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Nè rimarravvi che uno stuol mendico
Di vedove piangenti e di pupilli.
E frattanto di noi Grecia che dice?
Dice che tutta rinnoviam di Tebe
L'atrocità; che d'un medesmo sangue
Gli Spartani son nati e li Messeni;
Che fur due soli in Tebe i fratricidi,
E qui tanti ne son quanti sul campo
Lascia il nostro furor corpi trafitti.
E si gran rabbia perchè mai? Per poche
Aride glebe, che bastanti appena
Ne fian per seppellirci, e che vermiglie
Van del sangue de' padri e de' fratelli
Di cui siamo assassini. Ah! non si narri
Più per Grecia di noi tanta vergogna.
E se la fama non ci move, almeno
L'interesse ci mova. Abbiamo al fianco
La fiera Tebe e la gelosa Atene,
Che il fine attendon di cotanta lite
Per calar sullo stanco vincitore,
Rapirgli la vittoria, e rovesciarne
La nascente grandezza. Or che v' è tempo,
Assicuriamci, e ragioniam di pace.

LISANDRO.

E l'accettarla e il ricusarla a tutta Tua scelta l'abbandono.

ARISTODEMO.

Udirne i patti

Pria d'ogni altro conviensi.

LISANDRO.

Eccoli, e brevi. Anféa darete e il Taïgeto, e in Limna Più non verrete a celebrar le feste.

ARISTODEMO.

Il primo accetto ed il secondo patto; Il terzo lo ricuso, e ragion chieggo Perchè di Limna i sacrifici escludi, E di quel Nume protettor ne privi.

LISANDRO.

Fra i conviti limnéi scoppiò la prima Favilla della guerra, e ad ammorzarla Trent'anni ancora non bastar di sangue. Se non ne viene la cagion rimossa, Scoppierà la seconda. É d'uopo adunque, Or che l'ire tra noi son calde ancora, Comunanza troncar si perigliosa.

ARISTODEMO.

Con onta del suo nome Aristodemo
Pace non compra. Cedere si ponno
Le sostanze, gli onori, e vita e figli,
E tutto insomma; ma gli Dei, Lisandro!
I tutelari Dei! la veneranda
Religion de' nostri padri! il primo
D'ogni nostro dover, de' nostri affetti...

LISANDRO.

E degli errori aggiungi. Io pario ad uomo
Non sottoposto all' opinar del volgo:
Parlo a un guerrier che questi Dei, quest'
ombre

Dell' umano timor, guarda e sorride,
E tien frattanto il pugno in sulla spada.
Non so quanto finor n'abbia giovato
Questo Nume limnéo. So ben che molto
Nocque in addietro, ein avvenir più ancora
Ne nocerà, se non gli scema a tempo
Le vittime e i devoti un altro Nume
Miglior del primo, la Prudenza.

ARISTODEMO.

A franco

Parlar risponderò franche parole. Si mal finora mi giovȧr gli Dei, Che lodarmi di lor certo non posso. Non gli sprezzo però : molte ho nel cuore Ragion segrete e veementi, ond' io Temer li debba ed adorar. Se alcuna Tu n' hai per confessarli, abbine ancora Per venerarli. Se non l' hai, rispetta Del popolo l'error, tremendo al paro De' Numi stessi, che comanda ai regi, A nessuno obbedisce. E poi lo stesso Vostro esempio mi vaglia. Elide un giorno Dalle olimpiche feste, e tutti il sanno, Esclusi vi volea. Quanto tumulto L'ingiuria non desto? Con quanto d'armi E di sdegni apparecchio alla ripulsa Non v'opponeste? E pur diversa molto Era l'offesa. Un libero suo dritto Elide esercitava in propria sede, E per Nume non suo Sparta pugnava. Ma qui si pugna per li templi avíti, Pe' domestici Dei. Nostro è il terreno, Nostri gli altari; e per serbarli illesi Pugnerem finchè mani avremo e braccia; E, tronche queste, pugnerem co' petti : Chè dove alzar religion si vede Lo stendardo di guerra, si combatte Colla benda sugli occhi, e la pietade, La medesma pietà, rabbia diventa, E pria che il ferro, si depon la vita. Finiam. Se Sparta a vera pace inclina, Sia primo della pace fondamento Lasciarci i nostri Dei. Se lo contrasta, Si torni in guerra.

LISANDRO.

No; si torni in pace. Mia gloria non ripongo in ostinarmi Nel mio pensier. La debolezza è questa Delle piccole menti; ed io mi credo

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SCENA PRIMA.
ARISTODEMO seduto accanto alla
tomba.

