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PROCIDA.

Della squilla al suono

Che Vespero ci annunzia.

ALIMO.

E non potrebbe

Nascer prima il tumulto?

PROCIDA.

Io forse ad arte Destarlo allor potrò, perchè nei prati Tutti appressa e confonde il di solenne. Ma in ogni evento, amici, a voi sia norma Quel tempio ch'io nomai: nella sua torre Ascosi un mio fedel: se cessa il vile Sonno di servitù, suona quell' ora: Non dará norma ad essa il sol che cade, Ma libertà che sorge : i sacri bronzi Son la tromba dei popoli : staranno Palmiero, Alimo ov'è più denso il volgo L'ire a guidarne ei moti: al suon prefisso Gualtier verrà coi suoi vassalli in arme.

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IMELDA.

M'uccidi :

Lo abbraccerò morendo; e sa ch'io sono Men rea che sventurata il mio germano, Se volò dalla polve in sen del vero.

PROCIDA.

Pietà non merti; io già t' amava, e fosti
Tu la figlia diletta in cui mi piacqui,
E ti diedi piangendo un lungo addio
Allorchè il voto della mia vendetta
Mi fe' gir pellegrino, e avea nell' alma,
Figlio della sventura, un gran pensiero,
La libertà d'Italia; e quando sparsi
Della mia morte il grido, io nella mente
Fisa l'imago avea del tuo dolore
All'amara novella; e tu, crudele,
Non aspettavi il padre, e dell' esilio
Tu non contavi sospirando i giorni;
Ad ogni vela che sorgea dall' onde
Tremo l'empia sorella, e fralle braccia
Della prole d'un Franco, era alla figlia
Un lieto sogno la paterna morte.

IMELDA.

Odi le mie discolpe, e poi l'acciaro
In questo sen rivolgi, e più non sia
Vinta dalla pietà la man paterna. -
Qui mi lasciasti orfana e sola; all' alma
Io credea che bastasse il suo dolore:
E pietà di sorella, e amor di figlia
Dalla possanza di funesto affetto
Difendermi potesse : io non sapea,
Misera! che d'un cor tenero e mesto
Dolce necessità fu sempre amore.
Se per prova lo intendi, e cara avesti

Lei che ti fu consorte...

PROCIDA.

Alma diletta... eri innocente... il vile...

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Parla del tuo delitto. Amar potesti

Chi nascea d'Eriberto?

IMELDA.

Io non sapea

Che figlio a lui Tancredi...

PROCIDA.

Era Francese.

IMELDA.

D'Italia io lo credea, che sul suo labbro
Dolce risuona la gentil favella
Che illustrò la Sicilia, ed in quel volto
Nulla ha del padre.

PROCIDA.

Un guelfo amar potesti E di natali incerti? anche l'orgoglio, Che da' bassi pensieri il cor difende, Toglie la servitù.

IMELDA.

Non ha la vera

Gentilezza Tancredi ? ei prode in guerra
E mansueto in pace: ei qui non venne
Figlio d'Italia ad oltraggiar la madre,
Che tale ei la credea: la man ch'è pura
Dall' empie stragi il mio pudor difese
Dai barbarici oltraggi; al greco lido
La gloria lo chiamò, ma quel desio
Alla dolcezza d'un pensier benigno
Cede nel pio sovente, e disse: Imelda
Oh perchè sembra angusto il suol natio
Al pellegrin d'un giorno, e va nel sangue
D'altri mortali a conquistar la tomba!
Chi non l'avrebbe amato? Il tuo perdono,
Padre, sperar non posso? oh se vivesse
La madre mia, nasconderei la faccia
Nel sen che mi nutri!

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PROCIDA.

Quel vile che m' uccise il figlio, Che vendicar tentò l'onta materna, Mi rapi la consorte.

IMELDA.

Oh Dio! vi sono

Altri orrori per me?

PROCIDA.

L'isola angusta,

Già mio retaggio, e da cui trassi il nome,
Piacque lasciarmi a Carlo : io fra gli affetti
Di marito e di padre, e fra le sante
Domestiche dolcezze (ahi tanto bene
Sol conoscer si può quando si perde!)
Io la patria obbliai, come lo schiavo
Esser padre potesse impunemente.
Odio pei Franchi, e per la Puglia avea
L'ira superba che si fa disprezzo;
Sicchè sdegnoso, dall' opposto lido
Onde Napoli scorgi, io mai sull'onde
Non inviai lo sguardo, e senza orrore
Quel flutto che fra Carlo e me fremea
Rimirar non potei: da quella parte
La sventura mi venne, e nel mio tetto
Lungamente s'assise. Ad Eriberto
Piacque tua madre allor che ai pie di Carlo
Umil prostrossi, e m'ottenea perdono,
Ch'io mai non chiesi all'oppressor stranie-
Nell'isola fatale ospite infido

[ro.

Venne Eriberto, ed io l'accolsi: il Franco
Di se presume, e alle virtù non crede
D'itala donna; ma tua madre avea
Nelle vaghe sembianze un pudor santo
Ond'è timido il vizio, e un basso alletto
Non dura in faccia alla beltà celeste.

IMELDA.

Come rapirla osava?

PROCIDA.

