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Piacquemi un largo faggio e un brun ci

presso.

Questo so ben; ma che sovente al varco Un Nume t'aspettò, pur mi rammento, Rispose, e che per te sonar fe' l'arco.

E stato fora allor parlar col vento Il parlarti de' campi, e morte stato Far un passo lontan dal tuo tormento.

Ma tutto de' tuoi giorni era il gran fato Seguir la tua giovine Maga, e meno Curar la vita, che lo starle a lato;

E dal torbido sempre, o dal sereno Lume degli occhi suoi pendendo, berne L'incendioso lor dolce veleno.

È vero, è ver; ma chi mirar l'eterne Può in man d'Amor terribili quadrella, E non alcuna in mezzo al cor tenerne; S'egli al fianco si pon d'una donzella Che ad una fronte, che qual astro raggia, Giunga in sè stessa ogni virtù più bella;

Che modesta ci sembri, e non selvaggia; Varia, nè mai volubile; che l'ore Viva tra i libri, e pur rimanga saggia?

Ora l'età, l'esperienza, e il core [to, Già stanco, ed il pensier, che ad altro è volDi me stesso potran farmi signore.

Sorrise allor sorriso tal, che al volto Senza tor maestà crebbe dolcezza, La casta Diva; e così dir l'ascolto:

Molti di me seguir punge vaghezza; Ma vidi ognor, come a poc' alme infondo Fiamma verace della mia bellezza.

Alcun mi segue, perchè scorge immondo Di vizi e di viltà quantunque ei mira : Questi non ama me, detesta il mondo.

Non ama me, chi del suo prence l'ira Contro destossi, ed in romita villa Esule volontario il piè ritira;

Ma la luce del trono, onde scintilla Su lui non balza, egli odia, odia l'aspetto Del felice rival che ne sfavilla.

Non chi la lontananza d'un soggetto Piange, che prima il fea contento e pago, E gli trasse partendo il cor del petto;

Ma d'un romito ciel si mostra vago, Per poter vagheggiar libero e oscuro Pinta nell'aere l'adorata imago.

Questi voti d'un cor, che non è puro, Odio; e di lui che in me cerca me stessa, Solo gli altari e i sagrifizi io curo.

Ma quanto a pochi è dagli Dei concessa Alma che sol di sè si nutre e pasce? Ch'ogni di che a lei spunta, e sempre dessa? [basce

Ch'ognor vive a sè cara? uom che le amDel rimorso, torcendo in sè la vista, Paventerà, questi per me non nasce.

Questi sol qualche ben nel vario acquista Tumulto, perchè in lui strugge e disperde La conoscenza di se stesso trista.

Ma su lucido colle, o per la verde
Notte d'un bosco, co' pensieri insieme
E co' suoi dolci sogni, in cui si sperde,
Passeggia il mio fedele; e duol nol
preme,
[na,
Se faccia d' uom non gli vien contro alcu-
Perché se stesso ritrovar non teme;

E nel silenzio della notte bruna
Estatiche fissar gode le ciglia
Nel tuo volto soave, o argentea Luna;

E per l'ampia degli astri aura famiglia Gode volar; di mondo in mondo passa, Passa di meraviglia in meraviglia.

Levando allor la fronte trista e bassa : Deh! grido, se ti piace il culto mio, E che pensi di me, saper mi lassa.

Il tuo culto sprezzar no, non poss' io: Ma scosso appena dalle gialle fronde Avrà l'autunno il lor ramo natio,

Che tu darai le spalle a queste sponde, E d'altro filo tesserai la vita Ove città sovrana esce dell' onde.

Ne però dal tuo core andra sbandita La voglia di tornare al bosco e al campo, Tosto che torni la stagion fiorita.

E se nol vieta di due ciglia il lampo, Se una dolce eloquenza non ti lega, Ti rivedrò; nè temo d'altro inciampo.

Ciò detto, in piè levossi; ed io : Deh!

spiega, [do. Se ancor mi s' apparecchia al core un darElla già mossa: Il labro tuo mi prega

Di quel che dubbio pende anco al mio sguardo.

DI CESARE ARICI.

....Tacitum vivit sub pectore vulnus. VIRG.

ALLA NOBIL DONNA

LA CONTESSA

PAOLINA TOSI

NATA DE MARCHESI BERGONZI DI PARMA. Padova, 20 luglio 1815.

