De le licenziose aure in balía. Non senz'arte però vada negletto Su gli omeri a cader; ma o che natura A te il nodrisca; o che da ignota fronte Il più famoso parrucchier lo tolga, E l'adatti al tuo capo in sul tuo capo Ripiegato l'afferri e lo sospenda Con testugginei denti il pettin curvo.
Doi che in tal guisa te medesmo ornato Con artificio negligente avrai, Esci pedestre a respirar talvolta L'aére mattutino; e ad alta canna Appoggiando la man, quasi baleno Le vie trascorri, e premi, ed urta il volgo, Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa Fora colpa l'uscir; però che andrićno Mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Cio ti basti per or. Già l'oriolo A girtene ti affretta. Ohime! che vago Arsenal minutissimo di cose
Ciondola quindi, e ripercosso insieme Molce con soavissimo tintinno!
Di costi che non pende? Avvi per fino Piccioli cocchi e piccioli destrieri, Finti in oro così, che sembran vivi. Ma v'hai tu il meglio? Ah sì, che i miei precetti
Sagace prevenisti: ecco che splende, Chiuso in picciol cristallo, il dolce pegno Di fortunato amor. Lunge, o profani; Che a voi tant' oltre penetrar non lice. E voi, dell'altro secolo feroci Ed ispid'avi, i vostri almi nipoti Venite oggi a mirar. Co' sanguinosi Pugnali a lato le campestri rocche Voi godeste abitar, truci all'aspetto, E, per gran baffi, rigidi la guancia, Consultando gli sgherri, e sol gioiendo Di trattar l'arme, che d'orribil palla Givan notturne a traforar le porte Del non meno di voi rivale armato. Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno Ad agitar fra le tranquille dita Dell' oriolo i ciondoli vezzosi; Ed opra è lor, se all'innocenza antica Torna pur anco, e bamboleggia il mon-
Or vanne, o mio Signore; e il pranzo allegra
De la tua Dama: e lei dolce ministro Dispensa i cibi, e detta al suo palato E a la sua fame inviolabil legge. Ma tu non obliar, che in nulla cosa Esser mediocre a gran Signor non lice.
Abbia il popol confini : a voi natura Donò senza confini e mente e cuore. Dunque a la mensa o tu schifo rifuggi Ogni vivanda, e te medesmo rendi Per inedia famoso; o nome acquista D'illustre voratore. Intanto addio, De gli uomini delizia, e di tua stirpe E de la patria tua gloria e sostegno. Ecco che umili in bipartita schiera T'accolgono i tuoi servi. Altri già pronto Via se ne corre ad annunciare al mondo, Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia Timido ti sostien, mentre il dorato Cocchio tu sali, e tacito e severo Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo; E cedi il passo al trono, ove s'asside Il mio Signore: ahi te meschin, s' ei perde Un sol per te de' preziosi istanti! Temi'l non mai da legge, o verga, o fune Domabile cocchier; temi le rote,
Che già più volte le tue membra in giro Avvolser seco, e del tuo impuro sangue Corser macchiate, e il suol di lunga stris- Spettacol miserabile! segnaro.
(a) FASTIDIRTI la mente; o di lugubri Panni ravvolto il garrulo forense, Cui de' paterni tuoi campi e tesori Il periglio s' affida; o il tuo castaldo, Che già con l'alba a la città discese, Bianco di gelo mattutin la chioma. Così zotica pompa i tuoi Maggiori Al di nascente si vedean dintorno. Ma tu, gran prole, in cui si feo, scendendo, E più mobile il senso e più gentile, Ah! sul primo tornar de' lievi spirti All' ufficio diurno, ah! non ferirli D'imagini si sconce. Or come i detti Di costor soffrirai barbari e rudi; Come il penoso articolar di voci Smarrite, titubanti al tuo cospetto; E tra l'obliquo profondar d'inchini, Del calzar polveroso in su i tappeti Le impresse orme indecenti?... (b) Ogni cosa è già pronta. All' un de' lati Crepitar s'odon le fiammanti brage, Ove si scalda industrioso e vario Di ferri arnese a moderar del fronte Gl'indocili capei. Stuolo d'Amori Invisibil sul foco agita i vanni; E per entro vi soffia, alto gonfiando Ambe le gote. Altri di lor v' appressa Pauroso la destra, e prestamente Ne rapisce un de' ferri. Altri, rapito, Tenta com' arda, in sull' estrema cima
Sospendendol dell' ala; e cauto attende Pur, se la piuma si contragga o fume. Altri un altro ne scote, e de le ceneri Filigginose il ripulisce e terge. Tali a le vampe dell' Etnéa fucina, Sorridente la madre, i vazhi Amori Eran ininistri all' ingegnoso fabbro; E sotto a i colpi del martel frattanto L'elmo sorgea del fondator Latino. All' altro lato con la man rosata Como e di fiori inghirlandato il crine, I bissi scopre, ove d' Idalii arredi Almo tesor la tavoletta espone. Ivi e nappi eleganti e di canori Cigni morbide piume; ivi raccolti Di lucide, odorate onde vapori; Ivi di polvi, fuggitive al tatto, Color diversi ad imitar d' Apollo L'aurato biondo, o il biondo cenerino, Che de le sacre Muse in su le spalle Casca ondeggiando tenero e gentile. Che se a nobile eroe le fresche labbra Repentino spirar di rigid' aura Offese alquanto, v'è stemprato il seme De la fredda cucurbita; e se mai Pallidetto ei si scorga, è pronto all' Arcano a gli altri eroi, vago cinabro. Nè quando a un semideo spuntar sul volto Pustula temeraria osa pur fosse, Multiforme di nei copia vi manca, Ond' ei l'asconda in sul momento, ed esca Più periglioso a saettar co i guardi Le belle inavvedute, a guerrier pari, Che, già poste le bende a la ferita, Più glorioso e furibondo insienie, Sbaragliando le schiere, entra nel folto.
