Della gloria l'amor; ritrosa all' armi La gioventù coscritta; abbandonate Le bandiere latine; alfin, perduta La disciplina, la virtù primiera Del soldato; e perchè? Perchè le terre Alla plebe concesse, a lei togliendo I suoi bisogni, ogni virtù le han tolta; Del travaglio l' amor, la tolleranza Degli stenti, il rispetto ai condottieri, E tutto, in somma, che rendea tremendo Il romano guerriero. E chi fe' questo? Chi?.. Non vo' dirlo. Il vostro cor fremen- Per cotanti delitti assai vel dice.
Non più, Romani; vo' parlare.
De' Numi, e seggio di virtù divina! Hai guerra in seno, nell'esterno hai guerra, Per tutto guerra e tempesta e ruina; E chi ti pone nel naufragio è vivo? Ahi! che non solo è vivo, ma superbo Passeggia le tue vie, frequenta il Foro, Il popolo seduce, e fin dai lidi D'Affrica viene a lacerarti il petto...
Assai dicesti: or me, Romani, udite.
Popolo, non udirlo : egli è provato Seduttor; non l'udir.
PARTE DEL POPOLO.
Ancor non dissi, e qui dirollo, e Roma Ne farà suo giudizio. – I nostri padri Pena di morte pronunciâr sul capo Degli oziosi cittadini. Ed ora Chi ravviva la legge? Ove s'ascolta Una voce d'onor che la risvegli? De' censori la verga è neghittosa; Vôti i seggi curúli, e fatto infame Traffico la giustizia. Oh! dove sei, Giusto Pisone, dove sei, verace Non creduto profeta? In mezzo ai campi Tu dell'Asia combatti, adorno il crine Di greco alloro e di siríaca polve. Te fortunato che, da noi lontano, L'orror che predicesti ora non vedi! Quelle destre non vedi che le mura Rovesciar di Numanzia, arser Corinto, Che spensero Cartago, che in catene Strascinar d'Alessandro il discendente, Che Grecia conquistâr tutta, e dell' Asia Cinquecento città: si quelle stesse Belliche destre abbrustolate ai soli [zo D' Affrica, or fiacche, avvinazzate in mezAlle taverne della vil Suburra,
Del brando in vece maneggiar le tazze. Arme, arme intanto l'Oriente grida, Arme l'arsa Numidia, arme Lamagna. E quinci move Mitridate, e quindi Il perfido Giugurta, ed alle spalle Ne vien di Cimbri procelloso un nembo, Aspra gente crudele, e che del pari Trattar sa il ferro e dispregiar la morte. E noi stolti, noi ciechi, e giuoco eterno Di questo rivoltoso, infino a quando Dormirem neghittosi in sul periglio? Infino a quando patirem gl'insulti D'un forsennato? Oh cara patria, o casa
È questa L'ultima volta che vi parlo. I miei Nemici e vostri la mia morte han fissa : E grazie vi degg' io che, permettendo Libere le parole alle mie labbra, Non permettete ch'io mi muoja infame. E qual più grave infamia ad un Romano, Che agli estinti passar col nome in fronte Di tiranno? Verrammi incontro l'ombra Del trucidato mio fratel; coperto D'ignominia vedrammi e di ferite : E chi t'impresse, mi dirà, quest' onta ? Chi ti fe' queste piaghe? Ed io, Romani, Che rispondere allor? A questo strazio, Dirò, m'han tratto quelle man medesme Che te spensero il di che sconoscente
T'abbandonò la plebe, e tu giacesti Rotto la fronte di crudel percossa, E d'innocente sangue lunga riga Lasciasti orribilmente strascinato; Finche tepido ancor, qual vile ingombro, Nel Tebro ti gittår, che del primiero Civil sangue macchiato al mar fuggiva. Né ti valse, infelice, esser tribuno Ed aver sacra la persona! E anch'io, Diró, fui spento da' patrizi, e reo De' medesmi delitti, anch'io tiranno Fui chiamato, io che tutti ognor sacrai Alla patria, a lei sola i miei pensieri; lo che tolsi la plebe alle catene De' voraci potenti; io che i rapiti Dritti le resi e le paterne terre, lo povero, io plebeo, io de' tiranni Tormento eterno, anch' io tiranno. Oh ple- Qual ria mercede a chi ti serve!
Fa cor: la plebe non è ingrata, il giuro. Niun t'estima tiranno arditamente Di' tua ragione, e non tremar.
