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O salve, o segno salutare, o prima Luce della famosa età che sorge. Mira dinanzi a te come s'allegra

La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de' barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all' Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl'ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei di: nè ti spauri
L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
E di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.

XXXIII.

IMITAZIONE.

LUNGI dal propio ramo,

Povera foglia frale,
Dove vai tu? Dal faggio

Là dov'io nacqui, mi divise il vento.

Esso, tornando, a volo

Dal bosco alla campagna,

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FRAMMENTI.

XXXV.

ALCETA.

ODI, Melisso: io vo' contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a niente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all'improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s'approssimava,
Tanto crescesse al guardo ; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era

Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea
Si forte come quando un carbon vivo
Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel
modo

La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,
E ne fumavan l' erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un' orma, anzi una
nicchia,

Ond' ella fosse svelta; in cotal guisa,

Ch'io n' agghiacciava; e ancor non m'as

sicuro.

MELISSO.

E ben hai che temer, che agevol cosa Fora cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA.

Chi sa? non veggiam noi spesso di state Cader le stelle?

MELISSO.

Egli ci ha tante stelle, Che picciol danno è cader l'una o l'altra Di loro, e mille rimaner. Ma sola Ha questa luna in ciel, che da nessuno Cader fu vista mai se non in sogno.

XXXVI.

Io qui vagando al limitare intorno, Invan la pioggia invoco e la tempesta, Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggia nella foresta, E muggia tra le nubi il tuono errante, Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante, Parte la donna mia: pietà, se trova Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova Di sommergermi o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il dì rinnova.

S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia Le luci il crudo sol pregne di pianto.

XXXVII.

SPENTO il diurno raggio in occidente, E queto il fumo delle ville, e queta De' cani era la voce e della gente; Quand' ella, volta all' amorosa meta, Si ritrovò nel mezzo ad una landa Quanto foss' altra mai vezzosa e lieta. Spandeva il suo chiaror per ogni banda La sorella del sole, e fea d'argento Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

I ramuscelli ivan cantando al vento, E in un con l'usignol che sempre piagne Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento. Limpido il mar da lungi, e le campagne E le foreste, e tutte ad una ad una Le cime si scoprian delle montagne.

In queta ombra giacca la valle bruna,

Ei collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via La donna, e il vento che gli odori spande, Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande : Piacer prendea di quella vista, e il bene Che il cor le prometteva era più grande. Come fuggiste, o belle ore serene ! Dilettevol quaggiù null' altro dura, Ne si ferma giammai, se non la spene.

Ecco turbar la notte, e farsi oscura La sembianza del ciel, ch' era sì bella, E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella, Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto, Che più non si scopria luna nè stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto, E salir su per l'aria a poco a poco, E far sovra il suo capo a quella ammanto.

Veniva il poco lume ognor più fioco; E intanto al bosco si destava il vento, Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento, A tal che n'era scosso e svolazzava Tra le frondi ogni augel per lo spavento. E la nube, crescendo, in giù calava Ver la marina sì, che l'un suo lembo Toccava i monti, e l'altro il mar toccava. Già tutto a cieca oscuritade in grembo, S'incominciava udir fremer la pioggia, E il suon cresceva all' appressar del nemDentro le nubi in paurosa foggia [bo. Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi; E n'era il terren tristo, e l'aria roggia. Discior sentia la misera i ginocchi; E già muggiva il tuon simile al metro Di torrente che d'alto in giù trabocchi. Talvolta ella ristava, e l'aer tetro Guardava sbigottita, e poi correa Si che i panni e le chiome ivano addietro. E il duro vento col petto rompea, Che gocce fredde giù per l'aria nera In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera, Rugghiando orribilmente e senza posa; E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogn' intorno era terribil cosa Il volar polve e frondi e rami e sassi, E il suon che immaginar l' alma non osa. Ella dal lampo affaticati e lassi [no, Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seGia pur tra il nembo accelerando i passi. Ma nella vista ancor l'era il baleno

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OGNI mondano evento

È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo talento
Ogni cosa dispone.
Ma di lunga stagione

Nostro cieco pensier s'affanna e cura,
Benchè l'umana etate,

Come destina il ciel nostra ventura,

Di giorno in giorno dura.

