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Fuggiamo, involati,

Mio dolce amor!
E mentre l'animo
D' ognuno s' era
Commosso al sonito
Della preghiera,
Ei solo fremere
Cupo dal cor?
Fuggiamo, iuvolati,

Mio dolce amor!

Non è fantasima

Di mente accesa;
Furtivo e torbido
Uscir di chiesa
Il vidi, e tacito
Seguirne ognor.
Fuggiamo, involati,

Mio dolce amor!
Caro, non chiedermi
Chi il veglio sia;
Ha un nome cognito

All' alma mia,

Ma per esprimerlo
Non ho vigor.
Fuggiamo, involati,

Mio dolce amor!
Fuggiam dov' offrono
Secura vita

Tra i verdi margini
Baia romita,
E l'ampia Napoli
Col suo romor.
Fuggiamo, involati,

Mio dolce amor!
O se più splendida
Ami dimora,
Moviamo al Tevere
Che l'arti onora,
E del Pontefice
Sarai cantor.
Fuggiamo, involati,

Mio dolce amor!

Che se lo strepito

Civil t'affanna,

Ne sia ricovero

Una capanna,
E fonti ed alberi
Nostri tesor.
Fuggiamo, involati,

Mio dolce amor!

Se fido e incolume

Mi sei vicino,
I nudi vertici

Dell' Apennino

Arriderannomi
Sparsi di fior.
Fuggiamo, involati,
Mio dolce amor!

IV.

Vi riveggo, vi conosco,
O paterne antiche mura!
Ma non era il ciel si fosco,
L'onda torbida ed oscura
Non lagnavasi così,
Allor ch' ei con me parti.

Parti, è vero, ma promise
Di tornar fra pochi giorni,
E una veste mi commise
Ch'oltre il solito m' adorni.
Or di voi chi a me la da?
Presso è l'ora, ed ei verrà!

Ma che veggo? Sul canale
Una bara, e cappe, e croci?
Come? Ascendon per le scale?
Quanti lumi, e quante voci !
Miserere! udite, ohimè!
Cantan tutti... e il morto chi è?

Nessun parla. Cosa strana!
Padre mio, tu dimmi almeno
Perchè suona la campana...
Piangi? Oh vieni sul mio seno.
Si, che m' ami! Io lieta son
Del tuo pianto e del perdon.

Hai tu alfine perdonato
Anche ad esso, ond' io non muoia?
Vuoi vedermelo da lato,

E bearti alla mia gioia?
Ma le nozze si faran,
Padre mio, di qua lontan.

Là tra i fiori, nel boschetto
Ove canta il rosignuolo,
Quivi è un rustico tempietto :
Quello è il loco?... Oh acerbo duolo!
Un pugnale? Udite? Ohimè!
Miserere... E il morto chi è?

Ei mi chiama, è alfin tornato; Delle nozze è l'ora giunta Presto ancelle! Il vel rosato, E la veste in or trapunta... Lassa me! Mortale è il duol! Langue il giorno, e ondeggia il suoi. Via quel serto! Nol vogl' io! Aspettate ch' io mi desti. Oh! si allora ei sarà mio, E fra i cantici celesti

In eterno l'udirò!

Diede un gemito e spirò.

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Ove sei? qual contrada t'asconde? Ad ogni ora domanda il primier. Mentre l'altro: ove sei? gli risponde, E s'invia per opposto sentier.

L'un talvolta per calle romito Fende l'aure che l' altro fende; Mentre l'altro, di là già partito, Cerca il primo dov' ei più non è.

Nell' assiduo lor volo anelanti, Sempre sordi agl'inviti d'amor, Obliár la dolcezza dei canti, Non curar le fraganze dei fior.

Molli prati di fresca verdura, Cieli aperti al più vivido sol, Sono indarno a cessar quella cura, A frenar quell' indomito vol.

Un istante scontrarci, un accento Susurrarci, un sorriso cambiar !... Una vita di tanto tormento Tal mercede non deve sperar? Sciagurati! Forzaro co' voti Il prudente rigor del destin. Meglio ad essi lo starsene ignoti, E sperando fornire il cammin!

Si scontraro, ma indarno alla speme Si conobber, ma sol nei sospir; Uno sguardo cambiarono insieme, Susurraro un accento, e morir!

