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Solo a quel ripensando,

Che tante volte ha me da me diviso,
Non so perch'io non muoio.
Sur un limbel di cuoio,

Prima di avvicinarsi a gli altrui menti,
Quel ferro almo e gentile

Giva più volte a ripulirsi i denti.
Poscia in un atto umile,

Quasi fanciul, che tema ha del pedante,
Tremando s'accostava al mio sembiante.

Or chi può dire in carte,
Siccome a me la pelle

Soavemente con le man stirassi?
E con che nobil arte

Di mezzo giorno a rimirar le stelle
Pel naso mi guidassi?
Perchè il piacer durassi,

A lento passo ivi di loco in loco,
E con l'arme sospesa,

Ad ogni pel tu ti fermavi un poco.
Ma alfin dell'alta impresa

Giacean sul volto mio, per tuo gran vanto,
Là sradicato un pel, qui rotto e infranto.

Ma pazzo è da legarsi
Chiunque tenta il calle

Di tue gran lodi, e ci riesce male.
Chi a te puote uguagliarsi

O in ispianar collina, o in aprir valle
Sul viso ad un mortale?
Deh! come al naturale,

Poi che parlar di guerra amavi molto,
Del campo o dell' assedio
Lasciavimi la carta impressa in volto!
E come poi rimedio

Di carta straccia, o ver di ragnateli
Ponevi al solco, ond' eran svelti i peli!

Ohimè, destino avaro!
Deh! perchè così presto,
Mio Sfregia, a viver col Burchiello andasti?
Quel tuo violin caro,

Che tutto il vicinato tenea desto,
Perchè non ne portasti?
Tu non la indovinasti;

Chè se Pluton t'udiva o Proserpína
Sonar si stranamente,

Qui facevi la barba domattina;
E disperatamente

Oggi gridando non andrebbon : Ahi!
Tanti tuoi sconsolati bottegai.

Canzon, s'egli ancor vive,
Vanne, e gli dì, che se ne muoia tosto;
Acciò che in vano io non t'abbia composto.

CAPITOLO

AL CANONICO AGUDIO.

CANONICO Voi siete il padre mio,
Voi siete quegli in cui unicamente
Mi resta a confidare dopo Dio;

Voi siete quegli che pietosamente
M'avete fino adesso mantenuto,
E non m'avete mai negato niente.
Io mi rimasi jeri sera muto
Per la vergogna del dovervi dire
Il tristo stato in cui sono caduto.

Dicolvi adesso; ch'io possa morire,
Se ora trovomi avere al mio comando
Un par di soldi sol, non che due lire!

Limosina di messe Dio sa quando Io ne potrò toccare, e non c'è un cane Che mi tolga al mio stato miserando.

La mia povera madre non ha pane, Se non da me, ed io non ho danaro Da mantenerla almeno per domane.

Se voi non move il mio tormento amaro, Non so dove mi volga, onde costretto Sarò dimani a vendere un caldaro.

Per colmo del destino maladetto, lo devo due zecchini al mio sartore Che già tre volte fu a trovarmi ai letto.

D'un altro ancor ne sono debitore
Al calzolaro, oltre quel poi che ho verso
Il capitano, debito maggiore.

Sono in un mare di miserie immerso,
Se voi non siete il banco che m'aita,
Or or mi do per affogato e perso.

Mai la mia bocca non sarà più ardita
Di nulla domandarvi da qui avanti,
Se andar me ne dovesse anco la vita.

Ma per ora movetevi a' miei pianti,
Abbiate or sol di me compassione,
Dieci zecchini datemi in contanti.

La casa vi darò per cauzione,
lo ve l'obbligherò per istromento,
E ve ne cederò ogni ragione.

Costi ne la Canonica sta drento
Il Bellotti, egli stendane il contratto,
Se siete di soccorrermi contento,

lo ve la do e dono ad ogni patto, Pur che quest'oggi verso me facciate Quello che tante volte avete fatto.

Mai non fui degno di tanta pietate, Mai non son stato in maggiore strettezza; Voi che il potete, fuora mi cavate.

Già che il cielo v' ha dato la ricchezza, Siatene liberale ad un meschino Che sta per impiccarsi a una cavezza.

Statevi certo che il Figliuol divino Vi renderà nel cielo un qualche giorno Ampissimo tesor per un quattrino.

Ma! e la mia piazza? la mia piazza un
corno!

Voi vi fate una piazza in paradiso
Col tormi a la miseria ed a lo scorno.