Com'uom che, ignaro della via, si mette Per ignoto cammino alla ventura, Mesto in core e pensoso, a le mie belle Colline io dissi ed alla patria, addio; Perocchè forte ancor mi preme, e strugge In vano pianto la memoria e il fato Di Lei, che morte dispietata e fera Rapi nel fiore de' begli anni suoi. Ne de' congiunti, nè d'amici il dolce Mi rattenne desio, nè l'amor santo D'unico figlio; e non la chiara e bella Generosa amistà che a te mi strinse, Egregia donna: onor del mio paese, Amor de' tuoi; chè dove aspra ne incolga Una sciagura, anco la terra istessa Che ne die' vita, e i teneri parenti Testimonii del pianto, e i dolci amici, Crescon travaglio all' aflannato core. Invan l'austero di Sofia precetto O labbro che commiseri, all'afilitto Parla; e invan di ricordi e di parole Studia conforto ove la doglia abbondi; E il balsamo che dolce a le ferite Scende, e d'obblío le sparge e le rinserra, All' arbitrio del tempo è conceduto.

Me prima, errante pellegrino, accolse Tra i verdi lauri e il margine fiorito E il tumulto dell' onde e i sacri ulivi, Il buon padre Benáco. A'miei verd'anni, Seguendo il caro delle Muse invito, Stanza qui m'ebbi ; chè fra queste rive, Siccome udisti, germinò la prima Fronde ch'io cinsi poetando al crine. Per man della speranza e dell' amore

Tratto, qui venni allora, e tutto intorno
Rideami e lieto il cielo era, e la terra
Bellissima, e festivi i colli e l'acque,
E l'invocata Pallade i severi
Studi m' aprendo del viril suo petto,
Lena mi porse per seguir la dolce
Arte del canto e sue sante vestigia. [gia
Ma che non puote il tempo? E che non can-
Di lieto in triste nostra mente afilitta
Per travagli confusa? Oscuro il lago
Parvemi, e mesto il cielo, e lagrimoso
Deserto il colle, e nel silenzio muta
La sacra selva; e quando le notturne
Ore avvisando in flebile lamento,
Udii le squille ricordar la prece
Che devoto mortal debbe agli estinti,
Porsi l'orecchio, ahi lasso! e per l'immenso
Piano dell' acque, e per le valli e gli antri
E gli spechi romiti, un miserabile
Pianto levarsi da per tutto intesi.
Certo le Ninfe, del mio duol pictose,
Fean corrotto fra lor della perduta
Mia dolce Sposa : ricordando i giorni
Delle nozze festivi, in ch' io la trassi
A diportarsi per le ville opime
E le amene isolette, che la bella
Romana Lesbia e il tenero Catullo
Ebbero care. Ahimè, chi detto avria,
Che vedovo e solingo e abbandonato
Per l'orme istesse ancor, Ninfe pietose
Destin mi fosse di tornar fra voi?

Stretto d'amare rimembranze, il passo
Recai ver' Baldo, che dal verno irsute
Leva le fronti trarupate al cielo :
Pur com' uom cui desvia cura profonda
Dal retto intender della mente. E vidi
La non pria vista ancor, ma riverita
Dentro all' intimo petto, per le accolte
Arti felici e i liberali ingegni,
Regal Verona. Infra que' savii un seggio
Il mio buon genio apparecchiommi; ond'io
Fui degnato del Circo o del Liceo,
Cui già vide il Cantor del molle Riso,
E il divin Fracastoro. Al cader primo

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Della tacita sera ecco per l' ampie
Contrade ei calli obliqui in gran faccenda
Vociferando dileguarsi il popolo,
Ricovrando al suo tetto, e al convenuto
Cenno avviarsi timida e sospesa
La verginella, per udir parole
D'amore; ed io, cercando esca all'intenso
Dolor, ini volsi nel silenzio al loco
Infrequente ai Sepolcri, ove le mute
Ceneri e l'armi stanno de' potenti
Scaligeri. Nessuno ancor mi occorse
Monumento, che parli all'intelletto
Più di questo. La storia ivi sta scritta
Dei secoli feroci. Il brividio

