PROCIDA. Della squilla al suono Che Vespero ci annunzia. ALIMO. E non potrebbe Nascer prima il tumulto? PROCIDA. Io forse ad arte Destarlo allor potrò, perchè nei prati Tutti appressa e confonde il di solenne. Ma in ogni evento, amici, a voi sia norma Quel tempio ch'io nomai: nella sua torre Ascosi un mio fedel: se cessa il vile Sonno di servitù, suona quell' ora: Non dará norma ad essa il sol che cade, Ma libertà che sorge : i sacri bronzi Son la tromba dei popoli : staranno Palmiero, Alimo ov'è più denso il volgo L'ire a guidarne ei moti: al suon prefisso Gualtier verrà coi suoi vassalli in arme. IMELDA. M'uccidi : Lo abbraccerò morendo; e sa ch'io sono Men rea che sventurata il mio germano, Se volò dalla polve in sen del vero. PROCIDA. Pietà non merti; io già t' amava, e fosti IMELDA. Odi le mie discolpe, e poi l'acciaro Lei che ti fu consorte... PROCIDA. Alma diletta... eri innocente... il vile... Parla del tuo delitto. Amar potesti Chi nascea d'Eriberto? IMELDA. Io non sapea Che figlio a lui Tancredi... PROCIDA. Era Francese. IMELDA. D'Italia io lo credea, che sul suo labbro PROCIDA. Un guelfo amar potesti E di natali incerti? anche l'orgoglio, Che da' bassi pensieri il cor difende, Toglie la servitù. IMELDA. Non ha la vera Gentilezza Tancredi ? ei prode in guerra PROCIDA. Quel vile che m' uccise il figlio, Che vendicar tentò l'onta materna, Mi rapi la consorte. IMELDA. Oh Dio! vi sono Altri orrori per me? PROCIDA. L'isola angusta, Già mio retaggio, e da cui trassi il nome, [ro. Venne Eriberto, ed io l'accolsi: il Franco IMELDA. Come rapirla osava? PROCIDA. Ah! degna pena Non ha per lui qui la giustizia, o l'ira. Ei partir finge: io colla mia consorte (Eri tu peso alla fedele ancella) Lo accompagno alla nave : a me sul volto Ei da quel bacio onde tradi l'Amico Il più reo dei mortali, e alfin si scioglie Dagl'iterati amplessi : è già la prora Volta alla Francia, abbandonato il lido. Sapea l'iniquo che pietosa cura Chiamar doveami altrove: ei scorge appeChe lungi io son, volgonsi indietro i remi [na Impetuosi come il suo delitto; IMELDA. Ora mi sento Del tuo perdono indegna. PROCIDA. Invano avrei Chiesta giustizia a Carlo, e fra' deserti Campi io m'ascosi in solitario albergo. Qui lo studio crudel del mio dolore Fu la vendetta, e mi occupò la mente La tirannia d'una feroce idea. Scorso non era un lustro, ed io sorgea Pria dell' aurora dall' ingrato letto; Ma sulle soglie del fidato ostello Sento ai miei piedi inciampo, e l'occhio abbasso... Oh Dio, che rimirai! la mia consorte Sul limitar caduta: errò più volte All' umil casa intorno, e dalla porta La respinse l'idea del suo rossore: Qui mancò per digiuno : i lumi appena Apri la sventurata e mi conobbe, Che colle mani si coprì la faccia Che le inondava il pianto, e non sofferse Gli amplessi del marito : io, lo confesso, Come se vi potesse esser delitto Ove manca il valore, o fosse vinto Nel delirio dei sensi, e parte a quelle Gioje profane la costretta avesse, Col sentimento d'un rancor segreto Abbracciai la rapita: ella sottratta S'era all'impuro, e fino a me giungea Mendicando la vita: una riposta Oscura stanza la dolente accolse: Qui si nascose a tutti, e a sè contese Dei cari figli il desiato aspetto. Povera madre! IMELDA. PROCIDA. I giorni afflitti ed egri Presto il dolor troncò. Vicina a morte Mi chiamò l'infelice, e fissi al suolo [te Quegli occhi onesti, che nel mio sembian Leggi. IMELDA. Non posso, chè la man mi trema, Ei lumi oscura il pianto. PROCIDA legge il foglio recatogli da « O mio Tancredi, << Chi mai brami in consorte! un grave fal« Nell'ora del rimorso al figlio ascose [lo Il paterno rossore: il tuo desio «Mi sforza a palesarlo hai con Imelda « Comun la madre. " IMELDA. : Oh Dio, che ascolto! io manco. PROCIDA. O sventurata figlia ! ella in Tancredi : IMELDA. Ah, tu mi guardi E piangi! almen questa dolcezza io sento Nell' orror del mio stato: odiar non puoi Donna tanto infelice: ultimo dono Chieggo la man paterna, e più non s'alzi Per maledirmi. PROCIDA. A questo seno, o figlia, Si pianga insieme: io non saprei chi resti Più misero fra noi; si tiri un velo Sulla colpa, ove ignara... IMELDA. Il Cielo offese Imelda allora che il consorte elesse Senza il voler del padre, e in questo abisso Precipitò d'orrori: a tutti ascoso Resti l'atroce evento, e un sacro asilo M'abbia lungi di qui: sento che solo Esser maggiore delle mie sventure Può la pietà di Dio : più non ho padre, Ne figlio, nè marito (oh Ciel, che dissi! Or m'è fratello) ed io lo so, non deggio Chieder di rivedergli or viva io perdo Quanto ad altre potea toglier la morte. Prostrata all' ara io chiederò l'obblio D'ogni cosa diletta: ah, mai non ebbi Vera gioja quaggiù; ma se ritorna Col desio sul passato il mio pensiero, : ATTO QUINTO. SCENA PRIMA. PALMIERO, CORRADO e gli altri congiurati, tranne GUALTIERO e ALIMO, cautamente ragionano in disparte fra loro, mentre gente passeggia, come in occasione di festa popolare, sopra un prato pieno di aranci e di mirti, sul quale sorge una chiesa con un campanile separato. Questa chiesa era dedicata allo Spirito Santo; e siccome non è lontana che 50o passi da Palermo, la scena deve rappresentare questa città e il mare. Vi sian pure in qualche distanza dei colli, e sopra uno di essi sorga il castello di Procida. PALMIERO. UDITE io corsi in ogni loco, e diedi |