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Colli, dove più zolfo il suolo impingua.
Così l'uom si divise e fu il Signore
Da i volgari distinto, a cui nel seno
Troppo languir l'ebeti fibre, inette
A rimbalzar sotto i soavi colpi
De la nova cagione, onde fur tocche;
E quasi bovi, al suol curvati, ancora
Dinanzi al pungol del bisogno andaro;
E tra la servitute e la viltade

E'l travaglio e l'inopia a viver nati,
Ebber nome di Plebe. Or tu, Signore,
Che feltrato per mille invitte reni
Sangue racchiudi, poi che in altra etade
Arte, forza o fortuna i padri tuoi
Grandi rendette; poi che il tempo al fine
Lor divisi tesori in te raccolse:

Del tuo senso gioisci, a te da i numi
Concessa parte e l'umil vulgo intanto,
Dell' industria donato, ora ministri
A te i piaceri tuoi, nato a recarli
Su la mensa real, non a gioirne.

Ecco, la Dama tua s'asside al desco :
Tula man le abbandona ; e mentre il servo,
La seggiola avanzando, all'agil fianco
La sottopon, sì che lontana troppo
Ella non sia, nè da vicin col petto
Prema troppo la mensa : un picciol salto
Spicca, e chino raccogli a lei del lembo
Il diffuso volume. A lato poscia
Di lei tu siedi: a cavalier gentile
Il fianco abbandonar de la sua Dama
Non fia lecito mai, se già non sorge
Strana cagione a meritar, ch' egli usi
Tanta licenza. Un Nume ebber gli antichi,
Immobil sempre, e ch'a lo stesso padre
De gli Dei non cedette, allor ch' ei venne
Il Campidoglio ad abitar, sebbene
E Giuno e Febo e Venere e Gradivo
E tutti gli altri Dei da le lor sedi,
Per riverenza del Tonante, usciro.

Indistinto ad ognaltro il loco sia Presso al nobile desco; e s'alcun arde Ambizioso di brillar fra gli altri, Brilli altramente. Oh come i varii ingegni La libertà del genial convito Desta ed infiamma! Ivi il gentil Moteggio, Maliziosetto svolazzando intorno, Reca sull' ali fuggitive ed agita Ora i raccolti da la fama errori De le belle lontane; ora d'amante O di marito i semplici costumi; E gode di mirare il queto sposo Rider primiero, e di crucciar con lievi Minacce in cor de la sua fida sposa

I timidi segreti. Ivi abbracciata
Co' festivi Racconti intorno gira
L'elegante Licenza: or nuda appare,
Come le Grazie ; or con leggiadro velo
Solletica vie meglio, e s'affatica

Di richiamar de le matrone al volto
Quella rosa gentil, che fu già un tempo
Onor di belle donne, all' Amor cara,
E cara all' Onestade. Ora ne' campi
Cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi
A le rozze villane il viso adorna.

Già s'avanza la mensa. In mille guise E di mille sapor, di color mille La variata eredità de gli avi Scherza ne' piatti, e giust' ordine serba. Forse a la Dama di sua man le dapi Piacerà ministrar, che novo pregio Acquisteran da lei. Veloce il ferro, Che forbito ti attende al destro lato, Nudo fuor esca; e come quel di Marte, Scintillando lampeggi : indi la punta Fra due dita ne stringi, e chino a lei Tu il presenta, o Signore. Or si vedranno De la candida mano, all' opra intenta, I muscoli giocar soavi e molli; E le grazie, piegandosi dintorno, Vestiran nuove forme, or da le dita, Fuggevoli scorrendo; ora sull'alto De' bei nodi insensibili aleggiando; Ed or de le pozzette in sen cadendo, Che de i nodi al confin v' impresse Amore. Mille baci, di freno impazienti, Ecco, sorgon dal labbro a i convitati; Già s'arrischian, già volano, già un guardo Sfugge da gli occhi tuoi, che i vanni audaci Fulmina ed arde, e tue ragion difende. Sol de la fida sposa, a cui se' caro, Il tranquillo marito immoto siede; E nulla impression l'agita e scuote Di brama o di timor; però che Imene Da capo a pic fatollo. Imene or porta Non più serti di rose avvolti al crine, Ma stupido papavero, grondante Di crassa onda Letća: Imene e il Sonno Oggi han pari le insegne. Oh come spesso La Dama dilicata invoca il Sonno, Che al talamo presieda, e seco invece Trova Imenéo; e stupida rimane, Quasi al meriggio stanca villanella, Che tra l'erbe innocenti adagia il fianco Queta e sicura, e d'improvviso vede Un serpe; e balza in piedi inorridita; E le rigide man stende; e ritragge Il gomito, e l'anelito sospende;

E immota e muta e con le labbra aperte
Obliquamente il guarda! Oh come spesso
Incauto amante a la sua lunga pena
Cercò sollievo; ed invocar credendo
Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi
Di fredda oblivion l'alma gli asperse,
E d'invincibil noia, e di torpente
Indifferenza gli ricinse il core !

