-Deh! nel volto affisatemi le ciglia, Vedete chi vi chiama, proseguia : Questa fronte toccate e queste chiome, Madre, madre chiamatemi per nome. Cosi pregava desolata; e il pianto Largo giù per le gote le piovea : La scema allor - Che hai da pianger tanto? Forse hai perduti i figli ? le dicea; I cari figli che vederti a canto Solevi, e il cor materno ne godea? Quello è dolor! ma il lagrimar non giova A richiamarli; ed io mel so per prova. Taei, taci, non piangere: tu sei Manco infelice ancor che non son io; Gli hai conosciuti dunque i figli miei? La mia Odalinda? la mia Lida? il mio Richelmo?... si leggiadri, così bei... Qui s'interruppe, e- Ohimè! qual calpestio ?... State! state!... non odi ?... io ben lo sento Un suon funebre che mi porta il vento. Chino il volto, una man si pose al core, E mormorava - Ho qui una spina acuta : Son morti non sapendo di che amore Gli amai; chè fredda sempre e rattenuta, Strania talvolta ancor nel mio dolore, Corrucciosa ed acerba m' han veduta : E pur tanto piacevoli e soggetti Eran sempre con me quei poveretti. Sallo Iddio, cari figli, s' io v'amai! S'ogni mia cura sempre in voi s' intese !Qui alla suocera volta -E tu lo sai; Dimmi, e perchè nol festi lor palese? Ma Lida-Ah! no, del vostro amor, no mai Nessun di noi non dubitò, - riprese : -Voi pur, chiedea l'insana, lo sapete?... Ma chi fu che vel disse? e voi chi siete? Di doglia alla fanciulla il cor si spezza, Ne potendo parlar, la madre abbraccia, Affannosa la bacia e l'accarezza, Bagnandole di lagrime la faccia : Scorrer pel sangue non so qual dolcezza, Che l'ombre del pensier dirada e scaccia, Si sente la delira a poco, a poco, E mitigarsi nelle vene il foco. La vecchia intanto-Guarda, cara nuora, Le ripeteva pur: vedila, è dessa, É Lida; or ben non la ravvisi ancora? La madre gli occhi attoniti le appressa, Ed ora par la raffiguri, ed ora Par che voglia riprendere sè stessa : Di novo a lungo tacita la guata, E mesta fassi in volto ed accorata. Ma per quel giorno e per molt' altri an cora Non racquistò il discorso si perfetto, CANTO SESTO. RIAVERSI frattanto la donzella Chè quel segreto istinto, quell' arcana Il garzon che sua sposa già la chiama, Il caro fianco mai non abbandona, E le vien ripetendo quanto ei l'ama, E di sue pene andate le ragiona; Che fuor di lei nulla più al mondo brama, Che per tutta la vita le si dona; E ricomprar con tanto amor volea Ogni angoscia che pur data le avea. - Perchè sempre così tacita stai? Alfin le disse un giorno, e il viso ascondi? E alle parole del mio amor non mai Che con singhiozzi e lagrime rispondi? - Taci, deh! taci, rispondea la mesta -Non è ver: prorompea pien di spavento Senti scoppiarsi Ulrico il cor nel petto, Il fisico chiamossi, il qual concetto -Oh! diceva ella in atto supplicante, Alla pallida luce che percote E una pietà angosciosa ne sentía, Frenava Ulrico a gran fatica il pianto; In capo alla sua Lida una man posa. Mentre la cieca accarezzar non cessa Chè una corona genial, di care [te, Oh mio Richelmo, oh dolce figliuolmio!