La bella speme tutti ci nutrica

Di sembianze beate,

Onde ciascuno indarno s'affatica:

Altri l'aurora amica,

Altri l'etade aspetta ;

E nullo in terra vive

Cui nell'anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii

La mente non prometta.

Ecco pria che la speme in porto arrive,
Qual da vecchiezza è giunto

E qual da morbi al nero Lete addutto ;
Questo il rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago rapisce; altri consunto
Dall' egre cure, o tristo nodo al collo
Circondando, sotterra si rifugge.

XXXIX.

DELLO STESSO.

UMANA Cosa picciol tempo dura,

E certissimo detto
Disse il veglio di Chio,
Conforme ebber natura
Le foglie e l'uman seme.
Ma questa voce in petto

Raccolgon pochi. All'inquieta speme,

Figlia di giovin core,

Tutti prestiam ricetto.
Mentre è vermiglio il fiore

Di nostra etade acerba,
L'alma vota e superba

Cento dolci pensieri educa invano,
Nè morte aspetta nè vecchiezza; e nulla
Cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano.
Ma stolto è chi non vede

La giovanezza come ha ratte l'ale,
E siccome alla culla
Poco il rogo è lontano.

Tu pria di porre il piede
In sul varco fatale
Della plutonia sede,
Ai presenti diletti
La dubbia età commetti.

1

NOTE.

(1) Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone s'introduce a poctare, cioè da Simonide; tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell' undecimo libro, dove recita anche certe pa. role d'esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell' ultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e da altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico, nè più fortunato di questo che fu scelto, o più veramente sortito, da Simonide. Perocchè se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l'operarono, e con tutto questo non possiamo tenere le lacrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitre secoli dopo ch'ella è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un Greco, e poeta, e dei princi. pali, avendo veduto il fatto si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vinci. trici di un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d'Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta un' eccellentissima nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall'emulazione di tanta virtù dimostrata pur dianzi dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza, fossero perdute, non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell' animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl'ingegni, tornare a fare il suo canto; del quale io porto questo parere, che o fosse maraviglioso, o la fama di Simonide fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria. Lettera a Vincenzo Monti premessa alle edizioni di Roma e di Bologna.

(2) Di questa fama divulgata anticamente, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole ramontava, si udisse di mezzo all'Oceano uno stridore simile a quello che fanno i carboni accesi, o un ferro rovente, quando è tuffato nell' acqua, vedi CLEOMEDE, Circular. doctrin, de su blim., 1 2, c. 1, ed. Bake, Lugd. Bat. 1820, p. 109, seq.; STRABONE, 1. 3, ed. Amstel. 1707, p. 202; B. GIOVENALE, Sat. 14, V. 279; STAZIO,

Silv., 1. 2; GENETHL. LUCANI, V. 24 seqq., ed AuSONIO, Epist, 18, v. 2. FLORO, l. 2, c. 17, parlando delle cose fatte da Decimo Bruto in Portogallo: peragratoque victor Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non sine quodam sacrilegii metu, et horrore, deprehendit. Vedi ancora le note degli eruditi a TACITO, de Germ., c. 45.

(3) Mentre la notizia della rotondità della terra, ed altre simili appartenenti alla cosmografia, furono poco volgari, gli uomini ricercando quello che si facesse il sole nel tempo della notte, o qual fosse lo stato suo, fecero intorno a questo parecchie belle immaginazioni: e se molti pensarono che la sera il sole si spegnesse, e che la mattina si raccendesso, altri immaginarono che dal tramonto si riposasse e dor misse fino al giorno. STESICORO, ap. Athenæum, 1. 11; c. 38, ed. Schweigh., t. 4, p. 237; ANTIMACO, ap. eumd. 1. c., p. 238; ESCHILO, I. c., e più distintamente MINNERMO, poeta greco anti. chissimo, 1. c., cap. 39, p. 239, dice che il sole, dopo calato, si pone a giacere in un letto con. cavo, a uso di navicella, tutto d'oro, e così dormendo naviga per l'Oceano da ponente a levante. Pitea marsigliese, allegato da GEMINO, c. 5, in Petav. Uranol., ed. Amst. p. 13., e da Cosma, egiziano, Topogr, christian., 1. 2, ed. Montfauc., p. 149, racconta di non so quali barbari che 100strarono a esso Pitea il luogo dove il sole, secondo loro, si adagiava a dormire. E il Petrarca si accostò a queste tali opinioni volgari in quei versi, Canz. Nella stagion, st. 3.