(c) Vieni, o fior de gli eroi; vieni; e qual suole Nel più dubbio de' casi alto monarca Avanti al trono suo convocar lento Di satrapi concilio, a cui nell'ampia Calvizie de la fronte il senno appare; Tal di limpidi spegli a un cerchio in mezzo Grave t'assidi, e lor sentenza ascolta. Un, giacendo al tuo piè, mostri qual deggia Liscia e piana salir su per le gambe La docil calza; un sia presente al volto; Un dietro al capo; e la percossa luce Quinci e quindi tornando, a un tempo solo Tutto al giudizio de' tuoi guardi esponga L'apparato dell' arte. Intanto i servi A te sudino intorno; e qual, piegate Le ginocchia in sul suol, prono ti stringa Il molle piè di lucidi fermagli;
E qual del biondo crin, che i nodi eccede, Su la schiena ondeggiante, in negro velo I tesori raccoglia; e qual già pronto Venga spiegando la nettarea veste. Fortunato garzone, a cui la Moda, In fioriti canestri e di vermiglia Seta coperti, preparò tal copia D'ornamenti e di pompe! Ella pur jeri A te dono ne feo. La notte intera Faticaron per te cent' aghi e cento, E di percossi e ripercossi ferri
Per le tacite case andò il rimbombo: Ma non in van; poi che di novo fasto Oggi superbo nel Bel Mondo andrai; E per entro l'invidia e lo stupore Passerai de' tuoi pari, eguale a un dio, Folto bisbiglio sollevando intorno. (d) Volgi, o invitto campion, volgi tu pure Il generoso piè dove la bella, E de gli eguali tuoi scelto drappello Sbadigliando t'aspetta all' alte mense. Vieni; e, godendo, nell' uscire il lungo Ordin superbo di tue stanze ammira. Or già siamo all'estreme : alza i bei lumi A le pendenti tavole vetuste,
Che a te de gli avi tuoi serbano ancora Gli atti e le forme. Quei, che in duro dante Strigne le membra, e cui si grande ingombra Traforato collar le grandi spalle,
Fu di macchine autor; cinse d'invitte Mura i Penati; e da le nere torri Signoreggiando il mar, verso le aduste Spiagge la predatrice Africa spinse. Vedi quel magro, a cui canuto e raro Pende il crin da la nuca ; e l'altro, a cui Su la guancia pienotta e sopra il mento Serpe triplice pelo? Ambo s' adornano Di toga magistral, cadente a i piedi. L'uno a Temi fu sacro : entro a' licei La gioventù pellegrinando ei trasse A gli oracoli suoi; indi sedette Nel senato de' padri; e, le disperse Leggi raccolte, ne fe' parte al mondo: L'altro sacro ad Igea. Non odi ancora Presso a un secol di vita il buon vegliardo Di lui narrar quel che da' padri suoi Nonagenari udì, com' ei spargesse Su la plebe infelice oro e salute,
Pari a Febo suo nume? Ecco quel grande, A cui sì fosco parruccon s'innalza Sopra la fronte spaziosa, e scende
Di minuti botton serie infinita
Lungo la veste. Ridi? Ei novi aperse Studi a la patria; ei di perenne aita I miseri dotò; portici e vie Stése per la cittade; e da gli ombrosi Lor lontani recessi a lei dedusse Le pure onde salubri; e ne' quadrivi E in mezzo a gli ampli fòri alto le fece Salir scherzando a rinfrescar la state, Madre di morbi popolari. Oh come Ardi a tal vista di heato orgoglio, Magnanimo garzon! Folle! A cui parlo? Ei già più non m'ascolta: odiò que' ceffi Il suo sguardo gentil; noia lui prese Di sì vieti racconti ; e già s'affretta Giù per le scale impaziente. Addio, De gli uomini delizia, ec.