Troppo lunge dal voto mortale Nasce il gaudio che il puote calmar ; Spirti audaci non reggon sull' ale Giunti al fine dell' arduo volar.

Arde il core, ma tarda è la mente; Non risponde la lena al desir: A cercar il bel fior d'oriente D'occidente egli è indarno partir.

IL MORO.

I.

- ODI, o Moro: di zecchini Avrai copia ad ogni inchiesta, Ma l'ingegno e il cor mi presta E sii fido esplorator.

Genovesi e Narentini Vinse Foscari, ma invano; Ei d'Annina ebbe la mano, Ma non seppe averne il cor.

Tra le giovani vezzose, Che trascorron la laguna, Cerco invan chioma più bruna, O sorriso più gentil.

È l'invidia delle spose,
È dei giovani il desio;
Ma non cura l'amor mio:

Grande a tutti, a lei son vil. -
Tal parlava quell' altero
Di gran flotte capitano,
Che d'Annina ebbe la mano
Ma non seppe averne il cor.

E ai comandi avvezzo il Nero Incrocio le braccia al petto: Basta, disse, un vostro detto, Schiavo io sono, e voi signor.

II.

Soletta intanto nelle sue stanze Nel tedio Annina sepolta sta; Fugge i teatri, sdegna le danze, Raro ai conviti veder si fa.

Ha spesso gli occhi sul pavimento,
O li solleva verso un altar;
E l'angiol sembra del pentimento,
Quantunque ignori che sia peccar.

E qual da valle cannosa e bassa
Vapor s'addensa sopra vapor,
A ciascun giorno che per lei passa
Quell' aspro tedio si fa maggior.

L'occulta pena che la divora
Nascosa a tutti vorria tener;
Ha seco invece chi assiduo esplora
Tutti i suoi moti, fino ai pensier.

Incubo, o quale più grave pondo
Da mente umana s'immaginò,
A quell'incarco riman secondo
Che sull'ingenuo cor s'aggravò.
Se un roseo sogno l'alma disvia
Dal noto calle de' suoi sospir,
Un bieco sguardo trova per via
Che la rispinge nel suo martir.

A rota pari che mai non cessa
Intorno al perno di circolar,
Quell' aspra doglia sopra sè stessa
Gira, rigira senza posar.

Passi la luna per le sue sale, Crosci la pioggia nel suo cortil, Mestizia in volto le siede uguale, Ha vita o noia sempre simil.

Musica dolce per lei non suona, Freschezza il vespro per lei non ha, Non può di fiori farsi corona, Langne ignorata la sua beltà.

Che giova il sole, che allegra il mondo, A chi di nebbia ricinto ha il cor? Non può il tenace pensier profondo Seguir la varia sorte dei fior.

III.

E lo abborre ? Quell' alma innocente Non abborre, non sdegna persona. Esser nata per altri si sente, Con nessuno però ne ragiona; A sè stessa mistero ne fa, Fors' ancor ch'ella stessa nol sa.

Visto mai non le venne quell'uno,
Cui se i cieli le avesser concesso,
Il suo cuore di gaudii digiuno
Saria sorto a gioire con esso;
Ma quell' uno non mai si mostrò,
O fu sogno che ratto passò.

E, destata, da canto si vide
Quell' eterno vegliante sospetto,
Che ogni germe di calma le uccide,
Che le conta i risalti del petto,
E nel cui malaccorto pensier
Non è scelta l'amor ma dover;

[chi,

Che a guardar d'ogni parte ha cent' oc-
Per udir cento orecchi possiede,
Che ragion d'una molla che scocchi,
D'una chiave che scorra richiede;
E se nulla trovato gli vien,
Più infelice e tradito si tien.

D'un devoto ministro al consiglio
Pur talvolta sommessa ricorse;
Le fer velo le lagrime al ciglio,
Di parlar lungamente stè in forse :
Quando alfin singhiozzando parlò,
Scusò gli altri, e sè stessa accusò.

E del pio consiglier la risposta!
Pazienza, si fu, pazienza;
Dall' altar non tenersi discosta,
Elemosina, prece, astinenza :
Qui non ha che cimenti virtù,
La ghirlanda apprestata è lassù.

IV.

