Pur contra noi, d'ogni avarizia schivi, Peschiam canuti con duo remi a pena! Alcon, che più s'aspetta? Ecco il turbine rio, che omai n'è sopra. Lascia, che il flutto copra La sdrucita barchetta; E noi nudi salviamci al sasso in vetta. O giovanetti, piante Ponete in terra; qui pomi inserite; Sotto a le leggi sante De la Natura, in suo voler costante. Qui semplici a regnare; Qui gli utili prendete a ordir consigli; La sorte, o de le care Spose all'arbitrio del volubil mare. LA CADUTA. QUANDO Orion dal cielo Me, spinto ne la iniqua E per avverso sasso, Mal fra gli altri sorgente, Lungo il cammino stramazzar sovente. Ride il fanciullo; e gli occhi Tosto gonfia commosso; Che il cubito o i ginocchi Me scorge o il mento dal cader percosso. Altri accorre; e: Oh infelice, E di men crudo fato Degno vate! mi dice; E seguendo il parlar, cinge il mio lato Con la pietosa mano; E di terra mi toglie; E il cappel lordo, e il vano Baston, dispersi ne la via, raccoglie: Te ricca di comune Cigno da tempo, che il tuo nome roda, Chiama, gridando intorno ; E te molesta incita Di poner fine al Giorno, Per cui, cercato, a lo stranier ti addita. Ed ecco il debil fianco De' trivii, dal furor de la tempesta. Congiunti tu non hai, Nell'urna del favor preporre a mille. Dunque per l'erte scale Ogni giorno ulular de' pianti tuoi, O non cessar di pôrte Degl' imi, che comandano a i potenti; E, lor mercè, penétra Ne' recessi de' Grandi; E sopra la lor tetra Noia le facezie e le novelle spandi. 0, se tu sai, più astuto I cupi sentier trova Aere il destin de' popoli si cova; E fingendo nova esca Al pubblico guadagno, Ma chi giammai potria Te, ostinato amator de la tua Musa? Lasciala; o, pari a vile Mima, il pudore insulti, Dilettando scurrile I bassi genii, dietro al fasto occulti. Mia bile al fin, costretta Già troppo, dal profondo. Petto rompendo, getta Impetuosa gli argini; e rispondo : Chi sei tu, che sostenti A me questo vetusto Prostrarmi a terra? Umano sei; non giusto. Buon cittadino, al segno, Dove natura e i primi Guida così, che lui la patria estími. Quando poi d'età carco Il bisogno lo, stringe, Chiede opportuno e parco Con fronte liberal, che l'alma pinge. E se i duri mortali De la costanza sua scudo ed usbergo. Ne si abbassa per duolo; Ne s'alza per orgoglio. E cio dicendo, solo Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio. Cosi, grato a i soccorsi, Ho il consiglio a dispetto; E privo di rimorsi, Col dubitante piè torno al mio tetto. IL DONO. QUESTE, che il fero Allobrogo (1) Note piene d'affanni E dalle luci, onde cotanto può ! Mer per l'urto e per l'impeto Degli alletti tremendi, Me per lo cieco avvolgere (1) Parla delle tragedie d'Alfieri ricevute in dono dalla marchesa Castiglioni. De' casi, e per gli orrendi E in sen nova eccitandomi, O sia, che a me la fervida E saper, che lo ingegno almo nodri; Che de' tuoi vezzi la natura ordi. Che dal crudo cinghiale ucciso fu. Senso in me desta il pingerini E all' atre idee contessere I bei pregi, onde sol sei pari a te. Che far, se amico Genio Si amabil donatrice a lor non die? A SILVIA SUL VESTIRE A LA VICTIME. PERCHÈ al bel petto e all'omero Con subita vicenda, Perchè, mia Silvia ingenua, Togli l'Indica benda, Che intorno al petto e all'omero, Anzi alla gola e al mento, Vela nel mare al vento? Forse spirar di zefiro Ecco, di neve insolita M'inganno? O il docil animo Qual nome o il caso o il genio Che fia? Tu arrossi? E dubbia, Parla. Ma intesi. Oh barbaro! Selci chiunque togliere infamia Osò quel nome, E con le truci Eumenidi Le care Grazie avvinse; Lascia, mia Silvia ingenua, Ahi! da lontana origine, Sai delle donne esimie, Poi che la spola e il frigio Mal si recaro a tedio, E con baldanza improvvida, Pria tolleraron facili Ambito poi spettacolo Quindi, perversa l'indole, E là, dove di Libia Potè all'alte patrizie, La soffrente natura. Che più? Baccanti e cupide E dai gradi e dai circoli, Creando a se delizia E del morir con arte. Copri, mia Silvia ingenua, Il gladiator, terribile Così, poi che dagli animi Vigor dalla libidine La crudeltà raccolse. Indi ai veleni taciti Tal da lene principio Fuggi, mia Silvia ingenua, Non obliar le origini Della licenza antica. Pensaci; e serba il titolo D'umana e di pudica. IL PERICOLO. In vano, in van la chioma, Deforme di canizie; E l'anima, già doma Da i casi; e fatto rigido Si crederà che scudo Gode assalir nel porto E, per novo periglio Ecco me di repente, Me stesso, per l' undecimo Lustro di già scendente, Sentii vicino a porgere Il pie servo ad amor; Benchè gran tempo al saldo Animo in van tentassero Novello eccitar caldo Le lusinghiere giovani, Tu da i lidi sonanti Donna d'incliti pregi Là fra i togati principi, Che di consigli egregi Fanno l'alta Venezia Star libera sul mar. Parve, a mirar, nel volto E ne le membra Pallade, Quando, l'elmo a sè tolto, Fin sopra il fianco scorrere Si lascia il lungo crin: Se non che a lei dintorno Le volubili grazie Dannosamente adorno Rendeano a i guardi cupidi L'almo aspetto divin. Qual, se parlando, eguale A gigli e rose, il cubito Molle posava? Quale, Se improvviso la candida Mano porgea nel dir? E a le nevi del petto, Intanto il vago labro, Che più? Da la vivace Che tali mai non arsero Nè quando al coro intento Nè quando lo interrotto IL PARAFOCO. STAVA un giorno Citerea Di Vulcano a la fucina: Opponeva or destra or manca De la Dea vide i tormenti; Sereno Venere il ciglio; Ma la Dea sagace apprese, Onde rise il Nume armato Ella i guardi a lui volgeva, Spesso ancor si ricopría Or dal sommo de' bei labri Tale in tanto che Vulcano Belle mie, voi m'intendete: Dell' Amor l'ala son io. Come Venere potete |