ARDIRO ancor tra desinari illustri Sul meriggio innoltrarmi umil cantore; Poi che troppa di te cura mi punge, Signor, ch'io spero un di veder maestro E dittator di graziosi modi All'alma gioventù, che Italia onora.
Tal fra le tazze e i coronati vini, Onde all'ospite suo fe' lieta pompa La Punica Regina, i canti alzava Jopa crinito e la Regina intanto Da' begli occhi stranieri iva beendo L'oblivion del misero Sichèo.
E tale allor che l'orba Itaca in vano Chiedea a Nettun la prole di Laerte, Femio s'udía co' versi e con la cetra La facil mensa rallegrar de' Proci, Cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli E i petrosi licori e la consorte Invitavano al pranzo. Amici or piega, Giovin Signore, al mio cantar gli orecchi, Or che tra nuove Elise e novi Proci, E tra fedeli ancor Penelopée, Ti guidano a la mensa i versi miei. [do,
Gia dal meriggio ardente il Sol fuggen- Verge all'occaso; e i piccioli mortali, Dominati dal tempo, escon di novo A popolar le vie ch'all' oriente Volgon ombra già grande. A te null' altro Dominator, fuor che te stesso, è dato.
Al fin di consigliarsi al fido speglio La tua Dama cesso. Quante uopo è volte Chiedette e rimando novelli ornati ; Quante convien, de le agitate ognora Damigelle or con vezzi, or con garriti Rovescio la fortuna; a sé medesma, [que; Quante volte convien, piacque e dispiacE, quante volte è d'uopo, a sè ragione Fece e a' suoi lodatori. I mille intorno Dispersi arnesi al fin raccolse in uno La consapevol del suo cor ministra ; Al fin velata d'un leggier zendado É l'ara tutelar di sua beltate; E la seggiola sacra un po' rimossa, Languidetta l'accoglie. Intorno ad essa Pochi giovani eroi van rimembrando I cari lacci altrui; mentre da lungi, A altra intorno, i cari lacci vostri Pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
A le lor celie; o s'ei si cruccia alquanto, Del tuo lungo tardar solo si cruccia. Nulla però di lui cura te prenda Oggi, o Signore; e s'egli a par del vulgo Prostro l'anima imbelle, e non sdegnosse Di chiamarsi marito, a par del vulgo Senta la fame esercitargl' in petto Lo stimol fier de gli ozïosi sughi, Avidi d'esca; o s'a un marito alcuna D'anima generosa orma rimane, Ad altra mensa il piè rivolga; e d'altra Dama al fianco s'assida, il cui marito Pranzi altrove lontan, d'un'altra a lato, Ch'abbia lungi lo sposo e così nuove Anella intrecci a la catena immensa, Onde, alternando, Amor l'anime annoda.
Ma, sia che vuol, tu baldanzoso innoltra Ne le stanze più interne. Ecco, precorre Per annunciarti al gabinetto estremo Il noto stropiccio de' piedi tuoi. Già lo sposo t'incontra. In un baleno Sfugge dall' altrui man l'accorta mano De la tua Dama ; e il suo bel labbro intanto T'apparecchia un sorriso. Ognun s' ar-
Chè conosce i tuoi dritti; e si conforta Con le adulte speranze, a te lasciando Libero e scarco il più beato seggio. Tal colà, dove infra gelose mura Bizanzio ed Ispaán guardano il fiore De la beltà, che il popolato Egéo Manda e l'Armeno e il Tartaro e il Circasso Per delizia d'un solo, a bear entra L'ardente sposa il grave Munsulmano. Tra 'l maestoso passeggiar gli ondeggiano Le late spalle, e sopra l'alta testa Le avvolte fasce; dell' arcato ciglio Ei volge intorno imperioso il guardo; E vede al su' apparire umil chinarsi, E il piè ritrar l' effeminata, occhiuta Turba, che sorridendo egli dispregia.
Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera Si dispongan tue grazie ; e a la tua Dama, Quanto elegante esser più puoi, ti mostra. Tengasi al fianco la sinistra mano Sotto il breve giubbon celata; e l'altra Sul finissimo lin posi, e s'asconda Vicino al cor; sublime alzisi 'l petto; Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei Piega il duttile collo; a i lati stringi Le labbra un poco; ver lo mezzo acute Rendile alquanto; e da la bocca poi, Compendiata in guisa tal, se n'esca
Un non inteso mormorío. La destra Ella intanto ti porga, e molle caschi Sopra i tiepidi avorii un doppio bacio. Siedi tu poscia; e d'una man trascina Più presso a lei la seggioletta. Ognuno Tacciasi; ma tu sol curvato alquanto, Seco susurra ignoti detti, a cui Concordin vicendevoli sorrisi, E sfavillar di cupidette luci, Che amor dimostri, o che lo finga almeno. Marimembra, o Signor, che troppo nuo- Ne gli amorosi cor lunga e ostinata Tranquillità. Sull' oceáno ancora Perigliosa è la calnia: oh quante volte Dall' immobile prora il buon nocchiere Invocó la tempesta! e sì crudele Soccorso ancor gli fu negato; e giacque Affamato, assetato, estenuato,
Dal velenoso aere stagnante oppresso, Tra l'inutile ciurma al suol languendo. Pero ti giovi de la scorsa notte Ricordar le vicende, e con obliqui Motti pungerl' alquanto: o se, nel volto Paga più che non suole, accor fu vista Il novello straniere, e co' bei labbri Semiaperti aspettar, quasi marina Conca, la soavissima rugiada
De' novi accenti; o se cupida troppo Col guardo accompagnò di loggia in loggia Il seguace di Marte, idol vegliante De' femminili voti, a la cui chioma Col lauro trionfal s' avvolgon mille E mille frondi dell' Idalio mirto.
Colpevole o innocente, allor la bella Dama improvviso adombrerà la fronte D'un nuvoletto di verace sdegno O simulato; e la nevosa spalla Scoterà un poco; e premerà col dente L'infimo labbro; e volgeransi al fine Gli altri a bear le sue parole estreme. Fors' anco rintuzzar di tue querele Saprà l'agrezza; e sovvenir faratti Le visite furtive a i tetti, a i cocchi Ed a le logge de le mogli illustri Di ricchi cittadini, a cui sovente, Per calle, che il piacer mostra, piegarsi La macstá di cavalier non sdegna.
Felice te, se mesta e disdegnosa La conduci a la mensa, e s'ivi puoi Solo piegarla a comportar de' cibi La nausea universal! Sorridan pure A le vostre dolcissime querele I convitati, e l'un l'altro percota Col gomito maligno: ah, nondimeno,
Come fremon lor alme ; e quanta invidia Ti portan, te veggendo unico scopo Di si bell' ire! Al solo sposo è dato Nodrir nel cor magnanima quiete; Mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto Docil fidanza ne le innocue luci.
Oh tre fiate avventurosi e quattro, Voi del nostro buon secolo mariti, Quanto diversi da' vostr'avi! Un tempo Uscía d'Averno con viperei crini, Con torbid' occhi irrequieti, e fredde Tenaci branche un indomabil mostro, Che ansando e anelando intorno giva A i nuziali letti, e tutto empiea Di sospetto e di fremito e di sangue. Allor gli antri domestici, le selve, L'onde, le rupi alto ulular s'udiéno Di femminili strida; allor le belle Dame, con mani incrocicchiate e luci Pavide al ciel, tremando, lagrimando, Tra la pompa feral de le lugúbri Sale, vedean dal truce sposo offrirsi Le tazze altossicate o i nudi stili. Ahi pazza Italia! Il tuo furor medesmo Oltre l'alpi, oltre 'l mar destò le risa Presso a gli emoli tuoi, che di gelosa Titol ti diero; e t'è serbato ancora Ingiustamente. Non di cieco amore Vicendevol desire, alterno impulso; Non di costume simiglianza or guida Gl'incauti sposi al talamo bramato; Ma la Prudenza co i canuti padri Siede, librando il molt'oro e i divini Antiquissimi sangui: e allor che l'uno Bene all' altro risponde, ecco Imenéo Scoter sua face, e unirsi al freddo sposo, Di lui non già, ma de le nozze amante, La freddissima vergine, che in core Già volge i riti del Bel Mondo, e lieta L'indillerenza maritale affronta. Così non fien de la crudel Megera Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene Contenda or pur le desïate porte A i gravi amanti, e di feminee risse Turbi Oriente. Italia oggi si ride Di quello, ond' era già derisa : tanto Puote una sola età volger le menti!