[no

Della morte mi prese; e tutte a tondo Rigirando le sbarre onde si cinge, Dentro a quell'arche mi parean commosse Fremer l'ossa, e suonar l'arme, e rizzarsi Dalla cintola in su le ferree facce Dei sepolti, vegliando alla difesa Del monumento. Ahi, che dormian l'eterIneccittabil sonno, allor che ardito Stranier ruppe gli avelli, e razzolando Nella polve, monili e giaco e insegne Tolse agli scheltri, e il manto e le corone, E al pugno chiuso ardi 'nvolar la spada! E come l'un pensier dell' altro scoppia, Qui mi soccorse ancor, che nel ricinto Della città, devoto a la memoria Di Giulietta e Romeo, funebre un sasso Disventurato Amor pose, e la tarda Pietà d'avversi genitori. Ond' io Avidamente ne cercai per l'ombre Della notte, sostando ove d'antichi Tempi scorgea le venerande impronte; Ma nè più cippo alcun dell' infelice Coppia rammenta i nomi, nè delubro Più ne guarda le spoglie, e sol fra poche Alme cortesi la memoria vive Del fiero caso. Indarno ad ogni sasso Mi atterrai lagrimando; indarno a tanto Amor compiansi; perocché l'acerba Istoria ancor mi ragionava in mente Di quell'amico Fraticel. - Cercato A morte, e a strania terra esule uscito Romeo, pur io promisi in salvo addurgli Quando che fosse la sua donna, e trarla Dalle ingiuste del padre altere voglie: Però che a' miei ginocchi ammendue fêrsi Nel segreto gli amanti, e benedetti Nella sagramental pace gli strinsi. Onde per mio consiglio ad ogni sguardo Quella mesta si chiuse, e simulando Fiere angosce, per lagrime e digiuni

Svenne, e a tutti fu chiaro il suo morire;
Perch'io, d'alta virtù, nappo le porsi
Che assonna; e tutti della vita i moti
Sospende uffici e sensi. A a mia fede
Creduta ella, sostenne esser condotta
Nel sepolcro de' suoi : là dove, ahi lasso'
Dileguata la turba e sciolto il pianto,
Scender dovea per involarla, e meco
Rediviva condurre a securtade.

Volo fidato dell' esilio al loco
Tali avvisi recando indarno un messo;
Ma quello sventurato, come seppe
Per fama il caso, e tenne per dolore
Morta la donna, d'un cotal suo tosco
Fatto securo, disprezzó l'editto
Che il perseguia, tornando alla sua terra:
Non altro più che per vederla estinta
Ancora, e in un con ella seppellirsi.
Odi sventura! Ardito, e tutto chiuso
Nel suo dolor, venne furtivo all' arche
Abbandonate, e con ferrati ingegni
Tolse la sbarra, e dentro si sommerse
L'infelice; avvisando a fioco lume,
Che avea con seco in testimon dell' opra,
La poverella, le man giunte al petto,
E in bianco lino avvolta, in sulla polve
De' padri suoi. La vide, e senza mente
Stette immoto sovr' ella singhiozzando
E tremando; ma poi che venir meno
Parve il ginocchio, e al cor stringersi il

sangue,

Bevve il tosco mortale, abbandonandosi Sovr' all' amato corpo. E non e tutto Qui ancor, di che dolerti abbia, o cortese; Che il filtro, onde sopita ebbi la donna, Sciogliea già i sensi, e nel divincolarsi Quel misero, tra i freddi abbracciamenti Con raccapriccio fremere la vita

Senti per quelle membra, e tremar tutte, E scaldarsi a' suoi baci... Amor di tanto Fu lor benigno, e tanto ancor di vita Basto, per abbracciarsi, e saper come Amando ancora si moriano insieme, L'un di veleno, e l'altra di dolore. Tardi io sorvenni al monumento, ahi lasso! Piangendo io il dico, e tu piangendo scrivi

Del cor l'angoscia alleviar cercando Che mi stringea, dall'ombra e dai ricinti Corsi notturno al puro aperto cielo : Al gran ponte che l'Adige attraversa Sovra marmoree torri. Ivi il sereno Aere spirando, mi parea che tutto Fosse pace d'intorno: i campi, e l'onde; E la città soggetta, a cui dal balzo

D'oriente splendea la bianca luna.
Ma novello di patria ira intervenne
Fra quel silenzio alto argomento, e nuovo
Pianto; ch'ambo le rive, intra cui scende
Mormorando il sonante Adige altero,
Vid' io scomposte e desolate. E quale
Stupisce e geme, di lontan tornando,
Il montanar sul campo o ne la valle,
Se torrente improviso impeto fece;
Che traportati i limiti e confusi

:

De' poder' vede intorno e dove all' aura
Bionde sorgean le messi, esser palude
E steril rena e sparse arbori e massi :
A questa immago mi pungea la vista
Di que' lochi, cui lunga ha combattuto
Di servaggio vicenda aspra e di pugne.
Ne pur qui lieto è l'uom, nè fortunata
La terra; che talor sorge e s'avvalla
Per cumuli e per fosse, orrendo a dirsi!
Suona qui l'aere ancor di pianto e gridi;
Fuma ogni gleba ancor del sangue; e tratti
Dall' odio antico ond' arsero gli spirti
De' combattenti, per le gelid' ombre
Della notte ululando e lamentando
Vanno le pugne a rinnovar pei campi.
Più lungo indugio non sostenni; e volto
All'attica Vicenza, i digradanti

Berici colli, e il bello ordine e i fregi
Lodai del Circo Olimpico, e i palagi,
Onde il sovrano Architettor die nome
Alla sua patria e splendido decoro.
Del bel tempio, che al nome di Maria
Sorge sul colle e i cittadini affida,
Desio mi prese; e con immenso affetto
Del portico sacrato sottentrando
Gli archi, i riposi, e gli umili perdoni,
Corsi del monte in vetta, e vie più lieve
La riverenza mi rendea del loco
E il desiderio alla salita il passo.
Ivi all'amor degli Angeli, all' afflitta
E benedetta Madre, opre e pensieri
Purgando, anch'io di lagrime e di mirra
Sagrificio profersi; e il cor, sepolto
E assiderato in pria, libero farsi
Dal pianger molto o palpitar lo intesi.

E me l'Euganea terra infra gli illustri
Amici accolse; e come ognor più intenso
Il desiderio mi pungea dell alma
Vinegia, le correnti onde felici
Dell' umil Brenta, mi recar nell'alto
Di sedenti paludi e al mar sonante.
Come lungi apparir vidi fra l' acque
La gran cittade : Oh salve, io dissi, altero
Prodigio, o forte dell' adriaca Teti

Inclita figlia! Io di te molto udia
Memorar nell'infanzia: ed or le imprese
Tue prische in guerra. ei consoli, ei trionfi,
E la comprata libertà col sangue
De' tuoi figli; e lodarne udia le moli
Superbe e gli edificii e le barriere
Opposte all' iracondo Adria, che infranto
Mugge irato a' tuoi piedi e si ritira.
Ma ben laude maggior ti si convenne;
Che alle vinte dal ferro arti divine,
Esuli dalla Grecia, ospital sede
Nel tuo grembo porgesti ai prischi tempi :
Cui la barbarie perseguia crudele
Con gli incendii, con gli odii e le rapine;
Quindi leggi e costumi, e sensi e modi
Umani anco apprendesti, e libertade,
E del bello l' amor, quando per tutta
Italia era ignoranza e furor cieco.
E benché vinto abbia mortal fortuna
Quel temuto Lion, che sovra l'acque
Ruggia di Teti, riverito e grande,
Chiare vestigia ancor dalla tua prisca
Gloria discerno e la possanza avita.

E dell' arti maestre a me fu schiuso
Quivi il gran tempio, a cui veglia custode
Un caro amico (1), ed ammirai la scola
Dei veneti pennelli, e l'opre eterne
Del vivente Prasitele: chè quale
Lassù ministra il néttare ai celesti
Ebe danzante, anco qui spira e parla
Dall'italico marmo Ebe seconda :
Quella appunto, che in bronzo effigiata,
Tuoi lari adorna, ottima Tosi, e il dolce
Offre tripudio della vita e il riso
A' scelti amici che ti fan corona.
E qui siccome a pellegrin, cui duro
Fato costringe ed esular dal caro
Proprio paese, alcun porge la destra,
E ne storna il dolore, e nell' afllitta
Anima induce la speranza) un dolce (2)
Amico, un chiaro delle Muse alunno
E delle medic' arti, a me fu incontro;
E mi raccolse e salutò, siccome
Campato a morte, o naufrago sbattuto
Da gran tempesta, che raggiunga il lito
Fuor d'ogni speme. A salutar consigli
Il labbro aperse il mio buon Redi; e l'Arti
E le Grazie e le Muse, a cui solenni
In sua ricca magion sacrò gli altari,
M'aduno intorno ; ma salute increbbe

(1) I conte Leopoldo Cicognara, presidente della R. Accademia di Belle Arti.

(2) Il consigliere dott. Francesco Aglietti.