Soli qui denno gli oppressor. Son io Patrizio forse? Tremai forse io quando Con alto rischio del mio capo osai D'auguste leggi circondar la vostra Prostrata libertà? Pur quello io sono, Riconoscimi, Roma, io mi son quello Che contra iniquo usurpator senato, E libero e monarca e onnipossente Il popol feci. Fu delitto ei questo? Plebe, rispondi: è questo un mio delitto?
TERZO CITTADINO.
No; qui tutti siam re.
SECONDO CITTADINO.
PRIMO CITTADINO. Esecutor di nostra
Mente il senato, e nulla più.
É dunque vostro chi di vostra intera Libertà mi fa colpa, e va dolente Della patrizia tirannia perduta. – In tribunal sedenti eran trecento Vili, venduti senatori. If forte Rompea la legge o la comprava, ed era La povertà delitto. Io questa infame
Venal giustizia sterminai. Trecento Giudici aggiunsi di tenace e salda Fede, e comune colla plebe io resi Il poter de' giudizii. Or, chi di santa Opra incolparmi a voi dinanzi ardisce? Un Opimio, o Romani, e que' medesmi, Que' medesmi perversi, a cui precluso Fu il reo mercato delle vostre vite, Delle vostre sostanze. Ahi nome vano, Virtù, ludibrio de' malvagi! Ahi dove Porrai tu il trono, se qui pur, se in mezzo Dell' alma Roma e de' suoi santi Numi, Nome acquisti di colpa e sei punita?
IL VECCHIO Sotto voce al più vicino. Vero è, pur troppo, il suo parlar. MostrarDi virtù caldo è gran periglio. Un Dio [si Sul suo labbro ragiona.
Romane voci, e lagrime vegg'io D'uomini degne. Ma cessate il pianto, L'ultima udite capital mia colpa; E non di gaudio, ma di rabbia e d'ira Lagrime verserai, plebe tradita. Tu stammi attenta ad ascoltar.-De' grandi L'avarizia crudel, di tua miseria Calcolatrice, a te rapito avea Tutto, e lasciato in avviliti corpi L'anime appena, e pietade pur era Col paterno retaggio a te rapire L'anima ancora. Ti lasciâr crudeli Dunque la vita per gioir di tue Lagrime eterne, per calcarti, e oppressa Tenerti e schiava, e, ciò che peggio estimo,
Sprezzarti. Or odi l'inaudita, atroce Mia colpa, e tutta in due motti la stringo : Restituirti il tuo ; restituirti Tanto di terra che di poca polve Le travagliate e stanche ossa ti copra. Oh miseri fratelli! Hanno le fiere, Pe' dirupi disperse e per le selve, Le lor tane ciascuna ove tranquille Posar le membra e disprezzar l'insulto Degl' irati elementi. E voi, Romani, Voi che carchi di ferro a dura morte Per la patria la vita ognor ponete; Voi, signori del mondo, altro nel mondo Non possedete, perchè tor non puossi, Che l'aria e il raggio della luce. Erranti Per le campagne e di fame cadenti Pietosa e mesta compagnia vi fanno Le squallide consorti e i nudi figli Che domandano pane. Ebbri frattanto Di falerno e di crapole lascive, Fra i canti Fescennini a desco stanno Le arpie togate; e ciò, che non mai sazio Il lor ventre divora, è vostro sangue. Sangue vostro i palagi, folgoranti Di barbarico lusso, e l'auree tazze, E d'Arabia i profumi, e di Sidone Le porpore e i tappeti alessandrini. Sangue vostro quei campi e le regali Tuscolane delizie e tiburtine; [ma, Quelle tele, quei marmi ; e quanto, in som- Il lor fasto alimenta, è tutto sangue Che a larghi rivi in mezzo alle battaglie Vi trassero dal sen spade nemiche. Non han di proprio che i delitti. Oh iniqui, Oh crudeli patrizi! E poi ne' campi Di Marte faticosi osan ribelli E infingardi chiamarvi, essi che tutta Colla mollezza d'Oriente han guasta L'austerita latina, e in bordello Gli eserciti conversi; essi che, tutti De' popoli soggetti e dell'impero Ingoiando i tesor, lascian per fame Il soldato perire, e per tal guisa Querulo il fanno e disperato e ladro. E poi perduta piangono l'antica Militar disciplina; e poi nell'ora Gridano della pugna: Combattete Pe' domestici Numi e per le tombe De' vostri padri. - Ma di voi, meschini, Chi possiede di voi un foco, un' ara, Una vil pietra sepolcral?