Ma se a la Dama dispensar non piace
Le vivande, o non giova, allor tu stesso
Il bel lavoro imprendi. A gli occhi altrui
Più brillerà così l'enorme gemma,
Dole' esca a gli usurai, che quella osâro
A le promesse di Signor preporre
Villanamente; ed osservati fiéno
I manichetti, la più nobil opra,
Che tessesse giammai anglica Aracne.
Invidieran tua dilicata mano
I convitati ; inarcheran le ciglía
Sul difficil lavoro; e d'oggi in poi
Ti fa ceduto il trinciator coltello,
Che al cadetto guerrier serban le mense.
Teco sonio,Signor; già intendo e veggo,
Felice osservatore, i detti e i moti
De' Semidei, che coronando stanno,
E con vario costume ornan la mensa.
Or chi è quell'eroe, che tanta parte
Cola ingombra di loco, e mangia e fiuta
E guata, e de le altrui cure ridendo,
Si superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
Mamme del suo palato! Oh da' mortali
Invidiabil anima, che siede

Tra la mirabil lor testura, e quindi
L'ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi più saggio di lui penétra e intende
La natura migliore; o chi più industre
Converte a suo piacer l'aria, la terra,
E'l ferace di mostri, ondoso abisso?
Qualor s'accosta al desco altrui, paventano
Suo gusto inesorabile le smilze
Ombre de' padri, che per l'aria lievi
S'aggirano, vegliando ancora intorno
Ai ceduti tesori ; e piangon, lasse!
Le mal spese vigilie, i sobrii pasti,
Le in preda all' aquilon case, le antique
Digiune rozze, gli scommessi cocchi,
Forte assordanti per stridente ferro
Le piazze e i tetti; e lamentando vanno
Gl'in van nudati rustici, le fami
Mal desiate, e de le sacre toghe
L'armata in vano autorità sul vulgo.
Chi siede a lui vicin? Per certo il caso
Congiunse accorto i due leggiadri estremi,

Perchè doppio spettacolo campeggi;
El'un dell'altro al par più lustri esplenda.
Falcato Dio de gli orti, a cui la Greca
Lámsaco d' asinelli offrir solea
Vittima degna, al giovine, seguace
Del sapiente di Samo, i doni tuoi
Reca sul desco: egli ozioso siede,
Dispregiando le carni, e le narici
Schifo raggrinza; in nauseanti rughe
Ripiega i labbri; e poco pane intanto
Rumina lentamente. Altro giammai
A la squallida fame eroe non seppe
Durar si forte; nè lassezza il vinse,
Ne deliquio giammai, nè febbre ardente:
Tanto importa lo aver scarze le membra,
Singolare il costume, e nel Bel Mondo
Onor di filosofico talento!

Qual anima è volgar, la sua pietade
All'uom riserbi; e facile ribrezzo
Déstino in lui del suo simile i danni,
I bisogni e le piaghe. Il cor di lui
Sdegna comune affetto; e i dolci moti
A più lontano limite sospinge.

Pera colui, che primo oso la mano
« Armata alzar sull'innocente agnella
E sul placido bue; nè il truculento
« Cor gli piegaro i teneri belati,
«Ne i pietosi muggiti, nè le molli

Lingue, lambenti tortuosamente « Laman, che il loro fato, ahime! stringea. Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto Al suo pietoso favellar, da gli occhi De la tua Dama dolce lagrimetta, Pari a le stille tremule, brillanti, Che a la nova stagion gemendo vanno Da i pálmiti di Bacco, entro commossi Al tiepido spirar da le prim' aure Fecondatrici. Or le sovviene il giorno, Ahi fero giorno! allor che la sua bella, Vergine cuccia, de le Grazie alunna, Giovenilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con l'eburneo dente Segnò di lieve nota: ed egli audace Con sacrilego piè lanciolla: e quella Tre volte rotolò; tre volte scosse Gli scompigliati peli e da le molli Nari soffio la polvere rodente. Indi i gemiti alzando : Aita, aita, Parea dicesse; e da le aurate volte A lei l'impietosita Eco rispose; E dagl' infimi chiostri i mesti servi Asceser tutti; e da le somme stanze Le damigelle pallide, tremantı Precipitaro. Accorse ognuno; il volto

Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama.
Ella rinvenne al fin l'ira, il dolore
L'agitavano ancor; fulminei sguardi
Gettò sul servo, e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
Al sen le corse; in suo tenor vendetta
Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti,
Vergine cuccia, de le Grazie alunna. [lo
L'empio servo tremò; con gli occhi al suo-
Udi la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre; a lui non valse
Zelo d'arcani ulici : in van per lui
Fu pregato e promesso ; ei nudo andonne,
Dell' assisa spogliato, ond' era un giorno
Venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; che le pietose dame
Inorridiro, e del misfatto atroce
Odiar l'autore. Il misero si giacque,
Con la squallida prole e con la nuda
Consorte a lato, su la via spargendo
Al passeggiere inutile lamento:
E tu, vergine cuccia, idol placato
Da le vittime umane, isti superba.

Fia tua cura, o Signore, or che più ferve
La mensa, di vegliar su i cibi, e pronto
Scoprir, qual d'essi a la tua Dama è caro,
O qual di raro augel, di stranio pesce
Parte le aggrada. Il tuo coltello Amore
Anatomico renda; Amor, che tutte
De gli animali noverar le membra
Puote, e discerner sa, qual abbian tutte
Uso e natura. Più d'ogn' altra cosa
Però ti caglia rammentar mai sempre,
Qual più cibo le nuoca, o qual più giovi;
E l'un rapisci a lei, l'altro concedi,
Come d'uopo ti par. Serbala, oh dio!
Serbala a i cari figli. Essi dal giorno,
Che le alleviaro il dilicato fianco,
Non la rivider più: d'ignobil petto
Esaurirono i vasi; e la ricolma
Nitidezza serbaro al sen materno.
Sgridala, se a te par ch' avida troppo
Agogni al cibo; e le ricorda i mali,
Che forse avranno altra cagione, e ch'ella
Al cibo imputerà nel di venturo.
Nè al cucinier perdona, a cui non calse
Tanta salute. A te su i servi altrui
Ragion donossi in quel felice istante,
Che la noia o l'amor vi strinser ambo
In dolce nodo, e dier ordini e leggi.
Per te sgravato d'odioso incarco
Ti fia grato colui, che dritto vanta
D'impor novo cognome a la tua Dama,
E pinte trascinar su gli aurei cocchi,

Giunte a quelle di lei, le proprie insegne Dritto illustre per lui, e ch'altri seco Audace non tentò divider mai.

Ma non sempre, o Signor, tue cure fiéno A la Dama rivolte: anco talora Ti fia lecito aver qualche riposo, E de la quercia trionfale all' ombra Te de la polve olimpica tergendo, Al vario ragionar de gli altri eroi Porgere orecchio, e il tuo sermone ai loro Ozioso mischiar. Già scote un d'essi Le architettate del bel crine anella, [sa, Sull'orecchio ondeggianti ; e ad ogni scos De' convitati a le narici manda Vezzoso nembo d'Archi profumi. A lo spirto di lui l'alma Natura Fu prodiga così, che più non seppe Di che il volto abbellirgli; e all'Arte disse: Compisci'l mio lavoro: e l'Arte suda Sollecita dintorno all'opra illustre. Molli tinture, preziose linfe, Polvi, pastiglie, dilicati unguenti, Tutto arrischia per lui. Quanto di novo E mostruoso più sa tesser spola, O bulino intagliar Francese ed Anglo, A lui primo concede. Oh lui beato, Che primo può di non più viste forme Tabacchiera mostrar! L'etica invidia I Grandi, eguali a lui, lacera e mangia; Ed ei, pago di sè, superbamente Crudo fa loro balenar su gli occhi L'ultima gloria, onde Parigi ornollo. Forse altera così d'Egitto in faccia, Vaga prole di Sémele, apparisti, I giocondi rubini alto levando Del grappolo primiero : e tal tu forse, Tessalico garzon, mostrasti a Jolco L'auree lane rapite al fero Drago.

