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Vedendo, che il Leon riunirebbe,
E che il Cane primier fra gli animali
Sotto il regno di lui figurerebbe,
Se finchè quei parlò non l' interruppe,
Alfin levossi, ed il silenzio ruppe;

E disse; che politica, e ragione
Altamente esigean, che fosse eletto
Re di tutti i quadrupedi il Leone,
E che la scelta di si gran soggetto
A tutta la savissima assemblea
Merito sommo, e sommo onor facea :
Che del Leon le qualità sovrane
Ella avanti il consesso esposte avria,
Se l' egregio orator, se il savio Cane
Con cotanta eloquenza, ed energia
Fatto già non l'avesse in miglior foggia;
Ch' ella perciò del Can l'arringa appoggia.
Con elogi magnifici e pomposi
Poscia esalto quel nobile animale
Su gli animai più forti è più famosi,
Ed al suo ragionar die' un giro tale,
Che esagerate sempre e lusinghiere
Eran le date lodi, e parean vere.

Alla Volpe, ed al Can tutti applaudiro; Ma quei che conosceano e l'una, e l'altro Sotto i baffi ridean, poichè capiro Altro non esser, che artifizio scaltro, Apparenze fallaci, e nomi vani, Gentilezza, e amistà fra Volpi e Cani. Fu pertanto il Leon re proclamato Dall' assemblea quadrupede elettiva; E il Cane allora, a perdita di fiato, Evviva, grida, Leon Primo! evviva! E tutti con isforzo di polmone, Viva il Leon, gridâr, viva il Leone!

Ma il Leone, che un tacito contegno Tenuto sempre infin allora avea, Poichè si vide assicurato il regno Dal voto general dell' assemblea, In pie rizzossi, la criniera scosse Mostro le zanne, e per parlar si mosse.

Non si tosto si vide e si comprese Che il re novello a favellar s' accinge, Ciascun s'affolla, e innanzi a orecchie tese Per udir ciò ch' ei dir volea si spinge; Come creduli a udir stavan gli Achei Se parlavan dal tripode gli Dei.

E quei sentissi il cor si dilatato Da un intestina espansion reale, Che avendo sempre in singolar parlato La prima volta allor parlo in plurale, Quasi che il singolar più non convenga Ad un sovrano, e ch' ei plural divenga. Giacchè, disse quel fier, fra tanti e tanti

Animali di merto singolare
In noi trovaste qualità bastanti
Sugli altri per eleggerci a regnare,
Che al pubblico voler noi non dobbiamo
Opporci, di già noi lo sapevamo.

Ma quantunque non senza repugnanza Prestiamci ad accettar l'alta incombenza, Assicuriamo tutta l'adunanza

Della nostra real riconoscenza,
Sicuri che alcun mai non oserà
Lagnarsi della nostra maestà.

Riguarderemo i nostri amati e cari
Sudditi come amici e come figli,
Invitandogli ognor ne' gravi aflari
A giovarci coll' opra e coi consigli;
E scettro riterrem corona e trono,
Qual deposito sacro, e non qual dono.
Perciò sulla real nostra parola
Giuriam di mantener quant'abbiam detto.
Giuriam che ognor del nostro oprar la sola
Brutal felicità sarà l'oggetto;

E tutto ciò giuriam nel tempo stesso Che abbiam promesso, e non abbiam

promesso.

[tri,

In compenso speriam che ciascun mosSenza punto aspettar che se gli dica, Cieca sommissione agli ordin nostri ; Poiché se mai che alcun ci contraddica Sofferto non abbiam come Leone, Figuratevi poi come padrone.

Che il bel discorso che il Leone tenne Facesse impression, son persuaso, Ma a noi, che in ogni occasion solenne Ripeterlo ascoltiam, non fa più caso; Ché son per noi cose usuali e vecchie, Ed assuefatte omai v'abbiam le orecchie.

Ma le proteste di bontà, d'amore, A quella brutal turba in ciò novizia Parean sincera effusion di core, E di gia ne facea la sua delizia, E alzo concordemente ancor maggiori E gli applausi, e gli evviva, ed i clamori. Il lieto grido universal fe'l'eco Rimbombar per i colli e per le selve, E per ogni vallon, per ogni speco : Onde esultar di giubilo le belve, Che sotto d' un padron ciascuna spera Goder felicita stabile e vera.

Pel grand'amor verso il padron novello Pianser di tenerezza, e fra i più grandi Piaceri non trovâr piacer più bello, Quanto avere un padron che le comandi ; Cui se offriran la pelle, il pel, la vita, Sarà accettata ognor, se non gradita.

