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Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltate o di natura o d'arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico, Altri studi men dolci, in ch'io riponga L'ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell'eterne cose; a che prodotta, A che d'affanni e di miserie carca L'umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi : Con quali ordini e leggi a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d'ammirar son pago. In questo specolar gli ozi traendo Verrò che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, che già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento : Vana Diva non pur, ma di fortuna E del fato e d'amor, Diva più cieca.

XX.

IL RISORGIMENTO.

CREDEI ch' al tutto fossero In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci aflanni Della mia prima età :

I dolci affanni, i teneri Moti del cor profondo, Qualunque cosa al mondo Grato il sentir ci fa.

Quante quercle e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor manco!

Mancâr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;

Deserto il di; la tacita

Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine
Era l'antico affetto :
Nell' intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu spento,

E di più far lamento
Valor non mi restò.

Giacqui insensato, attonito,
Non dimandai conforto :
Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.

Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che si beato errore
Nutrii nell' alma un dì!

La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi feri:

Non all'autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,

Il fuggitivo Sol.

Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de' gentili amanti
Primo, immortale amor,

Ed alla mano ollertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
II volto era seren.

Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.

Qual dell' età decrepita

L'avanzo ignudo e vile,
lo conducea l'aprile
Degli anni miei così:

Cosi quegl' ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che si fugaci e brevi
Il cielo a noi sorti.

Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?
Siete pur voi quell' unica
Luce de' giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?

Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;

Non l'annullar : non vinserla Il fato e la sventura;

Non con la vista impura
L'infausta verità.

Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita
Fu, ma dell' esser solo:
Purche ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal.

So che pietà fra gli uomini

Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L'ignuda gloria ancor.

E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla :
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in se.

Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere
Gl'inganni aperti e noti;
E de' suoi proprii moti
Si maraviglia il sen.

Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio

Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima Alta, gentile e pura,

La sorte, la natura,

Il mondo e la beltà.

Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.

XXI.

A SILVIA.

SILVIA, rammenti ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all' opre femminili intenta Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso e tu solevi
Cosi menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi

Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Ne teco le compagne ai di festivi
Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce : agli anni miei
Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,

Cara compagna dell' età mia nova,
Mia lacrimata speme.
Questo è quel mondo ? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell' umane genti?
All' apparir del vero,

Tu, misera, cadesti : e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

XXII.

LE RICORDANZE.

VAGHE stelle del' Orsa, io non credea Tornare ancor per uso a contemplarvi Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre Di questo albergo ove abitai fanciullo, E delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l'aspetto vostro E delle luci a voi compagne! allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi E in su l'aiuole, sesurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de' servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.

Ne mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz' amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'ho appresso: e intanto
vola

Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo

Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell' arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell' ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin
dentro

Non torni, e un dolce sovvenir non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire : io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del di; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l' acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà tingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio si vile

E si dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m' avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch' al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi accanto, e fia venuto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo

Risovverammi; e quell' imago ancora Sospirar mi farà, farammi acerbo L'esser vissuto indarno, e la dolcezza Del di fatal tempererà d' affanno.

E già nel primo giovanil tumulto Di contenti, d'angosce e di desio, Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar dentro quell'acque La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, Piansi la bella giovanezza, e il fiore De' miei poveri di, che si per tempo Cadeva e spesso all' ore tarde, assiso Sul conscio letto, dolorosamente Alla fioca lucerna poetando, Lamentai co' silenzi e con la notte Il fuggitivo spirto, ed a me stesso In sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri, O primo entrar di giovinezza, o giorni Vezzosi, inenarrabili, allor quando Al rapito mortal primieramente Sorridon le donzelle; a gara intorno Ogni cosa sorride; invidia tace, Non desta ancora ovver benigna; e quasi (Inusitata maraviglia!) il mondo La destra soccorrevole gli porge, Scusa gli errori suoi, festeggia il novo Suo venir nella vita, ed inchinando Mostra che per signor l'accolga e chiami? Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo Son dileguati. E qual mortale ignaro Di sventura esser può, se a lui già scorsa Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? O Nerina! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? caduta forse Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, Che qui sola di te la ricordanza Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede Questa Terra natal : quella finestra, Ond'eri usata favellarmi, ed onde Mesto riluce delle stelle il raggio, È deserta. Ove sei, che più non odo La tua voce sonar, siccome un giorno, Quando soleva ogni lontano accento. Del labbro tuo, ch' a me giungesse, il volto Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito, E l'abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte

La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico Nerina mia, per te non torna
Primaveva giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXIII.

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA (9).

CHE fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sci tu paga

Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli ?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera.
Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi : ove tende Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

[pa

Al vento, alla tempesta, e quando avvam-
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch' arriva
Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,

Ov' ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore

Il prende a consolar dell' esser nato.
Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell' umano stato :

Altro officio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che si pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,

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