- In questo entrar le damigelle attese Lida asciugò le lagrime, a sè stessa Fece forza, e l'angoscia temperata, Finchè la notte omai fattasi tarda, Tutti dier cenno per andarne insieme : Pur contiensi l'inferma, e la gagliarda Ambascia rinascente in suo cor preme : Con ciglio asciutto quelle amate guarda Ch'ella di riveder non ha più speme : Bacia Odalinda, e in suo cordoglio muta La dolce madre e l'avola saluta. Sol che ad Ulrico che con quelle uscía, Indietro pur volgendosi accorato, Accennava col volto che l' avría Un altra volta ancora salutato. Allor segretamente a lei venía Un sacerdote, a ministrar chiamato I misteri ineffabili d'amore, Nei quali si rallegra il pio che more. Quando l' augusto rito fu perfetto, Concesso le venía da quel pietoso Che riveder potesse il suo diletto, Che avría dovuto in breve esserle sposo : Accorse Ulrico, e stette a canto al letto Tacito in dubitante atto amoroso; Ella, serena oltre l'usato e grave, Con voce gli parlò fioca e soave. - Poco di vita omai mi resta... Oh! senti, Deh non pianger così! se tu non sei Che m'incori in quest' ultimi momenti, A chi volgermi dunque a chi potrei ? Or tu ricevi i miei supremi accenti : L'avola mia ti raccomando, e lei Che alla fuggente luce della vita Questa che ti fu cara ha partorita. Ahi! ma tu per nemico in questa terra, Dalle tua fuggitivo, al padre esoso, Cerco a morte per tutto, in tanta guerra Qual rifugio ti resta, o generoso? Nata non fossi, o pria scesa sotterra Che per me si turbasse il tuo riposo! Io che d'essere tua non era degna, Della discordia fui la triste insegna. - Che dici? prorompea, tergendo il ciglio, E singhiozzando Ulrico, angiol del cielo, Fra noi perduti in questo basso esiglio Da Dio mandata sotto umano velo, Taci, taci, o ch' io perdo ogni consiglio, Al fin d'este parole, il volto ascose Da lui che scende de' suoi figli al core Quella virtù verratti che non hai : Egli a sé mi richiama, e n'è il signore ; Ma te in vita ancor vuole, e tu vivrai : Si vivi, te ne prego io per l' amore, Per quella eterna fe' che ti giurai; Vivi per me che ti scongiuro, e quando Comandar te lo possa, io tel comando. Ed oh! se il core del suo ben nemico Non repugnasse a quel che pur desío, Se il sacrificio d' ogni affetto antico Offrir potessi in questo punto a Dio, E d'una cosa anzi ch' io passi, Ulrico, Vorrei pregarti... Ascolta, fratel mio, Un grande obbligo io lascio, e tu lo sai; Liberarmene dunque non vorrai? Si lo vorrai, chè quella generosa Che in odio ebbi pur tanto è di te degna: Ella, che il labbro nominar non osa, Dandoti a me, tanta virtù m' insegna: Misera! non ha più sulla dubbiosa Via nessun che la guidi e la sostegna; Tu sol..., così, placato il tuo parente, Forse ancor fia pietoso alla mia gente. Figli sarete a queste che abbandono Entrambi ; ed essa pur fatta orfanella Per amor tuo vorrà, certa ne sono, Accettar le mie madri e mia sorella. Dille che ad Azzo il mio morir perdono, Ch'ogni gravezza a me rimetta anch'ella, Che innalzero per voi la mia preghiera A Lui che salva chi morendo spera: E quando dolci e placide giornate Scorrer vedrete nella pace insieme, Un cortese pensier non mi negate, Chè anch' io fui lieta di cotanta speme. Anch' io... che dissi, ahimè! non sian turbate Da desiderio uman quest' ore estreme: Iddio nol volle, i suoi giudizi adoro, E rassegnata e confidente io moro. Impedito dal pianto e dai rompenti Singhiozzi, il giovin troppo desolato, Più volte d'interromper quegli accenti Cogli atti dolorosi avea tentato: Quando i sospir men grevi e men cocenti Varco alla voce alfine ebbero dato: -Ah! sclamò, lagrimando tuttavia, Che mi proponi dunque, anima mia? Hai potuto pensarlo? e tu il vorresti Che d' altra io fossi mai