Vedi, o Signor, quanto magnanim'ira Nell' eroe che vicino all' altro siede, A quel novo spettacolo si desta; Vedi, come s'affanna, e sembra il cibo Obliar declamando. Al certo, al certo Il nemico è a le porte: ohime! i Penati Tremano, e in forse è la civil salute. Ah no! Più grave a lui, più preziosa Cura lo infiamma: «Oh depravati ingegni a De gli artefici nostri! In van si spera « Dell' inerte lor man lavoro industre, « Felice invenzion, d'uom nobil degna. << Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio « A nobile calzar? Chi tesser drappo, « Soffribil tanto, che d'ornar presuma [na « Le membra di signor, che un lustro a pe

Di feudo conti? In van s'adopra e stanca Chi'l genio lor bituminoso e crasso Osa destar. Di là dall'alpi è forza Ricercar l'eleganza. E chi giammai, a Fuor che il Genio di Francia, osato avrebbe

• Su i menoni lavori i Grechi ornati
• Recar felicemente? Ando romito
Il Bongusto finora, spaziando
Su le auguste cornici e su gli eccelsi
Timpani de le moli, al Nume sacre
E a gli uomini scettrati; oggi ne scende,
Vago al fin di condurre i gravi fregi
Infra le man di cavalieri e dame.
Tosto forse il vedrem trascinar anco
Su molli veli e nuziali doni

Le Greche travi; e docile trastullo Fien de la Moda le colonne e gli archi, • Ove sedeano i secoli canuti. » Commercio, alto gridar; gridar : Commercio

All'altro lato de la mensa or odi Con fanatica voce: e tra'l fragore D'un peregrino d'eloquenza fiume, Di bella novità stampate al conio Le forme apprendi ; onde assai meglio poi Brillantati i pensier picchin la mente. Tu pur grida: Commercio; e la tua Dama Anco un motto ne dica. Empiono, è vero, Il nostro suol di Cerere i favori, Che tra i folti di biade, immensi campi Move sublime, e fuor ne mostra a pena, Tra le spighe confuso, il crin dorato. Bacco e Vertunno i lieti poggi intorno Ne coronan di poma; e Pale amica Latte ne preme a larga mano, e tonde Candidi velli, e per li prati pasce Mille al palato uman vittime sacre. Cresce fecondo il lin, soave cura Del verno rusticale; e d'infinita Serie ne cinge le campagne il tanto Per la morte di Tisbe arbor famoso. Che vale or cio? Su le natie lor balze Rodan le capre; ruminando il bue, Lungo i prati natii, vada; e la plebe, Non dissimile a lor, si nutra e vesta De le fatiche sue; ma a le grand' alme, Di troppo agevol ben schife, Cillenio Il comodo presenti, a cui le miglia Pregio acquistino e l'oro; e d'ogn'intorno: Commercio risonar s'oda, commercio. Tale da i letti de la molle rosa Sibari ancor gridar soleva; i lumi Disdegnando volgea da i campi aviti,

Troppo per lei ignobil cura; e mentre
Cartagin, dura a le fatiche, e Tiro,
Pericolando per l'immenso sale,
Con l'oro altrui le voluttà cambiava,
Sibari si volgea sull'altro lato;
E non premute ancor rose cercando,
Pur di commercio novellava e d'arti.

Ne senza i miei precetti e senza scorta
Inerudito andrai, Signor, qualora
Il perverso destin dal fianco amato
T'allontani a la mensa. Avvien sovente,
Che un Grande illustre or l'alpi, or l'o-
ceano

Varca, e scende in Ausonia; orribil ceffo
Per natura o per arte, a cui Ciprigna
Rose le nari, e sale impuro e crudo
Snudo i denti ineguali. Ora il distingue
Risibil gobba, or furïosi sguardi,
Obliqui o loschi; or rantoloso avvolge
Tra le tumide fauci ampio volume
Di voce, che gorgoglia, ed esce alfine,
Come da inverso fiasco onda che goccia.
Or d'avi, or di cavalli, ora di Frini
Instancabile parla; or de' Celesti
Le folgori deride. Aurei monili
E gemme e nastri: gloriose pompe,
L'ingombran tutto; e gran titolo suona
Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende
Inclita stirpe, ch'onorar non voglia
D'un ospite si degno i lari suoi ?
Ei però sederà de la tua Dama
Al fianco ancora ; e tu lontan da Giuno,
Tra i Silvani caprípedi n'andrai
Presso al marito; e pranzerai negletto
Col popol folto de gli Dei minori.

Ma negletto non già da gli occhi andrai
De la Dama gentil, che a te rivolti,
Incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto
Arderà di faville; e Amor con l'ali
L'agiterà. Nel fortunato incontro
I messaggier pacifici dell' alma
Cambieran lor novelle; e alternamente
Spinti rifluiranno a voi con dolce,
Delizioso tremito su i cori.

Tu le ubbidisci allora : o se t'invita
Le vivande a gustar, che a lei vicine
L'ordin dispose; o se a te chiede in vece
Quella, che innanzi a te sue voglie punge
Non col soave odor, ma con le nuove,
Leggiadre forme, onde abbellir la seppe
Dell'ammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono gli Dei
Sopra le nubi del brillante Olimpo;
E le labbra immortali irrita e move

Non la materia, ma il divin lavoro.

