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Pur contra noi, d'ogni avarizia schivi,
Che sotto a i sacri ulivi,
Radendo quest' arena,

Peschiam canuti con duo remi a pena!

Alcon, che più s'aspetta?

Ecco il turbine rio, che omai n'è sopra. Lascia, che il flutto copra

La sdrucita barchetta;

E noi nudi salviamci al sasso in vetta.

O giovanetti, piante

Ponete in terra; qui pomi inserite;
Qui gli armenti nodrite

Sotto a le leggi sante

De la Natura, in suo voler costante.

Qui semplici a regnare;

Qui gli utili prendete a ordir consigli;
Ne fidate de' figli

La sorte, o de le care

Spose all'arbitrio del volubil mare.

LA CADUTA.

QUANDO Orion dal cielo
Declinando imperversa,
E pioggia e nevi e gelo
Sopra la terra ottenebrata versa,

Me, spinto ne la iniqua
Stagione, infermo il piede,
Tra il fango, e tra l'obliqua
Furia de' carri la città gir vede;

E per avverso sasso,

Mal fra gli altri sorgente,
O per lubrico passo

Lungo il cammino stramazzar sovente.

Ride il fanciullo; e gli occhi

Tosto gonfia commosso;

Che il cubito o i ginocchi

Me scorge o il mento dal cader percosso.

Altri accorre; e: Oh infelice,

E di men crudo fato

Degno vate! mi dice;

E seguendo il parlar, cinge il mio lato

Con la pietosa mano;

E di terra mi toglie;

E il cappel lordo, e il vano

Baston, dispersi ne la via, raccoglie:

Te ricca di comune
Censo la patria loda ;
Te sublime, te immune

Cigno da tempo, che il tuo nome roda,

Chiama, gridando intorno ;

E te molesta incita

Di poner fine al Giorno,

Per cui, cercato, a lo stranier ti addita.

Ed ecco il debil fianco
Per anni e per natura
Vai nel suolo pur anco
Fra il danno strascinando e la paura.
Ne il si lodato verso
Vile cocchio ti appresta,
Che te salvi, a traverso

De' trivii, dal furor de la tempesta.
Sdegnosa anima! prendi,
Prendi novo consiglio,
Se il già canuto intendi
Capo sottrarre a più fatal periglio.

Congiunti tu non hai,
Non amiche, non ville,
Che te far possan mai

Nell'urna del favor preporre a mille.

Dunque per l'erte scale
Arrampica qual puoi;
E fa gli atrii e le sale

Ogni giorno ulular de' pianti tuoi,

O non cessar di pôrte
Fra lo stuol de' clienti,
Abbracciando le porte

Degl' imi, che comandano a i potenti;

E, lor mercè, penétra

Ne' recessi de' Grandi;

E sopra la lor tetra

Noia le facezie e le novelle spandi.

0, se tu sai, più astuto

I cupi sentier trova
Cola, dove nel muto

Aere il destin de' popoli si cova;

E fingendo nova esca

Al pubblico guadagno,
L'onda sommovi, e pesca
Insidioso nel turbato stagno.

Ma chi giammai potria
Guarir tua mente illusa,
O trar per altra via

Te, ostinato amator de la tua Musa?

Lasciala; o, pari a vile Mima, il pudore insulti, Dilettando scurrile

I bassi genii, dietro al fasto occulti.

Mia bile al fin, costretta Già troppo, dal profondo. Petto rompendo, getta Impetuosa gli argini; e rispondo :

Chi sei tu,

che sostenti

A me questo vetusto
Pondo, e l'animo tenti

Prostrarmi a terra? Umano sei; non giusto.

Buon cittadino, al segno,

Dove natura e i primi
Casi ordinár, lo ingegno

Guida così, che lui la patria estími.

Quando poi d'età carco Il bisogno lo, stringe, Chiede opportuno e parco

Con fronte liberal, che l'alma pinge.

E se i duri mortali
A lui voltano il tergo,
Ei si fa, contro a i mali,

De la costanza sua scudo ed usbergo.

Ne si abbassa per duolo;

Ne s'alza per orgoglio.

E cio dicendo, solo

Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio.

Cosi, grato a i soccorsi, Ho il consiglio a dispetto; E privo di rimorsi,

Col dubitante piè torno al mio tetto.

IL DONO.

QUESTE, che il fero Allobrogo (1)

Note piene d'affanni
Incise col terribile
Odiator de' tiranni
Pugnale, onde Melpomene
Lui fra gl' Itali spirti unico armo;
Come, oh come a quest' animo
Giungon soavi e belle,
Or che la stessa Grazia
A me di sua man dielle,
Dal labbro sorridendomi,

E dalle luci, onde cotanto può !