All' egro spirto, ed a' conforti il cuore
Non s' aprì, che ferito, e tutto chiuso
E suggellato me l'avea la morte.
Così forse dell' Itaco ramingo
Ti fu udito, cui Pallade condusse

Per fieri scogli, e rischi e casi avversi,

E

per lieti giardini e dilettose

Isole, di cui dolce un canto uscia

Ai naviganti di Sirene e Ninfe

Che legavano i sensi, e de' più schivi
Molcean l'affetto ; ed egli immoto e chiuso
A la dolcezza che movea dal lito
E agli incanti, in gran pensier sepolto
Di Penelope sua, guardava indarno
Dall' alta poppa all' Itaca lontana.

Me poscia il Brenta e l'antenorea terra
Rivide ancora, a satisfar la vista
Con la presenza degli illustri amici,
Di cui la fama m' avea detto i nomi
E la benevolenza e l'opre egregie.
E qui 'l sulfureo giogo, e le bollenti
Acque sotterra, e la vulcania fiamma
Maravigliando i' vidi, e più mi piacque
Quel si caro ad Amor queto ritiro
Del mio Petrarca; che l'error fuggendo
Del secol guasto, e le sventure e i casi,
Per aver pace là si trasse, e pianse
Di lei la morte, che beata e bella
Ed amorosa lo si udia dal cielo.
L'aspra ferita del suo cor piangendo,
Pietà mi vinse di me stesso, e rotto
Dalla fatica del cammin, la fresca
Ora del vespro e il solitario loco
Di posar mi fe' vago, e qui mi vinse
Placido sonno. Fra que' verdi allori
Onde il sacro si cinge ospite asilo,
Vera e presente mi apparia del Vate
L'ombra, e con questi detti a me fu sopra -
Figlio, che piangi omai? Le fatali onde
Sospir non varca di mortale o priego;
Ne fia morte per lagrime pietosa.
Non quadrilustre amor, non l'onorato
Verso in ch'io vivo fra i gentili ancora
Mi valse, ahimè, per ritornar fra vivi
Quella che tanto sopr' ogn' altra amai,
E compiè sua giornata innanzi sera.
Ma ben se contro morte inutil parve
Il furor sacro di Calliope e il canto,
L'itale Muse m' apprestâr robuste
Ali, per tormi alla nemica etade,
E ai falsi ingegni ; ond' io quasi colomba,
Uscii fra tristi augelli al ciel poggiando.
Cessa tu pur d'inutil pianto, e segui
Le mie vestigia che la gloria accenna:

Se pur vera di te la rinomanza

Mi presagi da tuoi verd' anni un dio.
Svegliati ai grandi esempli; e la viltade
Vinci, e la turpe indifferenza, avversa
A le bell' opre; e la ruina e il lutto
Canta all' Italia di Sionne (1), e il nuovo
Ilio verace che l'antico ha vinto.-
Questo mi disse, e sparve. E il generoso
Conforto in cor mi posi, e nella mente
Vigor nuovo mi corse e nuova lena;
Ma desto, ahi lasso! affisai gli occhi, e vidí
Sola dinanzi a me starsi una tomba.

IL CAMPO-SANTO

DI BRESCIA

DELLO STESSO.

A RODOLFO VANTINI

ARCHITETTO.

POICHÈ incessante ne richiama al passo Della vita l'amor de' cari estinti, Di cui si forte il desiderio punge E la memoria agli animi gentili; E poi che cosi rapidi e leggieri Volano i giorni e gli anni, e dispogliato Passa col Sol di giovinezza il fiore; Prima che non prevista e dolorosa Noi pure affondi la procella e perda Negli abissi del tempo irreparabile, Noi di speranze ancor lieti e d'affetti E nel vigor degli anni, a più tranquillo Securo porto ricogliam le vele. Che male a chi dal fascino lucente Di nostra vita non si toglie, e il guardo Non sospinge imperterrito alla meta, Incontro a cui, tremando e palpitando, Ciascuno è volto per cammin diverso; E vago del presente, oltre la tomba Altro non vede che paure e larve Di pianto, e fiere tenebre e terrori! Dal senso de' mortali e dalla nostra Condizion remote, ad altra vita Vivono l'alme di color, cui surse L'ultima sera, е il greve mortal pondo De le lor membra resero alla terra. Di là degli astri e i limiti lucenti Dell'universo, volano chiamate

(1) Arici scrisse la Gerusalemme distrutta, poema epico.

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