E voti fer con umide pupille Concordemente al Cielo, acciò conservi Al diletto padron mille anni e mille Buon appetito, e vigorosi nervi :

O buone bestie! oh quanto a voi fa onore
La sensibilità del vostro core !

Oh preziose lacrime! in vederle
Cader dai vostri grugni, intenerisco ;
Son gemme, son crisoliti, son perle;
Cara brutalità del tempo prisco,
La virtù, il sentimento, e i dover suoi
Alla posterita tu insegnar puoi.

Fenomeno si vide allor mirabile,
Che ammetter forse or non vorrà la critica,
Ma autentico si rende e incontrastabile
Dalla storia brutal pre-adamitica,
Che tratta fu da una pagoda antica,
Eil come e il quando uopo non è ch'or dica.
Non si tosto il Leon fu eletto re,
Che un uon so chè di dignità celeste
Lo circondò, lo penetro, gli die'
Maestà tal che in lui creduto avreste
Esser in nuova inesplicabil guisa
Seguíta metamorfosi improvvisa.
Incredibil dirò cosa, ma istorica :
D'intorno nitidissima si sparse
Alla criniera sua luce fosforica,
Chei baffi, e il pel gl'illuminò, non gli arse;
Sfolgorår gli occhi rilucenti e belli,
Che di Leda parean gli astri gemelli.
Non altrimente anche al figliuol d'Enea
Scappato dal famoso incendio d' Ilio,
Lucida fiamma intorno al crin splendea,
Siccome piena fe fanne Virgilio.
Quel portentoso scintillante fregio
Emblema fu del diadenia regio.

Spuntano i fior sull' arido terreno
Ovunque l'orma riverita ei stampa,
E in erba fresca si converte il fieno :
Ogni ruscel viengli a lambir la zampa,
E dell' auretta il dolce mormorio
Par che susurri: vo' baciarti anch' io.

Ora se il Ciel la potestà sovrana
Venera a cotal segno anche in un bruto,
Che fia d'un re che la figura umana
Dall' amica natura abbia ottenuto ?
E sol da questo imparino i mortali
A venerare i prenci anche animali.

Fatto ch'ebbe il Leon l'immenso passo, (Poichè, secondo giustamente io penso, Passar a un grado altissimo dal basso, Come a re da privato e un passo immenso) Ad onta della solita apparenza, Animato parea da un' altra essenza.

Eran l'idee più chiare e meglio espresse Nelle parole sue più savie e dotte, Le naturali secrezioni stesse Eran più regolari e più concotte: E da' meati o dagli augusti pori Spira gentil soavità d'odori.

Parea d' ambrosia e nettare nutrito; Parea celeste succo, e l'ammiranda Entro il nappo di Giove aver sorbito Dell' immortalità sacra bevanda. Quasi in Nume converso anche il direi, Se coda e zampa avessero gli Dei. Conciossiachè la qualità regale È un caustico adustivo, un assorbente, Un corrosivo, un dissolvente tale, Che tutto ove s'attacca interamente Disfa, discioglie, annichilisce e sforma, Ed in sè l' immedesima e trasforma. Laonde tuttociò che preesiste In un re si distrugge, e si rinnova : Quindi d'allor che un re Leone esiste, Chi in lui cerca il Leone, il re sol trova. Tal se talun zucchero o sale adacqua, Zucchero e sal non trova più, ma l'acqua.

Che quell' onnipotente non so che,
Quell' immensa immortal virtù infinita,
Che non si sa capir che diavol' è,
D' infondere è capace e moto e vita
A pigra e fral vilissima materia,
Che a pensarvi... per Bacco! è cosa seria.

Ed io di più scommetterei che se
Quel bestial collegio avesse eletto,
Invece del Leon, l' Asino re,
Veduto si saria lo stesso effetto;
E viste avrem le stesse qualità
Nell' Asin divenuto maestà.

Forse I fuoco così tolto dall' etra
Per lo furto fatal di Prometeo,
Fredda animando ed insensata pietra,
Una donna bellissima ne feo,
Onde spirar si vide e senso e vita
Dello scultor sotto la mano ardita.

S'affollar tutti intorno al re animale
I sudditi animali, e chi invittissimo,
Augusto, potentissimo, immortale,
Chi 'l disse gran Leon, chi Leonissimo;
E acció sopra di lor noi non restassimo,
Vi fu infin chi chiamollo ottimo massimo.

Fissi tutti gli sguardi erano in lui;
A lui tutti i pensieri eran rivolti,
Come se nulla l'esistenza altrui,
E dileguati, e nell'oblio sepolti
Fosser tutti gli oggetti, come suole
Sparir ogni astro all' apparir del Sole.

