Fede n' suoi detti, o Carlo? E non ricordi Che Aragonese ell' è, che nelle vene Le scorre il sangue di quel vil Fernando Che il tuo regno usurpava, e che sottrasse Una morte opportuna alla vendetta Dei popoli e di te? Piange sull' avo Cinta di nero ammanto: inver fu pio Lo spurio che serbò col sangue il regno, Che la madre gli diè col vitupero! Figlia è d'Alfonso, quel codardo Alfonso Che prode si credea : non v'è mestieri Dell'armi tue; già dai rimorsi è vinto.
Ah vile! ah mostro! Qual sia la sorte che al mio sposo appresti, La tua pietà m'annunzia.
Morano i Franchi, e mora
L'empio che li chiamò! Morte al tiranno, A Lodovico morte!
Che sai gli abissi ricoprir di fiori!
Albergo delle frodi! È qui periglio
E giustizia e clemenza, e tu mi rendi
Crudel come il sospetto.
ALL' empie mani del tiranno astuto, Sia giustizia o pietade, alfin sei tolta; E se Carlo ti rende al tuo consorte, Più commosso da me, che persuaso, Ne incolpa i dubbi in cui lo avvolge il Moro. Chi rintraccia la via de' suoi disegni ? Di quel malvagio il consiglier crudele Nelle stanze ove alberga il tuo consorte Al delitto venía, non all' aíta, Collo stuol che menti le nostre insegne. Ma dell'armi cangiate il vile inganno Il Moro ascrive a Bisignano ucciso: Certo ei n'è reo; rimane occulto il resto, E scevrarsi non può dal falso il vero, Perchè, uguale alla notte, il tuo nemico Dona a diverse cose un solo aspetto.
Rimirarlo non oso: ah, della colpa Quale il terror sarà, se io mi sgomento Sol perchè rea mi crede! O signor mio...
E favellarmi ardisci ? Ah! nell' amaro Calice del dolore omai non resta Una stilla per me, che il sorso estremo Tu porgesti al mio labbro!
Dubitar di chi t' ama, aver non posso Nella valle del pianto altra sventura. Odimi, e pace avrai.
Quando la terra Sarà resa alla terra, e della vita Il sogno cesserà che mi tormenta, Io nella polve avrò dimora e pace.
Ah! fra le braccia mie...
A liberarmi dall' ingrato amplesso !
Taci, crudele; Non chiamarmi così: tu mi rammenti Quanto ho perduto. Ah! che a me questa
Sembrò parola che dal ciel scendesse Per calmarmi ogni duol! ne avrei voluto Esser felice. Io mi dicea sovente, Ci uni prima l'amor, poi la sventura Strinse di più quel nodo; e se fortuna Non mi serbava alle miserie estreme, Chi tanto mi ama, io non saprei... Potesti Tradire un infelice?
E tu mi credi Vile e atroce così? Ma pur non deggio Discendere a scolparmi. Allor che il piede A queste stanze io mossi, uscirne io vidi La consorte del Moro, e ben conobbi Al gaudio atroce della mia nemica, Ch' ella nell' egro petto i suoi veleni Allor versati avea. Tutta riprendo Io la mia dignità quando si vuole Abbassarmi cosi. D' un re la figlia,
Un' Isabella d'Aragona' afferma Sull' onor suo che rea non è; ciò basti Ad un consorte che di lei sia degno.
Ebben, ti crederò. La notte, il loco, Pur chi volger tentava al sen di Carlo Quell' empia mano che t'offri per guida, Obblierò ma tu speravi, o donna, Che me cugino suo degnato avrebbe Di sua presenza il re; perchè cercasti Un segreto colloquio? A che furtiva Dal mio fianco involarti? ISABELLA.
Un' ora sola, Un solo istante ch'io tardato avessi A ricovrare il tuo capo diletto
Sotto lo scudo della sua clemenza Mi parve un gran periglio. E sai qual gente Carlo ha nelle sue squadre, e come a molti L'empio fu largo di promesse e d'oro. Tutto è pel Moro il tempo, e come l'onda Incalza l'onda, nella mente cupa Un pensiero a un pensier tosto succede, Scaltro, atroce, improvviso : ei mai non [sonno Finchè un' opra non sia; mai chiude il Gli occhi di sangue che miraro asciutti Il tuo lungo dolor; sempre ha la notte Opportuna alle insidie, e le ricopre Tanto all' occhio mortal, che ancor ne! giorno
L'amo, e l'amai, signore; ei mi commise Le cure dello stato, e da felici Ozi mi trasse di miglior fortuna Nella discorde reggia; e « siedi » ei disse « Al fianco mio sul trono, e mi difendi « Dalle materne insidie. » Io col mio senno Ressi gli anni inesperti, e qui lo feci Venerato e sicuro, e tanto peso Deposto avrei se dell' iniqua moglie Vil mancipio ei non fosse: a ciò mi strinse La fe che ti giurai. Terrían Milano Gli Aragonesi, e tu nemici avresti Ove conti alleati.
(A Galeazzo.)
Ora che teco
Isabella non è, figlio diletto
Qual sia costui; tu nol conosci ancora? A magnanima impresa esser ti credi Nell'Italia chiamato, e il tuo pensiero Solo a Napoli è volto. A lui non basta Su quella stirpe che cotanto abborre, Nè la tua gloria, nè la sua vendetta. Il fato mio più de' suoi voti è tardo. L'occulte forze di mortal veleno Che il perfido mi die, vincer potrebbe La giovinezza mia; d'insolit' armi Nel subito terror prepara il vile Un secondo delitto, e tu combatti Solo per lui. Spada di Dio ti credi, Sei nelle man del Moro. Italia ei vuole Tanto occupata delle sue sventure, Che a me non volga un guardo, e neppur Della vittima sua la debil voce [s' oda D'un popolo nel pianto. E lo consenti, E sei Francese e re? Questo perenne Artefice di frodi, ei solo ordía Il notturno tumulto, onde dovea Scender in mezzo a la licenza e l'ira Sull' egro petto del nipote inerme Non visto il ferro di venal soldato. A te l'infamia, il trono a lui, la morte A me; chè la mia tomba all'empio è trono.
Io non rispondo alle calunnie, e chiedi Della trama ragion all'empia moglie : Da testimone non sospetto avrai Della innocenza mia certezza intera. [ma. Vedrai se io bramo il regno; ei pur nol bra- Di se l'impero alla consorte ei diede, Darglielo or vuol dei popoli : ma in tanto
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