Voi me li fate avere in casa Riso
Prima di questa sera se potete,
Ch'io non oso venirvi innanzi al viso.

Entro ad un libro voi li riponete, Perché nessuno se ne avvegga, e quello In una carta poi lo ravvolgete;

Anzi lo assicurate col suggello.
O pur con uno spago, e dite poi
Che consegnino a me questo fardello.

Se voi mi fate questa grazia ancoi,
Non me la fate in altro modo; ch'io
Non oso presentarmi innanzi a voi.

S'io gli abbia di bisogno lo sa Dio;
Ma ho vergogna di venir l'eccesso
A predicarvi del bisogno mio.

Pan, vino, legna, riso e un po' di lesso
A mia madre bisogna ch'io mantenga;
E chi la serva ancor ci vuole adesso.

Deh per amor di Dio! pietà vi venga, Canonico, del mio dolente stato, E vostra man dall' opra non s' astenga.

Per carità, se non m'avete dato Un'altra volta quel ch'io vi cercai Per quel poema che vorrei stampato, Mel concedete adesso che ne ho assai Più di bisogno. Io chiesine diciotto, Ed otto solamente ne impetrai.

Una decina or aggiugnete a gli otto Per aiutar mia madre, chè i denari Non mangio, nè li gioco, nè li...

Bisogna bene che non abbia pari La mia necessità ch'oggi m' inspira Questi versi che sono singolari,

Poi che nessun poeta mai fu in ira Talmente a la fortuna, che cantasse I casi suoi con si dolente lira.

l'ho tutte le membra stanche e lasse, Poi che sta notte non dormii per fare Che al fin questo capitolo arrivasse;

Onde più non potendo, al mio pregare Qui termin pongo, e spero, e tengo fermo Che voi non mi vorrete sconsolare,

E che al mio male voi sarete schermo ; E che vedrò dieci zecchini in viso Venirmi oggi a sanare il core infermo, E che li troverò in casa Riso.

LO STUDIO

SERMONE.

UN di costor che per non esser sciocchi Su' libri stan co la sparuta faccia Logorandosi ognor cervello ed occhi,

Spesso mi dice: amico, omai ti piaccia Dirmi'l perchè, se così folto è 'l mondo, Poco è lo stuol che i dolci studi abbraccia.

Ha forse in questa etade a gire al fondo Il letterario onor che'l vulgo indotto Tien lontan da un ingegno alto e fecondo?

Io gli rispondo allora : esser si ghiotto Di libri non si vuol; chè più sovente

II

gran libro del mondo altrui fa dotto.

Leva le luci omai consunte e spente; Pon sul naso gli occhiali; e intorno guata, Guata che fa la sconsigliata gente.

Pârti che tra costor che all' impazzata Seguono i crocchi e l'oziose tresche Trovar debba il saper stanza adagiata?

O pur tra quei che de' clienti all' esche Uccellan solo; e se non fa a lor modo Anco al buon Giustinian dan de le pesche? O pur con quelli che tra 'l piscio e'l broInterpreti a rovescio d' Ipocrasso [do A la fortuna lor fissano il chiodo?

Sai chi sta ben con essi? il babbuasso: Ma un ingegno immortal dal loro albergo, Ah lontano per dio, rivolga il passo!

Forse d'amaro fiel gli scritti io vergo? Verghinsi pur gli scritti; a me che importa, Se all'onesto ed al ver non volto il tergo?

Vanne, Filosofia, povera e smorta; Ma fa che 'l tuo baston già mai non batta A lo sportel d'un' elevata porta.

Più non ritorna quell'età si fatta In cui le filosofiche bigonce La maestà de gli Alessandri han tratta.

[ce.

Chi t'inuggiola il cor con cose sconce, E scritte in uno stil degno di remi, Questi a libbre abbia l'or, non pure ad on

L'Aretino animale ognor si premi; Ma 'l Franco poverel che sa qualcosa Sol tanto aspetti il paretaio del Nemi.

Come adunque potranno e versi e prosa, O vuo' tu la spiantata o vuoi la ricca Gente rendere in un chiara e famosa ?

Io, con volto seren dice lo Sbricca, Convien che 'l tempo e le sostanze io libri Fra teatro e cortéo e bisca e cricca.

Soggiunge un altro e duopo è ch'io delibri

Di non beccarmi più 'l cervel cotanto ; Ch'io non ho pan s' io non rosecchio i libri.

Il grasso Sbricca, e quel meschino in tanto,

L'uno per poco aver, l'altro per troppo Lasciano i sacri studi ognor da canto.