Ma regal maestà mista con grazia, Quei dispiegando nel sereno aspetto, Sorridendo li accoglie, e li ringrazia, Talche guadagna di ogni cor l'affetto : E se fra gli altri alcun più degno scorge, Oh clemenza! la zampa ancor gli porge. Allor confuso susurrio si spande : La zampa il re?... la zampa?..... si la zampa; E ad atto si magnanimo e sì grande Ciascun per lui d'amor, di zel più avvampa. Ed in tutti i suoi detti, in tutte l' opre L'alta bontà del suo bel cor discopre.

Ah come mai d' infantil gioia e lieve Vi puote, o bestie, infatuar cotanto L'illusion d'un falso ben, che in breve Cangiar dovrassi in vero duolo, e in pianto? E alfin accorti dell' error, vorrete Scuotere il giogo allor, ma non potrete. Dei quadrupedi sudditi la folla Tutta seguir volea l' orme sovrane, Ma il Leon nol permise, e congedolla, E gentilmente indi rivolto al Cane, Amico, gli dicea, tu vieni meco; Di molti e gravi affari ho a parlar teco. Tosto maggior si leva il susurrio : Ha detto amico al Can! con maraviglia Va ripetendo ognun: L'ho udito anch'io : Sì, sì, gli ha detto amico, altri ripiglia ; E il Can ciascun invidia, e fra sè dice, Oh fortunato Cane! oh Can felice! [go, Mail re col Can volgendo agli altri il terDa picciolo corteggio accompagnato, Incamminossi al suo selvoso albergo, Per accudire ai varii affar di stato; Chè con eroiche gesta e fatti egregi Vuol la gloria ecclissar de' più gran regi.

Vanne la regal bestia, e a farle omaggio
Avanti a lui spargono il suol di fiori
Le quadrupedi ninfe in sul passaggio;
E fanno intanto gli asini canori
Di concenti suonar l'aere d'intorno,
Finch'ei non giunga al suo real soggiorno.
E ogni qual volta in valle, in monte, in
selva,

Le belve del quadrupede dominio
S'incontravano poi con qualche belva
Che stat' era presente allo squittinio,
Discorsi interminabili, infiniti,
E domande facevanle, e quisiti.
Quella allor gli alti pregi esalta e loda
Del novello adorabile sovrano;
Il capo or ne descrive, ed or la coda,
Or la criniera ed ora il deretano,
Or l'alta dignità quando spalanca

L'augusto grifo e la sovrana branca.

Rilevava ogni moto, ed ogni detto, E lungo vi facea vario comento; Tutto grande, mirabile, perfetto, Tutto è stupendo in lui, tutto è portento; Ne si stancava mai di proferire Pomposi elogi dell' eccelso sire.

Parea che al mondo più non esistesse Idea di ciò che pria si fe', si disse; E che d'ogn' altro aflar, d' ogni interesse Le cure il nuovo re tutte assorbisse; E che un essere sol fosse in natura, E il resto poi secrezione impura.

Ne s' intendea qual magico prestigio Nei liberi animai cangiato e vinto, Con strano inesplicabile prodigio, Avesse il natural libero istinto : Filosofia vi studio fin' ora,

Nè il gran problema ha risoluto ancora.

ORIGINE DELL'OPERA.

POICHÈ impresi a narrar stupende cose
Della più oscura antichità rimota,
Che strane parran forse e favolose,
Vo' la vera sorgente a voi far nota
Ond' io le trassi; perché in mio pensiero
Non cadde mai di farvene mistero.

A pochi de' cronologi più esatti
Son noti d'un autor preadamita
I computi, ch' ei dice d'aver tratti
Da un poeta antichissimo ch' ei cita :
E fu, giusta la sua cronologia,
Seicentomila e più secoli pria.

L'opre dell' antichissimo scrittore
In un incendio semi-generale,
Centomil' anni almen, salvo ogni errore,
Perir dopo sua morte naturale;
Ne fa mica stupor che ciò accadesse,
In tabelle di legno essendo impresse.

In quell'incendio erribil spaventoso
Ad una biblioteca il foco giunse
D'un letterato a quei tempi famoso,
E con molte opre, quelle ancor consunse
Del citato da noi poeta critico
Storiografo-cronologo-politico.

L'autor preadamitico assicura
Che quel bruciato computo parlava
D'una rivoluzion della natura,
Che peraltro non ben specificava :

Onde non si sapea se la produsse
O acqua, o fuoco, o cosa diavol fusse.
Si sapea sol tre cento mila e cento
Secoli pria la cosa esser successa,
E che in quel general sconvolgimento
Cangio natura la natura stessa,
E tutti gli animai, che come noi
Parlavan pria, più non parlaron poi.