Nè intento meno ad ubbidir sarai I cenni del bel guardo, allor che quella Di licor peregrino a i labbri accosta Colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno Sêrpe dorata striscia; o a cui vermiglia Cera la base impronta, e par che dica : Lungi, o labbra profane; al labbro solo De la Diva, che qui soggiorna e regna, Il castissimo calice si serbi; Ne cavalier con l'alito maschile Osi appannarne il nitido cristallo; Ne dama convitata unqua presuma Di parvi i labbri : e sien pur casti e puri, E quant' esser si può cari all' amore. Nessun' altra è di lei più pura cosa, Chi macchiarla oserà? Le Ninfe in vano, Da le arenose loro urne versando Cento limpidi rivi, al candor primo Tornar vorriéno il profanato vaso, E degno farlo di salir di novo A le labbra celesti, a cui non lice Inviolate approssimarsi a vasi, Che corvitati cavalieri, e dame Convitate macchiar co i labbri loro. Tu a i cenni del bel guardo e de la mano, Che, reggendo il bicchier, sospesa ondeg Affettuoso attendi. I guardi tuoi, Sfavillando di gioia, accolgan lieti Il brindisi segreto; e tu ti accingi In simil modo a tacita risposta.

gia,

Immortal come voi, la nostra Musa Brindisi grida all' uno e all' altro amante: All' altrui fida sposa, a cui se' caro; E a te, Signor, sua dolce cura e nostra Come annoso licor Lieo vi mesce, Tale Amore a voi mesca eterna gioia, Non gustata al marito, e da coloro Invidiata, che gustata l'hanno. Véli con l'ali sue sagace oblío Le alterne infedeltà, che un cor dall' altro Potriéno un giorno separar per sempre; E sole a gli occhi vostri Amor discopra Le alterne infedeltà, che in ambo i cori Ventilar possan le cedenti fiamme. Un sempiterno, indissolubil nodo Auguri ai vostri cor volgar cantore. Nostra nobile Musa a voi desia

Sol fin che piace a voi durevol nodo. Dûri fin che a voi piace; e non si sciolga, Senza che Fama sopra l' ali immense Tolga l'alta novella, e grande n'empia, Col reboato dell' aperta tromba, L'ampia cittade e dell'Enotria i monti

E le piagge sonanti; e, s'esser puote,
La bianca Teti e Guadiana e Tule.
Il mattutino gabinetto, il corso,
Il teatro, la mensa in vario stile
Ne ragionin gran tempo: ognun ne chieda
Il dolente marito; ed ei dall' alto
La lamentabil favola cominci.
Tal su le scene, ove agitar solea
L'ombre tinte di sangue Argo piagnente,
Squallido messo al palpitante Coro
Narrava, come furïando Edipo
Al talamo corresse incestuoso;
Come le porte rovescionne, e come
Al subito spettacolo ristè,
Quando vicina del nefando letto
Vede in un corpo solo e sposa e madre
Pender strozzata; e del fatale uncino
Le mani armossi ; e con le proprie mani
A se le care luci da la testa,
Con le man proprie, misero! strapposse.

[no

Ecco, volge al suo fine il pranzo illustre
Già Como e Dionisio al desco intorno
Rapidissimamente in danza girano
Con la libera Gioia. Ella saltando,
Or questo, or quel de i convitati lieve
Tocca col dito; e al suo toccar scoppietta-
Brillanti, vivacissime scintille,
Ch'altre ne destan poi. Sonan le risa;
E il clamoroso disputar s' accende.
La nobil vanità punge le menti;
E l'Amor di se sol, baldo scorrendo,
Porge un scettro a ciascuno, e dice;
Regna.

Questi i concilii di Bellona, e quegli
Penetra i tempii de la Pace. Un guida
I condottieri; a i consiglier consiglio
L'altro dona, e divide e capovolge
Con seste ardite il pelago e la terra.
Qual di Pallade l'arti e de le Muse
Giudica e libra; qual ne scopre acuto
L'alte cagioni e i gran principii abbatte,
Cui creò la Natura, e che tiranni
Sopra il senso de gli uomini regnaro
Gran tempo in Grecia ; e ne la Tosca terra
Rinacquer poi più poderosi e forti.

Cotanto adunque di sapere è dato
A nobil mente? Oh letto, oh specchio, oh

mensa,

Oh corso, oh scena, oh feudi, oh sangue, oh avi, [re, Che per voi non s'apprende? Or tu, SignoCol volo ardito del felice ingegno [to, T'ergi sopra d'ogn'altro. Il campo è ques Ove splender più déi : nulla scienza,

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