Quando vede 'l pastor calare i raggi

Del gran pianeta al nido ov' egli alberga. Siccome in questi altri della medesima Canzone, st. 1, seguì la sentenza di quei filosofi che per virtù di raziocinio e di congettura indovinavano gli antipodi.

Nella stagion che 'l ciel rapido inchina
Verso occidente, e che 'l di nostro vola
A gente che di là forse l'aspetta.

Dove quel forse, che oggi non si potrebbe dire, fu sommamente poetico; perchè dava facoltà al lettore di rappresentarsi quella gente sconosciata a suo modo, o di averla in tutto per favolosa. donde si dee credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni vaghe e indeter. minate, che sono effetto principalissimo ed essenziale delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze del mondo.

(4) Di qui alla fine della stanza si ha riguardo alla congiuntura della morte del Tasso; accaduta in tempo che erano per incoronarlo poeta in Campidoglio.

(5) Si usa qui la licenza, usata da diversi autori antichi, di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia. Similmente nel nono Canto si seguita la tradizione volgare intorno agli amori infelici di Saffo poctessa, benchè il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo; l'una famosa per la sua lira, e l'altra per l'amore sfortunato di Faone; quella contemporanea d' Alceo, e questa più moderna.

(6) La stanchezza, il riposo e il silenzio che regnano nelle città, e più nelle campagne, sull'ora del mezzogiorno, rendettero quell' ora agli antichi misteriosa e secreta come quelle della notte, onde fu creduto che sul mezzodi più specialmente si facessero vedere o sentire gli Dei, le ninfe, i silvani, i fauni e le anime de' morti; come apparisce da TEOCRITO, Idyll., 1, v. 15, seqq.; LUCANO, 1. 3, v. 422, seqq.; FILOSTRATO Heroic., c. 1, 4, opp., ed. Olear., p. 671; PoR. FIRIO, de Antr. nymph., c. 26, seq.; SERVIO, ad Georg., 1. 4, v. 401, e dalla Vita di san Paolo primo eremita scritta da san GIROLAMO, C. 6, in Vit. Patr.; RosWEYD., l. 1, p. 18. Vedi ancora il MEURSIO, Auctar. philolog., c. 6, colle note del LAMI, opp. Maurs Florent., vol. 5, col. 733; il BARTH, Animadv. ad Stat., part. 2, p. 1081, e le cose disputate dai commentatori, e nominatamente dal Calmet, in proposito del demonio meridiano della Scrittura volgata, psal. go, v. 4. Circa all'opinione che le ninfe e le dee sull' ora del mezzogiorno si scendessero a lavare ne' fiumi e ne' fonti, vedi CALLIMACO, in lavacr. Pall., v. 71, seqq., e quanto propriamente a Diana, OVIDIO, Metam., 1. 3, v. 144, seqq.

(7) Egressusque Cain a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et ædificavit civitatem. GENES., c. 4, v. 16.

(8). È quasi superfluo ricordare che la California è posta nell'ultimo termine occidentale di terra ferma, Si tiene che i Californi sieno, tra le nazioni conosciute, la più lontana dalla civiltà, e la più indocile alla medesima.

(9) Plusieurs d'entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell' Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles asses tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il barone di MEYENDORFF, Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820, appresso il giornale des Savants, 1026, septembre, p. 518.

(0) Il signor Bothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli nltimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: ancor io provo pochi piaceri (godo ancor poco); nè mi lagno di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che cioè della noia. Questo non provo, era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perchè gli animali non s' annoino, e l'uomo sì la quale se fosse tautologia, tutte quelle conchiusioni dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologie.

(11) Pelliccia in figura di serpente, detta dal tremendo rettile di questo nome, nota alle donne gentili de' tempi nostri.

FINE DE' CANTI DI GIACOMO LEOPARDI,

Tratti dall' edizione fatta dall'autore, in Napoli, nel 1835.

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