Ma invece di loquela altri il ruggito, Altri il ragghio, altri l'urlo, altri ebbe il fischio,

Chi latrato, chi strido, e chi muggito, Chi il gracchiar, chi il soffiar, chi un suono mischio;

Ma ognuno istinto ed indole ritenne,
O gusto tal che da natura ottenne.

Pur bestie conosciam che ben sovente
Han poi ripreso il lor linguaggio antico;
Parlando offerse il tentator serpente
Vietato frutto, o mela fosse o fico,
Ad Eva che sedotta Adam sedusse,
Lo che produsse poi quel che produsse.
Ne mi si venga fuor con la Scrittura,
Che Satanasso per parlar con Eva
Triplicandosi presa la figura

Di donna a un tempo e di serpente aveva : Diavolo, donna, e serpe a far parola Furon tre specie, è una persona sola.

Qual incredulo è mai che oggi non creda
Che parlasse Nabuc cangiato in bove?
Con Europa parlo, parlo con Leda, [ve;
Quando in cigno, ed in bue cangiossi Gio-
E talor forse forse al par di loro
D' Apuleio parlo l'Asino d'oro.
Tutte quante parlâr le bestie in cui
Incarnossi Visnu l'indico nume :
Di render vaticini arcani e bui
Deificate bestie ebber costume.
Ne annali mai rivolgo, antichi o nuovi,
Che parlanti animali io non vi trovi.

Ne qui favellerò del Simorganca(1),
Quel parlator maraviglioso uccello,
Che tanto oprò col rostro e colla branca,
Quando il gran Tamurat montò su quello,
Ei giganti sconfisse il Perso eroe,
Che fu il terror delle contrade eoe.

Ne il bue (2) di Livio rammentar qui
voglio,

Ne il can parlante al tempo di Tarquinio,
Ne il corvo che applaudi nel Campidoglio
Del tiranno di Roma all'assassinio;
L'irco di Friso ed il caval d'Achille,
E mille ancor simili esempi e mille,
L'asina di Balaam s'udi parlare,

Allorchè senza aver commesso fallo
La terza volta si sentì frustare;
Parla spesso la gazza e il pappagallo,
E spessissimo udiam, per terminarla,
Anche tra noi qualche animal che parla.

Chi non sa che Apollonio il Tianeo (3),
Di cui scrisse Filostrato la vita,
Oltre cose mirabili che feo,

Onde Europa rimase e Asia stupita,
Se udia garrir gli augei, li comprendea,
E così ben, che nato augel parea.

Oh se d'allor che il mondo principio ebbe
Di tai rivoluzion storia esistesse,
Oh come maestosa ella sarebbe!
Qual nel lettor pensante alto interesse,
Qual stupor desteria, qual meraviglia!
Ma storico a ciò fatto ove si piglia?

Or quando dietro al mio cronologista A stender questi Apologhi mi misi, Non altr'epoca mai presi di vista Che quell' anteriore a detta crisi : Ficcatevelo ben nella memoria, Quel che apologo e in oggi, allor fu istoria.

Ma son discreto, e non mi ostino a dire Che tutto vero sia quello che dico; Perchè so ben ciò che suole avvenire Se si parla di tempo troppo antico: E allin avreste voi forse in pensiero Tutto esser ver ciò che si tien per vero? Sovente i più comuni avvenimenti, Che sott'occhi veggiam, tocchiam con maIn modi raccontar si dillerenti [no, S'odon, che il ver se ne ricerca in vano; E quando appien tu credi esserne istrutto, Circostanza scopriam che altera il tutto.

I fogli periodici leggete

Itali, galli, ispani, angli, tedeschi,
Ove con fedeltà trovar credete
Esposti i fatti più sicuri e freschi :
Eppure infedelta sol vi si vede,
E contraddizione e mala fede.

Questi l'error per ignoranza ammette,
Quei mente per passion; quei per paura;
Chi per malizia tace, altera, omette,
Chi per adulazion tutto sfigura:
E il falso adorna, e appena il vero accenna,
Chi alfine a prezzo vil vende la penna.

E perche poi si spoglia e si dispensa D'ogni indulgenza quei che legge o ascolta Cosa accaduta in lontananza immensa, E fra profonda antichitade involta? Perchè piuttosto che trarne profitto, Cercar di farne allo scrittor delitto?