Ma già rimbomba d'una in altra sala Il tuo nome, o Signor; di già l'udiro L'ime officine, ove al volubil tatto Degl' ingenui palati arduo s'appresta Solletico, che molle i nervi scota,
E varia seco voluttà conduca Fino al core dell' alma. In bianche spoglie
S'affrettano a compir la nobil opra Prodi ministri ; e lor sue leggi detta Una gran mente, del paese uscita, Ove Colbert e Richelieu fur chiari. Forse con tanta maestade in fronte Presso a le navi, ond' Ilio arse e cadéo, Per gli ospiti famosi il grande Achille Disegnava la cena: e seco intanto Le vivande cocean su i lenti fochi Patroclo fido, e il guidator di carri Automedonte. O tu, sagace mastro Di lusinghe al palato, udrai fra poco Sonar le lodi tue dall' alta mensa. Chi fia che ardisca di trovar pur macchia Nel tuo lavoro? Il tuo Signor farassi Campion de le tue glorie : e male a quanti Cercator di conviti oseran motto Pronunciar contro te! che sul cocente Meriggio andran peregrinando poi Miseri e stanchi, e non avran cui piaccia Più popolar con le lor bocche i pranzi.
Inbandita è la mensa. In piè d'un salto Alzati, e porgi, almo Signor, la mano A la tua Dama; e lei, dolce cadente Sopra di te, col tuo valor sostieni; E al pranzo l'accompagna. I convitati Vengan dopo di voi; quindi 'l marito Ultimo segua. O prole alta di numi, Non vergognate di donar voi anco Pochi momenti al cibo: in voi non fia Vil opra il pasto; a quei soltanto è vile, Che il duro, irresistibile bisogno Stimola e caccia. All' impeto di quello Cedan l'orso, la tigre, il falco, il nibbio, L'orea, il delfino, e quant' altri mortali Vivon quaggiù; ma voi con rosee labbra La sola Voluttade inviti al pasto; La sola Volutta, che le celesti Mense imbandisce, e al néttare convita I viventi per sé Dei sempiterni.
Forse vero non è ; ma un giorno, è fama, Che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi Fur Plebe e Nobiltade. Al cibo, al bere, All'accoppiarsi d' ambo i sessi, al sonno Un istinto medesmo, un' egual forza Sospingeva gli umani; e niun consiglio, Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess' ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm' antri, Il medesimo suolo offrieno loro Il riposo e l'albergo, e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti. Sol' una cura a tutti era comune, Di sfuggire il dolore; e ignota cosa Era il desire a gli uman petti ancora.
L'uniforme de gli uomini sembianza Spiacque a' Celesti; e a variar la Terra Fu spedito il Piacer. Quale già i numi D'Ilio su i campi; tal l'amico Genio, Lieve lieve per l' aëre labendo, S'avvicina a la Terra; e questa ride Di riso ancor non conosciuto. Ei move; E l'aura estiva del cadente rivo E de i clivi odorosi a lui blandisce Le vaghe membra, e lenemente sdrucciola Sul tondeggiar de i muscoli gentile. Gli s'aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi ; E, come ambrosia, le lusinghe scorrongli Da le fraghe del labbro; e da le luci Socchiuse, languidette, umide fuori Di tremulo fulgore escon scintille, Ond'arde l'aere, che, scendendo, ei varca.
Al fin sul dorso tuo sentisti, o Terra, Sua prim' orma stamparsi ; e tosto un lento Fremere soavissimo si sparse
Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte Di natura le viscere commosse; Come nell' arsa state il tuono s'ode, Che di lontano mormorando viene, E col profondo suon di monte in monte Sorge e la valle e la foresta intorno Muggon del fragoroso alto rimbombo; Finchè poi cade la feconda pioggia, Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe Ravviva, riconforta, allegra e abbella.
Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo Viventi, a cui con miglior man Titáno Formò gli organi illustri, e meglio tése, E di fluido agilissimo inondolli! Voi l'ignoto solletico sentiste Del celeste motore. In voi ben tosto Le voglie fermentår, nacque il desío. Voi primieri scopriste il buono, i il meglio; E con foga dolcissima correste A possederli. Allor quel de' due sessi, Che necessario in prima era soltanto, D'amabile e di bello il nome ottenne. Al giudizio di Paride voi deste Il primo esempio: tra feminei volti A distinguer s'apprese; e voi sentiste Primamente le grazie. A voi tra mille Sapor fur noti i più soavi. Allora Fuil vin preposto all' onda; e il vins' elesse Figlio de' tralci più rïarsi, e posti A più fervido Sol ne' più sublimi
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