Mer per l'urto e per l'impeto

Degli alletti tremendi,

Me per lo cieco avvolgere

(1) Parla delle tragedie d'Alfieri ricevute in

dono dalla marchesa Castiglioni.

De' casi, e per gli orrendi
Dei gran re precipizii,
Ove il coturno camminando va,
Segue tua dolce immagine,
Amabil donatrice,
Grata spirando ambrosia
Su la strada infelice;

E in sen nova eccitandomi,
Mista al terrore, acuta voluttà:

O sia, che a me la fervida
Mente ti mostri, quando
In divin modi e in vario
Sermon, dissimulando,
Versi d'ingegno copia,

E saper, che lo ingegno almo nodri;
O sia, quando spontaneo
Lepor tu mesci ai detti,
E di gentile aculeo
Altrui pungi e diletti,
Mal cauto dalle insidie,

Che de' tuoi vezzi la natura ordi.
Caro dolore, e specie
Gradevol di spavento,
È mirar finto in tavola,
E squallido, e di lento
Sangue rigato il giovane

Che dal crudo cinghiale ucciso fu.
Ma sovra lui se pendere
La madre degli Amori,
Cingendol con le rosee
Braccia, si vede, i cori
Oh quanto allor si sentono
Da giocondo tumulto agitar più!
Certo maggior, ma simile
Fra le torbide scene

Senso in me desta il pingerini
Tue sembianze serene;

E all' atre idee contessere

I bei pregi, onde sol sei pari a te.
Ben porteranno invidia
A miei novi piaceri
Quant'altri a scorrer prendano
I volumi severi.

Che far, se amico Genio

Si amabil donatrice a lor non die?

A SILVIA

SUL VESTIRE A LA VICTIME.

PERCHÈ al bel petto e all'omero Con subita vicenda,

Perchè, mia Silvia ingenua, Togli l'Indica benda,

Che intorno al petto e all'omero,

Anzi alla gola e al mento,
Sorgea pur or, qual tumida

Vela nel mare al vento?

Forse spirar di zefiro
Senti la tiepid' ora?
Ma nel giocondo ariete
Non venne il sole ancora.

Ecco, di neve insolita
Bianco l'ispido verno,
Par che, sebben decrepito,
Voglia serbarsi eterno.

M'inganno? O il docil animo
Già de' femminei riti
Cede al potente imperio,
E l'altre belle imiti?

Qual nome o il caso o il genio
Al novo culto impose,
Che si dannosa copia
Svela di gigli e rose?

Che fia? Tu arrossi? E dubbia,
Col guardo al suol dimesso,
Non so qual detto mormori,
Mal dalle labbra espresso?

Parla. Ma intesi. Oh barbaro!
Oh nato dalle dure

Selci chiunque togliere
Da scelerata scure

infamia

Osò quel nome,
Del secolo spietato;
E diè funesti augurii
Al femminile ornato;

E con le truci Eumenidi

Le care Grazie avvinse;
E di crudele immagine
La tua bellezza tinse!

Lascia, mia Silvia ingenua,
Lascia cotanto orrore
All' altre belle, stupide
E di mente e di core.

Ahi! da lontana origine,
Che occultamente noce,
Anco la molle giovane
Può divenir feroce.

Sai delle donne esimie,
Onde si chiara ottenne
Gloria l'antico Tevere,
Silvia, sai tu che avvenne,

Poi che la spola e il frigio
Ago e gli studii cari

Mal si recaro a tedio,
E i pudibondi Lari,

E con baldanza improvvida,
Contro agli esempi i primi,
Ad ammirar convennero
I saltatori e i mimi?

Pria tolleraron facili
I nomi di Teréo
E della maga Colchica
E del nefario Atréo.

Ambito poi spettacolo
Ai loro immoti cigli
Fur nelle orrende favole
I trucidati figli.

Quindi, perversa l'indole,
E fatto il cor più fiero,
Dal finto duol, già sazie,
Corser sfrenate al vero;

E là, dove di Libia
Le belve in guerra oscena
Empiean d' urla e di frernito
E di sangue l'arena,

Potè all'alte patrizie,
Come alla plebe oscura,
Giocoso dar solletico

La soffrente natura.

Che più? Baccanti e cupide
D'abbominando aspetto,
Sol dall' uman pericolo
Acuto ebber diletto;

E dai gradi e dai circoli,
Co' moti e con le voci
Di già maschili, applausero
Ai duellanti atroci;

Creando a se delizia
E delle membra sparte,
E degli estremi aneliti,

E del morir con arte.

Copri, mia Silvia ingenua,
Copri le luci; ed odi,
Come tutti passarono
Licenziose i modi.

