Sayfadaki görseller
PDF
ePub

TRAGEDIA.

ARGOMENTO.

L'ARGOMENTO della Tragedia è tratto da Pan. sania ne' Messenj. L' eccesso, a cui l'ambizione e lo sdegno spinsero Aristodemo ad uccidere la sua figlia, è quale egli stesso con tutte le sue orribili circostanze fedelmente racconta nella quarta scena dell'atto primo.

L'apparizione dello spettro, i rimorsi che in tutto il rimanente della vita lacerarono quell' illustre colpevole, e la disperazione che finalmente il condusse a darsi la morte sul sepolcro della trafitta, ciò pure è tutta storica narrazione. Il resto è del Poeta.

PERSONAGGI.

ARISTODEMO.

CESIRA.

GONIPPO.

LISANDRO.

PALAMEDE.

EUMEO.

La scena è in Messene.

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Sala regia, nel cui fondo si vede una tomba).

LISANDRO, PALAMEDE.

LISANDRO.

Si Palamede: alla regal Messene
Di pace apportator Sparta m' invia.
Sparta di guerre è stanca, e i nostri allori
Di tanto sangue cittadin bagnati
Son di peso alla fronte e di vergogna.
Ira fu vinta da pietà. Prevalse
Ragione, e persuase esser follia
Per un' avara gelosia di Stato
Troncarsi a brani, e desolar la terra.

Poichè dunque a bramar pace il primiero
Fu l'inimico, la prudente Sparta
Volentier la concede, ed io la reco.
Ne questo sol, ma libertade ancora
A qualunque de' nostri è qui tenuto
In servitude; e a te, diletto amico,
Principalmente, che bramato e pianto,
Compie il terz' anno, senza onor languisci
Illustre prigioniero in queste mura.

PALAMEDE.

Ben ti riveggo con piacer, Lisandro;
E giocondo mi fia per la tua mano
Racquistar libertade, e fra gli amplessi
Ritornar de' congiunti, e un'altra volta
Goder la luce delle patrie rive:
Sebben serbarmi non potea fortuna
Più dolce schiavitù. Sai che Cesira,
Leggiadra figlia di Taltibio, anch'essa
Prigioniera qui vive. Or sappi ancora
Che favor tanto nel real cospetto
Di Cesira trovar l'alme sembianze,
E i dolci modi, e le parole oneste,
Che Aristodemo di servil catena
Non la volle mai carca; anzi colmolla
Di beneficii, e a me permise ir sciolto
Per la reggia, qual vedi, a mio talento,
Partecipando della sua ventura.

LISANDRO.

Dunque il re l'ama, o Palamede.

PALAMEDE.

Ei l'ama

Con cuor di padre; e sol dappresso a lei
Quel misero talor sente nel petto
Qualche stilla di gioia insinuarsi,
El'affanno ammollir, che sempre il grava.
Senza Cesíra un lampo di sorriso
Su quell' afflitto e tenebroso volto
Non si vedrebbe scintillar giammai.

LISANDRO.

Di sua mortal malinconia per tutta
Grecia si parla, e la cagion sen tace :
Ma sarà, mi cred' io, qui manifesto
Quel che altrove s'ignora. Han sempre i
regi

Mille dintorno osservatori attenti,

Ch'ogni detto ne sanno, ogni sospiro,
Anche i pensieri. Or qui fra tanti sguardi
Quale di sua tristezza si scoperse
Vera sorgente?

PALAMEDE.

Narrerò sincero,

Qual mi fu detta, la pietosa istoria
Di questo sventurato. Era Messene
Da crudo morbo desolata; e Delfo
Della stirpe d'Epíto una Donzella
Avea richiesta in sacrificio a Pluto.
Poste furo le sorti, e di Licisco
Nomar la figlia. Scellerato il padre
E in un pietoso, con segreta fuga
Lasottrasse alla morte, e un' altra vittima
Il popolo chiedea. Comparve allora
Aristodemo, e la sua propria figlia,
La bellissima Dirce, al sacerdote
Volontario offerì. Dirce fu dunque
Dell' altra in vece sull' altar svenata;
E col virgineo sangue l'infelice
Sbramò la sete dell' ingordo Averno,
Per salvezza de' suoi dando la vita.

LISANDRO.

Io già questo sapea, chè grande intorno Fama ne corse, e della madre insieme Dicea caso nefando.

PALAMEDE.

Ella di Dirce

Mal soffrendo la morte, e stimolata
Da dolor, da furor, squarciossi il petto
Spietatamente, ed ingombro la stanza
Cadavere deforme e sanguinoso,
Raggiungendo così nel morto regno,
Forsennata e contenta ombra, la figlia.
Ed ecco dell' afflitto Aristodemo
La seconda sventura, a cui successe
Poscia la terza, e fu d'Argía la trista
Dolorosa vicenda. Era del padre
Questa l'ultima speme, una vezzosa
Pargoletta gentil, che, mal sicure
Col piè tenero ancor l'orme segnando,
Toccava appena il mezzo lustro. Ei dunque
Stretta al seno tenendola sovente
Sentia chetarsi in petto a poco a poco
La rimembranza de' sollerti allanni,
E sonar dolce al core un' altra volta
Di padre il nome, e rallegrargli il ciglio.
Ma fu breve il contento, e questo pure
Gli fu tolto di bene avanzo estremo;
Che l'esercito nostro allor repente
D'Anféa vincendo la fatal giornata,
E stretta avendo di feroce assedio
La discoscesa Itome, Aristodemo,

Che ne temea la presa e la ruina,
Dalle braccia diveltasi la figlia
Al fido Euméo la consegno, che seco
Occultamente la recasse in Argo,
Molto pria dubitando, e mille volte
Raccomandando una si cara vita.
Vano pensier! Là dove nell' Alféo
Si confonde il Ladón, stuolo de' nostri
Della fuga avvertiti, o da fortuna
Spinti colà, tagliår le scorte a pezzi,
Nè risparmiâr persona; e nella strage
Spenta rimase la real bambina.