POPOLO con altissimo grido. Nessuno,
Fratelli, udiste i miei delitti. Or voi Puniteli, ferite. Io v'abbandono Questo misero corpo. Strascinatelo Per le vie sanguinoso; Opimio fate Di mia morte contento, e col supplizio Del vostro amico il suo furor placate. Già son use a veder le vie latine Di mia gente lo strazio: usa è del Tebro L'onda pietosa a seppellir de' Gracchi Ne' suoi gorghi le membra; e la lor madre Già conosce le rive ove de' figli
Cercar la spoglia lacerata. Oh patria! Felice me, se il mio morir...
E noi l'avrem. - M'ascolta,
Console, ed alza l'atterrito viso. Tu delle leggi violar tentasti La santità, la maestà. Te dunque Nemico accuso della patria: e tosto Che spiri il sommo consolar tuo grado, Che tua persona or rende inviolata, lo Cajo Gracco a comparir ti cito Avanti al tuo sovrano, avanti a questo Giudice delle colpe. A lui la pena Pagherai delle tue. - Romani, ognuno Si rimanga tranquillo, e non sollevi Nessun qui grido insultator; nessuno. Del popolo il silenzio è de' tiranni La più tremenda lezion. Partite Queti, e lasciate a' suoi rimorsi in preda Questo superbo.
(Parte, e il popolo si ritira modestamente.)
Oh vil clemenza! oh stolta Virtu! Per Gracco Opimio vivo!... Io sento D'altro sangue bisogno: e questo ferro Mi darà sangue, se non d'altri... il mio.
OPIMIO, DRUSO, SENATORI E LITTORI,
A che pur taci, e torvo guardi e fremi? Tu meditavi la sua morte, ed egli Ti fa don della vita. Dopo tanto Benefizio a che pensi?
Quale e quanto è nel cor, comincio or tutto A conoscere Opimio.
OPIMIO a Rabirio che subito parte. Il mio comando Corri veloce ad eseguir. - Tribuni, Statevi pronti al cenno mio, se cara La patria avete. - Senatori, udite (Parte discorrendo in segreto co' senatori.)
FACCIAN gli Dei che non ti penta, o figlio, Di tua troppa virtù. Se generosi Sensi in Opimio speri, invan lo speri. Egli è tutto tiranno: e, ciò che parmi Più da temersi, svergognato e carco D'un benefizio. Quel suo cor malnato Mai perdonarti non saprà lo scorno Di doverti la vita.
E nol perdoni. Non pentirommi del mio don per questo. Sia fierezza o virtù, più mi lusinga La sua vergogna che la sua ruina. Se reo sangue versarsi oggi dovea, Altro ve n'era, e tu lo sai, più degno D'esser versato.
Tu, crudel, rinnovi Memoria d'ira e di dolor che tutto Del tuo trionfo il dolce m'avvelena. Ma poichè torni tu medesmo, o figlio, A trattar la ferita, odi sospetto Che mi forza a tremar.- Sappi che dianzi Segretamente il console egli stesso Del tuo cognato a visitar la spoglia Esanime recossi; e cor maligno Certo il condusse più che cor pietoso. Che si tenti non so; ma scellerato Colpo si tenta. Se costui... Che veggio ?
Speri tu da un tiranno?.., Ma che vale Strapparsi i crini, infurïar? Qui vuolsi Senno, o figlio, e non rabbia. Va, raduna Il popolo, e ti mostra, e parla e tuona. Sul tuo labbro è la folgore, e vibrarla Tu sai nell'uopo. Or tu la vibra, e sperdi Chi t'insidia, e punisci. Al giusto nuoce Chi al malvagio perdona; e ti ricorda Che comun benefizio è la vendetta De' beneficii. Va, tronca gl'indugi, Quel perfido confondi, il fallo emenda Di tua clemenza, e vendicato torna, O non tornar più mai.
Madre, lo veggo; Il tradimento mi circonda, usate Armi patrizie. Ma schivarne i colpi Ella è del tutto un' impossibil cosa Senza sangue civile, ed io di sangue Non ho sete; e lo sai.
Di guasto sangue Roma ha colme le vene, e sta nel trarlo La sua salute.
Non la man del tuo figlio. Anche de' rei Il sangue é sacro, nè versarlo debbe Che il ferro della legge.
E che ragioni Tu di leggi, infelice, ove la sola Voce de' sommi scellerati è legge? Ove d'oro e di porpora lucenti Vanno le colpe, e la virtù mendica? Ove delitto è amor di patria? Ov' ebbe Iniqua morte il tuo fratel, trafitto; E da chi? Dalle leggi ?- Amato figlio, Vuoi tu leggi ascoltar? Quella sol odi
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