Il gladiator, terribile
Nel guardo e nel sembiante,
Spesso fra i chiusi talami
Fu ricercato amante.

Così, poi che dagli animi
Ogni pudor disciolse,

Vigor dalla libidine

La crudeltà raccolse.

Indi ai veleni taciti
Si preparò la mano;
Indi le madri ardirono
Di concepire in vano.

Tal da lene principio
In fatali rovine
Cadde il valor, la gloria
Delle donne Latine.

Fuggi, mia Silvia ingenua,
Quel nome e quelle forme,
Che petulante indizio
Son di misfatto enorme.

Non obliar le origini Della licenza antica. Pensaci; e serba il titolo D'umana e di pudica.

IL PERICOLO.

In vano, in van la chioma, Deforme di canizie;

E l'anima, già doma

Da i casi; e fatto rigido
Il senno dall' età,

Si crederà che scudo
Sien contro ad occhi fulgidi,
A mobil seno, a nudo
Braccio, e all' altre terribili
Arme de la beltà.

Gode assalir nel porto
La contumace Venere;
E, rotto il fune e il torto
Ferro, rapir nel pelago
Invecchiato nocchier;

E, per novo periglio
Di tempeste, all'arbitrio
Darlo del cieco figlio,
Esultando con perfido
Riso del suo poter.

Ecco me di repente, Me stesso, per l' undecimo Lustro di già scendente, Sentii vicino a porgere Il pie servo ad amor; Benchè gran tempo al saldo Animo in van tentassero Novello eccitar caldo

Le lusinghiere giovani,
Di mia patria splendor.

Tu da i lidi sonanti
Mandasti, o torbid' Adria,
Chi sola de gli amanti
Potea tornarmi a i gemiti,
E al duro sospirar;

Donna d'incliti pregi Là fra i togati principi, Che di consigli egregi Fanno l'alta Venezia Star libera sul mar.

Parve, a mirar, nel volto E ne le membra Pallade, Quando, l'elmo a sè tolto, Fin sopra il fianco scorrere Si lascia il lungo crin:

Se non che a lei dintorno Le volubili grazie Dannosamente adorno Rendeano a i guardi cupidi L'almo aspetto divin.

Qual, se parlando, eguale A gigli e rose, il cubito Molle posava? Quale, Se improvviso la candida Mano porgea nel dir?

E a le nevi del petto,
Chinandosi, da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero dell' alme incendio!
Permetteva fuggir?

Intanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie fabro,
Gía modulando i lepidi
Detti nel patrio suon.

Che più? Da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,

Che tali mai non arsero
L'amica di Faon;

Nè quando al coro intento
De le fanciulle Lesbie
L'errante violento
Per le midolle fervide
Amoroso velen;

Nè quando lo interrotto
Dal fuggitivo giovane
Piacer cantava, sotto
A la percossa cetera

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IL PARAFOCO.

STAVA un giorno Citerea

Di Vulcano a la fucina:
Né difender si sapea
De la fiamma a lei vicina;
Nè salvar le fresche rose
De le gote sue vezzose.

Opponeva or destra or manca
Al gran foco ivi raccolto;
Ma la man picciola e bianca
Vano scudo era al bel volto:
Chè feriva e volto e mano
La gran vampa di Vulcano.

De la Dea vide i tormenti;
A pietade Amor si mosse;
E dall' ali rinascenti
Una subito strapposse ;
Poi con atto dolce e caro:
Ecco, disse, il tuo riparo.

Sereno Venere il ciglio;
E il celeste almo sorriso
Rivolgendo al caro figlio
Abbassossi, e il baciò in viso;
Poi fe' schermo al gran calore
Con quell' ala dell' Amore.

Ma la Dea sagace apprese,
Riparando il foco ardente,
Di quel vago e novo arnese
Ad usar più dolcemente:

Onde rise il Nume armato
Che le stava all' altro lato.

Ella i guardi a lui volgeva,
All'orecchio gli parlava,
E il bel volto nascondeva
Dal marito che guardava,
E cosi sfogava il core
Sotto all' ala dell' Amore.

Spesso ancor si ricopría
La metà de le pupille;
E più forte l'assalía
Condensando le faville
Che ferien con più rigore
Sotto all' ala dell' Amore.

Or dal sommo de' bei labri
Accennava i molli baci :
Ora uscíen de' bei cinabri
Sospiretti o ghigni audaci,
Or nasceva un bel rossore
Sotto all' ala dell' Amore.

Tale in tanto che Vulcano
Fabbricava arme a gli Dei,
Citerea così pian piano
Accresceva i suoi trofei
Sopra il Nume vincitore
Sotto all'ala dell' Amore.

Belle mie, voi m'intendete: Dell' Amor l'ala son io.

Come Venere potete

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