LISANDRO.

E di questa avventura, o Palamede, Altro ne sai?

PALAMEDE. Null' altro.

LISANDRO.

Or sappi adunque Che duce di quell' armi era Lisandro, Ch'io fui d'Euméo l'assalitor.

PALAMEDE.

Che ascolto!

Tu l'uccisor d' Argía? Ma se qui giunge A penetrarsi...

LISANDRO.

Il tuo racconto segui : Parleremo del resto a miglior tempo.

PALAMEDE.

Dopo il fato d'Argia tutto lasciossi
A sua tristezza in preda Aristodemo,
Ne mai diletto gli brillo sul core,
O, se brillovvi, fu di lampo in guisa,
Che fa un solco nell' cmbra e si dilegua.
Ed or lo vedi errar mesto e pensoso
Per solitarj luoghi, e verso il cielo
Dal profondo del cor geme e sospira:
Or vassene dintorno furibondo,
E pietoso ululando, e sempre a nome
La sua Dirce chiamando, a' pie si getta
Della tomba che il cenere ne chiude:
Singhiozzando l'abbraccia e resta immoto,
Immoto sì, che lo diresti un sasso,
Se non che vivo lo palesa il pianto
Che tacito gli scorre per le gote,
Ed inonda il sepolcro. Ecco, o Lisandro,
Dell' infelice il doloroso stato.

LISANDRO.

Misero stato! Ma, sia pur qual vuolsi,
Di ciò non calmi. A servir Sparta io venni,
Non a compianger l'inimico. Ho cose
Su questo a dirti d'importanza estrema ;
Ma più libero tempo alle parole
Sceglier fa d'uopo. Già qualcun s'appressa

[blocks in formation]

Ond' essere il primiero? Io ben lo veggo Che un orrendo pensier che mi nascondi T'attraversa la mente.

ARISTODEMO.

Si, Gonippo,

Un orrendo pensiero, e quanto è truce
Tu non lo sai. Lo sguardo tuo non passa
Dentro il mio cor, nè mira la tempesta
Che lo sconvolge tutto. Ah, mio fedele,
Credimi, io sono sventurato assai,
Senza misura sventurato ; un empio,
Un maledetto nel furor del cielo,
E l'orror di natura e di me stesso.
GONIPPO.

Deh, che strano disordine di mente!
Certo il dolore la ragion t'offusca,
E la tristezza tua da falso e guasto
Immaginar si crea.

ARISTODEMO.

Così pur fosse. Ma mi conosci tu? Sai tu qual sangue Dalle mani mi gronda? Hai tu veduto Spalancarsi i sepolcri, e dal profondo Mandar gli spettri a rovesciarmi il trono ? A cacciarmi le mani entro le chiome E strappar la corona? Hai tu sentita Tonar d'intorno una tremenda voce Che grida Muori, scellerato, muori! Si morirò; son pronto: eccoti il petto, Eccoti il sangue mio; versalo tutto, Vendica la natura, e alfin mi salva Dall'orror di vederti, ombra crudele.

GONIPPO.

Il tuo parlar mi raccapriccia, e troppo
Dicesti tu perch' io t' intenda e vegga
Che da rimorsi hai l'anima trafitta.
In che peccasti? Qual tua colpa accese
Contro te negli Dei tanto disdegno?
Aprimi i sensi tuoi. Del tuo Gonippo
La fedeltà t'è nota, e tu più volte
De' tuoi segreti l'onorasti. Or questo
Pur mi confida. Scemasi de' mali
Sovente il peso col narrarli altrui.

ARISTODEMO.

I miei, parlando, si farian più gravi. Non ti curar di penetrarne il fondo, Non tentarmi di rompere il silenzio ; Lasciami per pietà.

GONIPPO.

No, non ti lascio

Se tu segui a tacer. Non merta il mio Lungo servire, e questo bianco crine La diffidenza tua.

[blocks in formation]

Ascolta dunque. In petto

Ti sentirai d'orror fredde le vene;
Ma tu mi costringesti. Odimi, e tutto
L'atroce arcano, e il mio delitto impara.
Di quel tempo sovvengati che Delfo
Vittime umane comandate avendo
All' Erebo immolar dovea Messene
Una vergin d'Epito. Ti sovvenga
Che, dall' urna fatal solennemente
Tratta la figlia di Licisco, il padre
La salvò colla fuga, e un altro capo
Dovea perire; e palpitanti i padri
Stavano tutti la seconda volta
Sul destin delle figlie. Era in quei giorni
Vedovo appunto di Messenia il trono;
Questo pur ti rimembra.

GONIPPO.

Io l'ho presente; E mi rammento che il real diadema Fra te, Dami e Cléon pendea sospeso, E il popolo in tre parti era diviso.

« ÖncekiDevam »