No, no. Se eterna l'esistenza fosse,
Io sento che del par sarebbe eterno
Il mio martiro. O ciel, dammi costanza
Per sopportarlo. Non tentar la mano,
Non offuscarmi la ragion... Che dissi?
La ragion!... me infelice! E se giovasse
Perderla?... se dovesse un colpo solo
Tutti i miei mali terminar?... Si, tutti
Una sola ferita?... Allontaniamo
Questo pensier; non vo' seguirlo: ei troppo
Già comincia a sedurmi. E tu, spietata
Ombra importuna, placati una volta,
Placati dunque, e mi perdona. Io fui
Tuo padre alfine, di gran colpa reo,
Lo so, ma padre nondimeno, e figlia
Tu che tanto mi strazi e mi persegui.

SCENA II.

GONIPPO e DETTO.

GONIPPO.

Signor, questo non è tempo di pianto,
Or che tutta rallegrasi Messene
Della pace ottenuta. Andiam; t'invola
A questo luogo di dolor; vien meco;

All' esultante popolo ti mostra

Che dimanda il suo re, che ti sospira, E suo padre ti chiama.

ARISTODEMO.

Io padre ?... Io l'ebbi Questo nome una volta, e con diletto Lo sentía risonar dentro il cor mio. Or più nol sento. Me lo diè natura Nome si santo, e il mio furor mel tolse.

GONIPPO.

Non pensarvi più dunque. Ora di cose Nuov' ordine incomincia.

ARISTODEMO.

E pur del tutto Non averlo perduto mi parea Questo nome adorato, e tornar padre Credei sovente di Cesíra al fianco. O sia che il cor degl' infelici ha sempre Di spandersi bisogno, e facilmente S'abbandona al piacer d'intenerirsi; O sia degli anni già cadenti ed egri Funesta conseguenza; o certa ignota Tenerezza che fammi alta de' figli La mancanza sentire, e si feroce Me ne risveglia il desiderio in petto; O sian diretti da un occulto Dio I palpiti ch'io sento e non intendo; Questo so dirti, che vicino a lei Par che cessi l'orror delle mie pene; E una tacita gioia mi seduce, Che, dolce insinuandosi nell' alma, I rimorsi ne placa, e mi sospinge Dagli abissi del cor sugli occhi Or questa cara illusion tra poco Mi sarà tolta.

GONIPPO.

pianto.

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E confondere i volti, e lungamente
Star negli amplessi, e lagrimar di gioia.
Or altri avrassi un tanto bene. Io solo
Più non l'avrò; mai più.

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Mi rammento! ma deh!...

ARISTODEMO.

Parmi vederla,

Parmi sentirla. Oh dio! Tre volte io stetti Per consegnarla, ed altrettante al petto Me la ripresi, e la coprii di baci, Ultimi baci, e piansemi in segreto Il cor presago della rea sventura. Oh! n'avessi l'occulto avvertimento Secondato per tempo! Ita a morire Non saresti così, misera figlia! Ancor vivresti! e la presenza tua Mi renderebbe ancor dolce la vita; Ne sul volto verría d'una Spartana A tormentarmi la tua cara immago, A straziarmi il pensiero! Orsù, Gonippo, Va, compi il mio voler, parta Cesira, Parta, e se puossi ancor, senza vedermi. (Mentre parte Gonippo da un lato, esce dall' altro Cesira.)

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Ogni diletto È cessato per me. Vedi quel marmo? La mia pace, il mio cor là dentro è chiuso, E quanto al mondo ho di più caro e insieme Di più tremendo.

CESIRA.

logia, signor, non biasmo Il tuo cordoglio: il vuol natura, è giusto. Ma sull'amato cenere de' figli Eterno scorrerà de' padri il pianto?

ARISTODEMO.

Io tutto

Anche eterno, per me poco saria.

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De' sudditi l'amor, la gloria, il regno.

ARISTODEMO.

Che dici? il regno! La più grande è questa
Dell' umane sventure. Oh, se potesse
L'uom dalla polve interrogar sul trono
Lo schiavo coronato! Intenderesti,
Che solo per punirne il ciel sovente
Uno scettro ne manda, una corona.

CESIRA.

La corona regal sovente è premio Pur anche di virtude, e lo fu certo Quando cinse il tuo crine.

ARISTODEMO.

(Ah! s'interrompa

Un parlar che m' uccide.) Assai, Cesíra,
Il tuo cortese giudicar m'onora. [ch'io,
Ma tu... non mi conosci. Or basta: an-
Anch'io divenni possessor d'un soglio,
Felice me se non l'avessi mai,
Mai conseguito! Oh mille volte e mille
Colui beato che regnar sol cura
Sull'innocente sua famiglia, ed altro
Trono non ha che il cuor de' figli! il trono
Di natura; e dal mio quanto diverso!
Il mio, lo vedi, è questo sasso. Or lascia
Ch'io qui segga, qui pianga, e va felice.

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