se tuo non sono? I voti della mia Lida son questi, Di lei che del suo amor mi fece dono ?Ma qui pel duol gli è forza che s' arresti; -Avresti cor, poi segue in flebil suono, In quest'ora crudel che ne separa Avresti cor di rifiutarmi, o cara? Nè più seguir potendo, chè gli manca La voce sopraffatta da uno schianto, La man le prese omai gelida e bianca, V' impresse i labbri e la bagnò di pianto : D'un guardo accarezzante lo rinfranca L'intenerita vergine; ed oh quanto Brilla in quel guardo languido che more Della gioia ineffabil dell' amore! Però che la pietosa agonizzante, Cui d'altri più che di sè stessa cale, Ben di cor supplicato avea l'amante Per l'abborrita un giorno sua rivale; Ma combattuta in un medesmo istante Da un contrario desío che in lei prevale, Fu tutta del rifiuto consolata, Nel soave pensier d'essere amata. Il pudico rossore onde improvviso Di Lida il volto languido s'accese, E del contento suo sguardo il sorriso Quel novo affetto a Ulrico fer palese; Perch'egli il guardo in lei tenendo fiso Soavemente, - Ascoltami, riprese : Pe' tuoi cari non fia ch' io mi risparmi, Ma straniero fra lor vuoi tu lasciarmi? Deh! che la madre tua chiamarla io possa Madre, e suo figlio oda appellarmi anch'io: Questo amor che verrà meco alla fossa Fa che sia benedetto innanzi a Dio. E al suo pregar vedendola commossa, -M'adempi, oh! segue, l'ultimo desio ; La morte mi parrà manco incresciosa, S'io dir potrò- M'aspetta la mia sposa. Il sacerdote, fattosi a una sponda In sul letto a seder lenta levosse, Muto da canto Ulrico le si pose, I sospir soffocando nella gola; Ma Lida omai sentendosi al solenne Nero, sul petto e sulle spalle sciolto, Il bel crin le traspar di sotto al velo, È rugiadoso e candido quel volto Qual giglio appena svelto dallo stelo: In soave d'amore atto rivolto Tien l'angelico sguardo inverso il cielo; E sulle labbra pallide il sorriso. E la gioja le sta del paradiso. CANTO DI UN TROVATORE TOLTO DAL CAPITOLO XVI DEL ROMANZO MARCO VISCONTI. BELLO al pari d'una rosa Che si schiude al sol di maggio È Folchetto, un giovin paggio Di Raimondo di Tolosa; Prode in armi, ardito e destro, Trovator di lai maestro. Chi lo vede al di di festa Su un leardo pomellato Fulminar per lo steccato Con la salda lancia in resta, A san Giorgio lo ragguaglia Che il dragon vince in battaglia : Se al tenor di meste note Sciorre il canto poi l'intende, Quando il biondo crin gli scende In anella per le gote, Tocco il cor di maraviglia Ad un angiol l'assomiglia. In sua corte lo desia Qual signor più in armi vale, Non è bella provenzale Che il sospiro ei non ne sia; Ma il fedel paggio non ama Che il suo Sire, e la sua Dama. D'un baron di Salamanca All'amor del giovinettc Ond' ei langue come fiore Ne moría, ma gli fur pronte Forte d'armi apparecchio s'aduna. Non vi manca bandiera nessuna A Folchetto che a par gli cavalca Di Narbona il cammino già calca Ecco il giorno in che Nelda s'attende Ecco un altro, ed un altro succede, Passa il quarto ed il messo non riede, E la bella aspettata non vien : La città combattuta s'arrende, Già caduto è il ribelle stendardo: Vien Folchetto al suo fido leardo, Che più nullo rispetto lo tien. Alla volta del grato castello Tutto un giorno viaggia soletto, Poi sviandosi verso un borghetto, Che di mezzo agli ulivi traspar, Leva gli occhi al veron d'un ostello Al portar della bella persona, |