O Italia, Italia! e perchè mai si zoppo Torna quel secol d'or, che ratto andonne Come un destrier che corra di galoppo?

Aranno ingordi mimi e le lor donne Quel che dier Mecenate e'l buono Augusto A que' già di saper ferme colonne ?

Chestrana infermità t'ha guasto il gusto, O più tosto il cervel, che l'or tu gitti Lunge cosi dall'uso tuo vetusto?

I giorni di Neron forse prescritti Acci pur anco il ciel, quando in teatro Si stavano i Roman si intenti e fitti;

E in vista del lor danno immenso ed atro A la voce s'udía d'un castroncello Tutto applaudire il popolo idolatro?

Ella mi fuma e rodemi, e arrovello Veggendo i ruspi omai gettarsi a carra Dietro al vile ragliar d'uno asinello :

E a chi si sta la fantasía bizzarra Stancando ognor co la sospesa penna Negarsi in fino un quattrinel per arra.

Manco male però che la cotenna Non grattan già per accattarsi un marco; Ma perchè un bel desio lor l' ale impenna.

Un bel desio di gir sublime e scarco Su per la via d'onor diritta e franca Che non adduce altrui di Lete al varco.

Ma che farà la già spossata e stanca Schiera gentil, se poi che 'l pan piatisce, Il desco de la gloria anco le manca?

Odi ser Busbaccon ch' ancor putisce
D'unto di buoi; e da lo aratol tratto
A la rustica treggia il cocchio unisce;

E' dice che coloro han ben del matto
Che per isquadernar qualche libraccio
E resto e saldo a' lor piaceri han fatto.

E'l ricco, e'l poverello, e'l popolaccio, E chi vien da le costole d'Adamo, Tutti di dirne mal tolgon s'impaccio :

L'uno dice che noi côlti a quell' amo Di sentirci lodar ben da parecchi, Ciò che più ne fa d'uopo andar lasciamo.

In sino a' pesciaiuoli, a ferravecchi, E que' che stanno a venderci la trippa Fannone un chiasso da intronar gli orecchi;

E la Cesca, e la Nencia, e la Filippa Sannoti dir, sbarbando la conocchia, Che dimagra il Poeta, e non istrippa.

Se tu ne vai per via, ognun t’adocchia; E fa motto al compagno, per ch'e' guati Uno che ha la pazzia per sua sirocchia.

E in fine odi gridar da tutti i lati, Che 'l volere studiar Lettere Umane Egli è a punto un mestier da sfaccendati; Che voglionsi lasciar cose si vane; E ch'a fama immortale e non oscura Dessi anteporre il procacciar del pane. Cosi contro di noi le bocche stura La turba di color che a' giorni nostri Hanno posta nel fango ogni lor cura.

A bestiacce malvage, a feri mostri Destina in tanto il volgo, e a gente trista I begli applausi e i lodatori inchiostri ;

A un bacchetton che pare un Santo in
vista,

E bindoli fa poi degni di forca
Con un empio pensar macchiavellista;

A un dottorello che le leggi storca, Onde poi coll' altrui se ne va in cocchio, E polli e starne a la sua mensa inforca;

Anzi a un tinto musin che, con un occhio Che mover non si può dentro a la biacca, L'anima infilza al guardator capocchio.

Quale stupor però s'ognun si stracca De lo studiar, poi che niun premio trova, E non ha chi lo stimi una patacca;

E che la bile che nel sen mi cova Bullichi al fin, e poi sciolta in rimbrotti, Qual da pentola umor trabocchi e piova?

Maraviglia ben è che sien sì cotti Alcuni di studiar, ben che la sorte [ti: Mai sempre incontro a lor le ciglia aggrot

E che ci sia un drappel cui sol conforte Il suo valore; ond' ei, come in un vallo Contro al furor del secol si tien forte;

Si che te, o Italia, che al tuo onor vassallo E in arme e in toga il mondo tutto avesti, Or non beffeggi il Prussïano e 'l Gallo.

Segui onorato stuol le vie ch' or pesti; E ad onta ancor de la spilorcia etate, Sostien tu Italia onde il natal traesti.

E tu platano illustre a le cui grate Ombre pur or novellamente io seggo, Per acquistarmi anch'io nome di vate,

Ergii tuoi rami ognor; chè s' io ben leggo Ne lo avvenir, de' valorosi Insubri, Sotto un astro men reo, la fama io veggo

Volar da gli Arimaspi a' liti Rubri.

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