Ah! degna pena Non ha per lui qui la giustizia, o l'ira. Ei partir finge: io colla mia consorte (Eri tu peso alla fedele ancella) Lo accompagno alla nave : a me sul volto Ei da quel bacio onde tradi l'Amico Il più reo dei mortali, e alfin si scioglie Dagl'iterati amplessi : è già la prora Volta alla Francia, abbandonato il lido. Sapea l'iniquo che pietosa cura Chiamar doveami altrove: ei scorge appeChe lungi io son, volgonsi indietro i remi

[na

Impetuosi come il suo delitto;
Balza sul lido, e coi ladron di Francia;
Ospiti miei, la desolata afferra :
Misero me! della rapita il grido
Odo, m'affretto, e non per darle aita,
Ma per veder l'ingiuria, a tempo io giungo.
Che facessi non so: pur mi sovviene
Che, spinto dal dolore, in alto esposi
Te pargoletta, e ti mirò la madre
Che nell'onde tentò precipitarsi...
E per chi, sventurata '

IMELDA.

Ora mi sento

Del tuo perdono indegna.

PROCIDA.

Invano avrei Chiesta giustizia a Carlo, e fra' deserti Campi io m'ascosi in solitario albergo. Qui lo studio crudel del mio dolore Fu la vendetta, e mi occupò la mente La tirannia d'una feroce idea. Scorso non era un lustro, ed io sorgea Pria dell' aurora dall' ingrato letto; Ma sulle soglie del fidato ostello Sento ai miei piedi inciampo, e l'occhio abbasso...

Oh Dio, che rimirai! la mia consorte Sul limitar caduta: errò più volte All' umil casa intorno, e dalla porta La respinse l'idea del suo rossore: Qui mancò per digiuno : i lumi appena Apri la sventurata e mi conobbe, Che colle mani si coprì la faccia Che le inondava il pianto, e non sofferse Gli amplessi del marito : io, lo confesso, Come se vi potesse esser delitto Ove manca il valore, o fosse vinto Nel delirio dei sensi, e parte a quelle Gioje profane la costretta avesse, Col sentimento d'un rancor segreto Abbracciai la rapita: ella sottratta S'era all'impuro, e fino a me giungea Mendicando la vita: una riposta Oscura stanza la dolente accolse: Qui si nascose a tutti, e a sè contese Dei cari figli il desiato aspetto.

Povera madre!

IMELDA.

PROCIDA.

I giorni afflitti ed egri Presto il dolor troncò. Vicina a morte Mi chiamò l'infelice, e fissi al suolo [te Quegli occhi onesti, che nel mio sembian

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Leggi.

IMELDA.

Non posso, chè la man mi trema, Ei lumi oscura il pianto.

PROCIDA legge il foglio recatogli da
Corrado.

« O mio Tancredi, << Chi mai brami in consorte! un grave fal« Nell'ora del rimorso al figlio ascose [lo Il paterno rossore: il tuo desio «Mi sforza a palesarlo hai con Imelda « Comun la madre. "

IMELDA.

:

Oh Dio, che ascolto! io manco.

PROCIDA.

O sventurata figlia ! ella in Tancredi
Il suo fratello amò; se nelle vene
Non gli correa che della Francia il sangue,
Abborrito l'avrebbe ahi! sol col mio
Confonderlo poteva un gran delitto :
Apri gli occhi, infelice, e senti il pianto
Che su te versa il padre.

:

IMELDA.

Ah, tu mi guardi E piangi! almen questa dolcezza io sento Nell' orror del mio stato: odiar non puoi Donna tanto infelice: ultimo dono Chieggo la man paterna, e più non s'alzi Per maledirmi.

PROCIDA.

A questo seno, o figlia, Si pianga insieme: io non saprei chi resti Più misero fra noi; si tiri un velo Sulla colpa, ove ignara...

IMELDA.

Il Cielo offese Imelda allora che il consorte elesse Senza il voler del padre, e in questo abisso Precipitò d'orrori: a tutti ascoso Resti l'atroce evento, e un sacro asilo M'abbia lungi di qui: sento che solo Esser maggiore delle mie sventure Può la pietà di Dio : più non ho padre, Ne figlio, nè marito (oh Ciel, che dissi! Or m'è fratello) ed io lo so, non deggio Chieder di rivedergli or viva io perdo Quanto ad altre potea toglier la morte. Prostrata all' ara io chiederò l'obblio D'ogni cosa diletta: ah, mai non ebbi Vera gioja quaggiù; ma se ritorna Col desio sul passato il mio pensiero,

:

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

PALMIERO, CORRADO e gli altri congiurati, tranne GUALTIERO e ALIMO, cautamente ragionano in disparte fra loro, mentre gente passeggia, come in occasione di festa popolare, sopra un prato pieno di aranci e di mirti, sul quale sorge una chiesa con un campanile separato. Questa chiesa era dedicata allo Spirito Santo; e siccome non è lontana che 50o passi da Palermo, la scena deve rappresentare questa città e il mare. Vi sian pure in qualche distanza dei colli, e sopra uno di essi sorga il castello di Procida.

PALMIERO.

UDITE io corsi in ogni loco, e diedi
Alimenti al furor; contava offese,
Libidini, rapine, ed ogni lutto
Delle vedove case: era nel volgo
Mestissimo silenzio : or gli succede
Un'ira piena di speranze, uguale
Al cupo, al sordo mormorio dell'onde
Forier della procella. E qui si cerchi
Un principio alla strage : or lieto io veggo

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