Meglio non è, se cosa v'è che spiace,

Una tranquilla indifferenza tacita
Usar, che fiele e critica mordace?
E se cosa v'è poi che vi capacita,
Perchè non l'adottar? ben si consiglia
Chi cauto il mal rigetta e al ben s' appiglia.
V'e qualche storia in ver che a prima vista
Può mendace parer ed illusoria,
Come quella del mio cronologista;
Ma quella stessa animalesca istoria
Spesso al racconto util riflesso intreccia,
Sotto quella simbolica corteccia.

Io per lo vostro onor suppor non voglio
(E gli apologhi miei sian pure inezie)
Che sdegniate ascoltar per vano orgoglio
Dalle parlanti animalesche spezie
Le verità politiche e morali,
Per non dir: Le apprendiam dagli animali.
Men val dei fatti il letteral racconto,
Che la moralità ch'indi dee trarsi :
Men di minuzie istoriche fo conto,
Che de' riflessi a tempo e loco sparsi:
San leggere e ascoltare i meno istrutti;
Rifletter, profittar non è da tutti.

Ma d'opere e d'autor preadamitici
Giammai notizia non avendo intesa,
Stupiran forse i cacadubbi stitici;
E la cosa sarà da talun presa,
Se il vero ben addentro non adocchia,
Per una solennissima pastocchia.

Io pertanto che sono in certi punti
Scrupoloso all'eccesso e delicato,
E che amo dalli miei più astrusi assunti
Uscir felice, o almen giustificato;
Ciò che dissi lo replico, e son pronto
Di quanto hovvi asserito a render conto.
Son settant'anni e più che un ricco In-
glese

Giunto del Gange alla famosa sponda,
Scorse il Bengala e l'Indico paese,
E i regni del Carnate e di Golgonda,
E del Coromandel la costa tutta
Dal capo Comorin fino a Calcutta.

Su i governi di quelle nazioni
Nuove acquistò notizie e nuovi lumi ;
L'origine indagonne e le ragioni,
Linguaggio, indole, riti, usi, costumi,
E de' bramini il venerato occulto
Sacerdotal misterioso culto.

E cola del bramino principale
(Per quai mezzi non so, nè per qual via)
Tale stima acquistossi e aflezion tale,
Che l'effetto parea d'una malia;
Ne del giovane Inglese il vecchio Brama
Contrariar sapea capriccio o brama.

Forse a talun potria venir sospetto,
Che del bramin l' Inglese a forza d'oro
Saputo avesse comperar l'affetto,
Di che sappiam che avidi son coloro;
Ma intaccarne non vo' la probitȧ,
E lascio al luogo suo la verità.

Dal gran bramino stesso ei fu introdutto
Nella primaria delle lor pagode,
E appieno fu da quel gran prete istrutto
Di ciò ch' altri non vede, altri non ode;
Vide gl'impenetrabili recessi,
Ove a nessun son liberi gli accessi.

Vide de' tempi più remoti e bui
I monumenti di mister profondo,
E il Zendavesta ei il Vedam, di cui
Tanto parlò, si poco seppe il mondo;
E gli alti arcani donde i dogmi suoi
Trasse l'Egitto pria, la Grecia poi.

Indi in un de' più intimi sacrari,
Ove inoltrarsi anche al bramin si vieta,
Geroglifici vide e emblemi vari,
Impressi in certe tavole di creta
Che dal tempo pareano in parte rose,
Gelosamente a mortal occhio ascose.

Onde disse, rivolto al sacerdote :
Deh quali strane cifre sconosciute,
Quai caratteri veggio e strane note
In tanta qui venerazion tenute?
A cui il bramin: Cosa hai veduto omai,
Che altri non vide e non vedrà giammai.

Sacro al gran Brama e prezioso è questo
Monumento di secoli a migliaia,
Ignorato dal mondo unico resto.
Ciò basti, e quanto udisti assai ti paia;
Fissi i confin sono al saper umano,
Più non cercar chè cercheresti invano.
Così disse il bramin, e con quel dire
Nel curioso viaggiatore inglese
L'impaziente di saper desire
Più stimolo, più vivamente accese:
Chied' egli instantemente, insiste e prega,
E di persuasione ogni arte impiega.

Vinto da tante istanze alfin, Tu chiedi,
Il bramin disse, un'impossibil cosa:
Sacri arcani caratteri qui vedi

Di lingua a ogni mortal vietata e ascosa;
Solo l'intelligenza a poche elette
Alme fuor del comun se ne permette.
La sacra lingua sol d'intender lice
Alla sacerdotal suprema casta,
Dell' umano destin regolatrice.
Virtù, merto, talento a quei non basta
Cui dentro la comune ignobil massa
Di minor çasta il destin getta e ammassa.

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