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Torbido, fosco, spalancati affigge
Gli occhi al terreno, e ad or ad or gli vedi
Le lagrime cader dalle pupille.
Poi, come scosso da profondo sonno,
Balza in piedi repente, e senza modo [tra
Qua e là s' aggira, e or l'una cosa, or l' al-
Va colla man toccando e percotendo,
E, interrogato, guarda e non risponde.

CESIRA.

Mi fa pietade l'infelice.

GONIPPO.

lo volli

Da quel delirio svellerlo, e con forza
L'attraversai, lo scossi. Istupidito
M'addimando chi fossi, ed io gliel dissi;
E asciugandomi gli occhi, lo pregava
Di darsi pace. Allor furente e torvo :
Vattene, sciagurato, egli proruppe,
Non parlarmi di pace; e sì dicendo,
Declinava la faccia, e con la mano
Mi respingeva. Io nol lasciai per questo,
Ma seguiva a esortarlo, a consolarlo;
Finché, ragion tornando a poco a poco,
Mi pregò di perdono, ed abbracciommi,
Ed amico chiamommi, e con un fiume
Di lagrime sfogò l'immenso affanno.
Piangevamo ambidue. Con questo pianto
Sollevato ha del cor l'orrido peso;
Ed or si mostra più calmato, e chiede
Se Cesira è partita. Ei vuol saperlo;
E per que tarlo appunto io qui ne venni.

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Bramato avrei Che partita non fosse. Una possente Ragion segreta mi sentia nel core Di vederla e parlarle anco una volta. Ma sia così. - Gonippo, una gran guerra Si fa qui dentro.

GONIPPO.

Cesserà, lo spero, Si, cesserà ma non lasciarti tanto Da tua tristezza indebolir; fa forza A te medesmo, e devïar procura Ogni nero pensier.

ARISTODEMO.

Dimmi, Gonippo : Qual ti sembra il mio stato? e non son io Veramente infelice?

GONIPPO.

Lo siam tutti,

Signor; ciascuno ha i suoi disastri.

ARISTODEMO.

È vero,

Tutti siamo infelici. Altro di bene Non abbiam che la morte.

GONIPPO.

Che?

ARISTODEMO.

Ogni tuo cenno

Si certo,

La morte. - E credi tu, quanto si dice,

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Tale han tuono di vero e di grandezza, Che fan gelarmi. D'uno spettro è albergo Veramente quel marmo? E tu 'l vedesti? E tu l'udisti? E come mai? Deh! narra, Narrami tutto.

ARISTODEMO.

Ebben: sia questo adunque L'ultimo orror che dal mio labbro intendi. Come or vedi tu me, così vegg' io L'ombra sovente della figlia uccisa; Ed, ahi, quanto tremenda ! Allor che tutte Dormon le cose, ed io sol veglio e siedo Al chiaror fioco di notturno lume, Ecco il lume repente impallidirsi, E nell' alzar degli occhi ecco lo spettro Starmi d'incontro, ed occupar la porta Minaccioso e gigante. Egli è ravvolto In manto sepolcral, quel manto stesso Onde Dirce coperta era quel giorno Che passò nella tomba. I suoi capelli, Aggruppati nel sangue e nella polve, A rovescio gli cadono sul volto, E più lo fanno, col celarlo, orrendo. Spaventato io m'arretro, e con un grido Volgo altrove la fronte, e mel riveggo Seduto al fianco. Mi riguarda fiso, Ed immobile stassi, e non fa motto. Poi dal volto togliendosi le chiome, E piovendone sangue, apre la veste, E squarciato m' addita, ahi vista! il seno Di nera tabe ancor stillante e brutto. Io lo rispingo; ed ei più fiero incalza, E col petto mi preme e colle braccia. Parmi allora sentir sotto la mano Tepide e rotte palpitar le viscere; E quel tocco d'orror mi drizza i crini. Tento fuggir; ma pigliami lo spettro Traverso i fianchi, e mi trascina a' piedi Di quella tomba, e Qui t'aspetto, grida: E, ciò detto, sparisce.

GONIPPO.

Inorridisco. O sia vero il portento, o sia d'afflitta Malinconica mente opra ed inganno, Ti compiango, mio re. Molto patirne Certo tu dei; ma disperarsi poi Debolezza saría. Salda costanza D'ogni disastro è vincitrice. Il tempo, La lontananza dileguar potranno De' tuoi spirti il tumulto e la tristezza. Questi luoghi abbandona, ove nudrito Da tanti oggetti è il tuo dolor. Scorriamo La Grecia tutta, visitiam cittadi, Vediamone i costumi. In cento modi

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Fu certo amico Dio che a Palamede Mise in capo un inciampo alla partenza. Profitteronne per veder di nuovo Questi luoghi a me cari. Io qui poc' anzi Lasciai l'afflitto Aristodemo, e forse Qui tornerà. Questa ghirlanda intanto, Mio consueto quotidian tributo, A quella tomba appenderò. Ricevi Questo segno d' affetto, ombra onorata. Oh Dirce! oh perchè mai non vivi ancora ? lo t' amerei pur molto, e tu saresti Di Cesira l'amica e la campagna E la sorella. Ma pur anco estinta T'amo; e sempre mi fia sacra ed acerba La memoria di Dirce... Oime! qual s'ode Romor la dentro ?... Quai lamenti e gridi?

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ARISTODEMO.

Che?... si nascose?

Dove n' andò? chi mi salvò dall'ira Di quel crudele?

CESIRA.

E di chi parli mai?

Signor, che guardi intorno?

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Chi è Cesíra ?

ARISTODEMO.

CESIRA.

(Ahi lassa! Egli ha perduta La conoscenza tutta.) Il volto mio Nol riconosci ?

ARISTODEMO.

Io l'ho nel cor scolpito... Il cor mi parla,... e fa cadermi il velo. Consolatrice mia chi ti ritorna

Fra queste braccia ? Oh, lasciami alle tue Mescolar le mie lagrime; mi scoppia D'affanno il cuor, se non m' aita il pianto.

CESIRA.

Si, versalo pur tutto in questo seno;

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