappoi fuggissi anco la speme Che molle fe' parermi ogni durezza: Fuggi ella non sol, ma seco insieme Ogni gioja, ogni pace, ogni dolcezza: Che senza lei sempre sospira e geme Un' alma innamorata, e nulla apprezza: Di nulla cura, e sol la morte chiama,

Così sperando di venir men grama. [to,

Credo che anch'io me stessa avrei tradiE venutane allor cogli altri in schiera, Se non fosse il desio stato impedito Dal non esser con essi si leggera. Non potei dunque, e sentone infinito Dolor, che se ben grata a voi non era, Avrebbe almen scemato il mio martire L'esservi appresso e innanzi a voi morire.

Cosi senz'alma e senza spirti, fuore D'ogni speranza e d'ogni bene io vivo; Che vivo dissi? anzi pur no, che il core Al partir vostro fu di vita privo; E se ben serbo il natural calore, E giorno e notte penso, e piango, e scrivo, È miracol d'amor, che spesso in vita Tiene un benchè sia l' anima partita.

In tal maniera i giorni vo menando, Pensosa sempre e pallida in aspetto, Pallida pel vigor che consumando Si viene a poco a poco dentro il petto. Sospiro e gemo, e posto al tutto ho in banOgni riso, ogni canto, ogni diletto; [do E ciò che veggo o sento mi dispiace, E sol nel lagrimar ho qualche pace.

Nè però accuso voi, occhi lucenti, Che non mio merto, ma bontà natia Vi fece già ver me pietosi e intenti, Quando il vostro splendor ferimmi pria. Onde, se avete or quegli affetti spenti, Nè più vi cal dell' alta piaga mia, Or dee più che vi piaccia il vostro dono Legarvi? Tenuta io di quel vi sono.

Tenuta sonvi, e mentre adorno il cielo Andrà di luminose e vaghe stelle, E squarciando il notturno umido velo Scoprirà il sole or queste parti or quelle ; Mentre sia caldo il fuoco, e freddo il gelo, E d'amor nido l'alme pure e belle, Terrò di ciò memoria in sempiterno E sarò vostra ancor giù nell' inferno.

L. ALBANI AVOGADRO,

DA BERGAMO.

(1560.)

IN MORTE D' IRENE DI SPILIMBERGO.

SONETTO.

QUELLA che contemplando al ciel solea Poggiar si spesso con la mente altera, Onde a noi col pennel mostró quant' era Di perfetta beltà nella sua idea;

E col cantar, pura celeste dea

Sembrando, facea fede della vera Angelica armonia, che 'n l'altra spera Si cria, membrando il bel che l'alme bea: Poscia che le dolcezze ebbe gustato Ben mille volte dell' eterno Amante, Quanto più gustar puote alma ben nata, Disse sdegnando: A che più la beata Sede lascio per gir nel mondo errante? Cosi fermossi in quel felice stato.

OLIMPIA MALIPIERO,

DA VENEZIA.

(1560.)

SONETTO.

SE ratta da noi fugge ogni bellezza, E passa ogni piacere, ogni contento, E se qual balenar in un momento Nasce e sparisce quanto qui s' apprezza,

Se nostra verde etade alla vecchiezza Giugne in un punto, e come polve al vento Volano i giorni e gli anni, onde tormento Sol resta all' alma che 'l ben far disprezza,

Che fia di noi, se coll' orribil vista Morte grave dolor de' mal spesi anni Sveglierà al fin, che talor poco giova? Leva dunque, intelletto, e ai nostri danni

Provvediam, mentre ancor pietà si trova, Che il ciel per vanità mai non s'acquista.

IL DI DELLE CENERI.

SONETTO.

Del sommo eterno Re la fida sposa, Deposta ogni letizia, e canti, e feste, Umile oggi si mostra in brune veste, E ver noi dice con voce pietosa:

Mirate, figli miei, come ogni cosa Passa, quasi ombra, e più non si riveste, Abbiate al ciel le voglie attente e preste, Ove ogni vero ben ferma e riposa.

Ne v'inganni mortal gloria caduca, Non regni, non tesor, pompa o bellezza, O finti, brevi, fuggitivi onori.

A levarvi da terra omai v' induca, Che in questa si risolve ogni grandezza, Ch'io segno in fronte, e voi segnate i cori.

LAURA BATTIFERRO DEGLI AMMANNATI,

DA URBINO.

(1560.)

SONETTO.

COME padre pietoso che l'amato Figlio vagando d' uno in altro errore Gir vede pur del cammin dritto fuore Ch' ei lungo tempo già gli abbia segnato,

Ch'or con volto benigno, or con turbato, Or lo minaccia, or prega a tutte l'ore, Per ritornarlo al più vero e migliore Sentier nel primo suo felice stato;

Cosi Tu vero, e più d'ogn' altro pio, Supremo Padre, me tua figlia errante, Che a tua viva sembianza in ciel creasti,

Perchè quest'alma torni ond'ella uscio, Con dolci ed amarissimi contrasti Tenti ridurla alle tue leggi sante.

SONETTO.

Come chi da mortal, certo periglio Si vede oppresso, sbigottito e smorto, In tempestoso mar, lungi dal porto, Alza divoto a Dio la mente e il ciglio,

E se ridotto mai dal grave esiglio [to) L'ha il ciel (poichè non fu dall'onde assorAl caro albergo, più che prima accorto, Cerca del viver suo novo consiglio;

Si nel fallace mar del mondo infido, Fra l'onde incerte di pensier non saggi, Da Dio lontana e con la morte appresso

Mi trovo, ahi lassa, e giorno e notte griSignor deh! drizza i miei torti viaggi, [do: Ma il lito ancor veder non m' è concesso.

AD ANNIBAL CARO.

SONETTO.

Caro, se il basso stile e 'l gran desio Fosser conformi, e la materia e l'arte, Del vostro nome ornate le mie carte Unqua non temerian di Lete il rio;

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