Star cosi muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano ; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando :
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa ? ed io che sono? Cosi meco ragiono e della stanza Smisurata e superba,
E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa,
Per tornar sempre la donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento
Avrà fors' altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi; oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d' affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all' ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell' anno
Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco.
pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei : Dimmi perchè giacendo
A bell' agio, ozioso, S'appaga ogni animale;
Me, s'io giacco in riposo, il tedio assale (10)?
Forse s'avess' io l'ale Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero,
Mirando all' altrui sorte, il mio pensiero : Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il di natale.
PASSATA è la tempesta :
Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il serenc Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a cor dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passegger che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core.
Si dolce, si gradita
Quand' è, com' or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d' affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
Fanno un lieto romore :
E intanto riede alla sua parca mensa Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al di del suo riposo. [face, Poi quando intorno è spenta ogni altra E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna, E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell' alba. Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso,
LA donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba ; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al di di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai di della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei Ch' ebbe compagni dell' età più bella. Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla da segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando,
DOLCISSIMO, possente
Dominator di mia profonda mente; Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte Ai lugubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me si spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non senti? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch' ei ragiona.
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto d'intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguår. Siccome torre In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei. Che divenute son, fuor di te solo, Tutte l'opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia
Gli ozi, i commerci usati, E di vano piacer la vana spene, Allato a quella gioia,
Gioia celeste che da te mi viene! Come da' nudi sassi Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida Volge gli occhi bramoso il pellegrino; Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente, Quasi in lieto giardino, a te ritorno, E ristora i miei sensi il tuo soggiorno. Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso Come d'altri desiri,
Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri. Giaminai d'allor che in pria Questa vita che sia per prova intesi, Timor di morte non mi strinse il petto. Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema, Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso Le sue minacce a contemplar m' affiso. Sempre i codardi e l'alme
Ingenerose abbiette
Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indeSubito i sensi miei;
Move l'alma ogni esempio
Dell'umana viltà subito a sdegno.
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica ; Stolta, che l'util chiede,
Quindi più sempre divenir non vede; Maggior mi sento. A scherno Ho gli umani giudizi; e il vario volgo A' bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto. A quello onde tu movi, Quale affetto non cede? Anzi qual altro affetto
Se non quell' uno intra i mortali ha sede ? Avarizia, superbia, odio, disdegno, Studio d'onor, di regno, Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi quest'uno,
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita Se non per lui, per lui ch' all' uomo è tutto; Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz' altro frutto; Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile La vita della morte è più gentile.
Per cor le gioie tue, dolce pensiero, Provar gli umani affanni,
E sostener molt'anni
Questa vita mortal, fu non indegno; Ed ancor tornerci,
Cosi qual son de' nostri mali esperto, Verso un tal segno a incominciare il corso: Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, Giammai finor si stanco
Per lo mortal deserto
Non venni a te, che queste nostre pene Vincer non mi paresse un tanto bene. Che mondo mai, che nova Immensità, che paradiso è quello Là dove spesso il tuo stupendo incanto Parmi innalzar! dov'io,
Sott' altra luce che l'usata errando, Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio! Tali son, credo, i sogni
Degl' immortali. Ahi finalmente un sogno In molta parte onde s'abbella il vero Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori,
Divina sei; perchè si viva e forte, Che incontro al ver tenacemente dura, E spesso al ver s'adegua,
Ne si dilegua pria, che in grembo a morte. E tu per certo, o mio pensier, tu solo Vitale ai giorni miei,
Cagion diletta d'infiniti affanni, Meco sarai per morte a un tempo spento: Ch'a vivi segni dentro l' alma io sento Che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre inlievolir. Quanto più torno A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo, Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond' io respiro. Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia.
Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, Ch'io di te non pensassi ? ai sogni miei La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno, Angelica sembianza, Nella terrena stanza,
Nell'alte vie dell'universo intero, Che chiedo io mai, che spero Altro che gli occhi tuoi veder più vago? Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
Ον οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνήσκει νέος.
Muor giovane colui ch'al cielo è caro. MENANDRO.
FRATELLI, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall' uno il bene, Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell' essere si trova; L'altra ogni gran dolore, Ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente, Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente;
E sorvolano insiem la via mortale, Primi conforti d'ogni saggio core. Ne cor fu mai più saggio
Che percosso d'amor, nè mai più forte Sprezzò l'infausta vita,
Ne per altro signore
Come per questo a perigliar fu pronto : Ch'ove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, O si ridesta; e sapiente in opre, Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l'umana prole.
Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso alletto,
Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente : Come, non so: ma tale
D'amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura
Allor questo deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede omai senza quella Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura : Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio,
Che già, rugghiando, intorno intorno oscuPoi, quando tutto avvolge
La formidabil possa,
E fulmina nel cor l'invitta cura Quante volte implorata
Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall' aflannoso amante! Quante la sera, e quante
Abbandonando all'alba il corpo stanco, Se beato chiamò s'indi giammai Non rilevasse il fianco,
Ne tornasse a veder l'amara luce! E spesso al suon della funebre squilla, Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio, Con più sospiri ardenti
Dall' imo petto invidio colüi
Che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe,
L'uom della villa, ignaro D'ogni virtù che da saper deriva, Fin la donzella timidetta e schiva, Che già di morte al nome Senti rizzar le chiome,
Osa alla tomba, alle funeree bende Fermar lo sguardo di costanza pieno, Osa ferro e veleno Meditar lungamente, E nell'indotta mente
La gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina
D'amor la disciplina. Anco sovente, A tal venuto il gran travaglio interno Che sostener nol può forza mortale, O cede il corpo frale
Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale; O così sprona Amor là nel profondo, Che da se stessi il villanello ignaro, La tenera donzella
Con la man violenta
Pongon le membra giovanili in terra. Ride ai lor casi il mondo,
A cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici, Agli animosi ingegni
L'uno o l'altro di voi conceda il fato, Dolci signori, amici All'umana famiglia,
Al cui poter nessun poter somiglia Nell' immenso universo, e non l'avanza, Se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni Sempre onorata invoco, Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni, Se celebrata mai
Fosti da me, s' al tuo divino stato L'onte del volgo ingrato Ricompensar tentai,
Non tardar più, t'inchina A disusati preghi, Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell' età reina. Me certo troverai, qual si sia l'ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi, Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com' usa
Per antica viltà l'umana gente; Ogni vana speranza onde consola Se coi fanciulli il mondo, Ogni conforto stolto
Gittar da me; null' altro in alcun tempo Sperar, se non te sola; Solo aspettar sereno
Quel di ch'io pieghi addormentato il volto Nel tuo virgineo seno.
On poserai per sempre,
Stanco mio cor. Peri l'inganno estremo,
TORNA dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al di sereno, alle tacenti stelle, Da soave armonia quasi ridesta, Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno Mia delizia ed erinni! E mai non sento Mover profumo di fiorita piaggia,
Ne di fiori olezzar vie cittadine, Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno Che ne' vezzosi appartamenti accolta, Tutti odorati de' novelli fiori
Di primavera, del color vestita Della bruna viola, a me si offerse L'angelica tua forma, inchino il fianco Sovra nitide pelli, e circonfusa D'arcana voluttà; quando tu, dotta Allettatrice, fervidi, sonanti Baci scoccavi nelle curve labbra De' tuoi bambini, il niveo collo intanto Porgendo, e lor di tue cagioni ignari Con la man leggiadrissima stringevi Al seno ascoso e desiato. Apparve Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio Divino al pensier mio. Così nel fianco Non punto inerme a viva forza impresse Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto Ululando portai finch' a quel giorno Si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve,
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