Stizzita alquanto proruppe un giorno : Che vuol quel Moro che ho sempre intorno? Forse che starmi così da presso Dal mio signore gli fu commesso? Vergogna! sempre cacciarmi innante, Pien di sospetto, quel vil sembiante. E si dicendo, la prima volta Del gentil sangue l'impeto ascolta. Ma il Moro afflitto tra sè favella: Perchè sdegnata non sei men bella! Oh se sapessi la doglia mia, E con qual core l'occhio ti spia: Men forse irata mi guateresti. Che dico? in odio vie più m' avresti.

Ah! m'odia, e possa l'ingiusto sdegno L'ardir celarti del servo indegno.

Odiami! e spesso, sia pur per ira, Su me le ardenti pupille gira.

Pur che mi parli, sgrida, minaccia; Pur ch'io ritorni, da te mi scaccia.

Ah! del tuo fiero crudel signore Già non mi tiene schiavo il timore.

Per te dei climi donde fui tratto Non ho più brama, non vo' riscatto. Colà non spira tra gli arboscelli molle effluvio de' tuoi capelli. Della capanna sull'uscio assiso Vedrei le stelle, ma no il tuo viso.

Udrei il susurro delle foreste,
Ma non già quello della tua veste.
Tronco scavato, di belve nido,
Sarei tornando sul patrio lido.

Dal tuo verone sul mar sporgente
Se talor guati l'onda fuggente,
Nascosto abbasso dal margo io miro
L'ombra del caro volto, e sospiro.

E oh! quante volte, vista ritrarti,
Tuffarmi volli per abbracciarti,

E fra quell' acque qualche conforto Trovar al cruccio che dentro porto. Oh! se sapessi tetri, gelosi Pensier ch'io covo mentre riposi;

E penso all' uomo, che a te da lato Dormir ti sente, spira il tuo fiato.

Ahi l'uom crudele! Da presso ognora Mi vuole al foco ch'arde e divora,

Ch'io senta struggermi le vene e l'ossa Perchè tranquillo viver ei possa.

Crudo! ma guai, guai se sormonta L'odio, e col lieto fasto s'affronta!

Potrei mostrargli con questa mano Come non s' ama, nè s'odia invano.

V.

Fra gli olmi, fra i platani

V'è un loco romito,

Cui presso cammina

Il limpido Sil.

Ogni anno là recasi

Col fosco marito
La povera Annina
Al rieder d'april.

-Non sali dell' agile
Ginnetto sul dorso ?
Non ami del cocchio
Il ratto fragor?
Diriasi che t'agiti
Occulto rimorso,

Vedendoti l'occhio
Ritorcer dai fior.-

Deh! cessa le inutili
Inchieste, deh cessa!
Non nacque, tu il sai,
Quest' alma al gioir.

Veduta, rammentati,
M' hai sempre la stessa;
Cercando che vai
Con vano martir ? -

Ahi cuore di femmina;
Ingrato, tenace!
Io dunque son stolto?
E tal chi mi fa ?-
Il sangue alla misera
Ribolle, ma tace;
E in lagrime sciolto
Lo sdegno ne va.

E l'altro più infuria;
E, fuor di sè tratto,
Ritrova nel pianto
Di colpa cagion.

-Son reo perchè il perfido
Tuo duolo combatto;

E assiduo da canto
Ognora ti son?

Son reo, perchè lecito
Non t' è nell' ebbrezza
Lanciarti d'affetti
Contrarii al dover. -

L'oltraggio va, Foscari,
Tropp' oltre, e l' asprezza
Di questi tuoi detti
Potriati doler. -

Che? Insulti?-E già, torbida La mente di sdegno,

A vile minaccia
Solleva la man.

Annina dall' impeto,
Ch'è senza ritegno,
Ritorce la faccia,
E fugge lontan.

Nel correre incespica, E l'altro, veggendo A tal la gentile, Acchetasi alfin.

In casa ricovrano : Se non che, cadendo, La donna un monile Perde nel giardin.

D'ancelle il sollecito Ritorno non vale, L'arnese pregiato

Più visto non è.

Cosi dell' ingiuria Dell' uomo brutale Annina l'ingrato Vestigio ha con sè.

VI.

Il palagio a tumulto è levato. Tradimento! Il padrone strozzato Tra guanciali, irto il crin, nero il volto, È tuttora col collo ravvolto

Nella fascia del moro sleal.

Quell' iniquo s'insegua, si prenda,
S'incateni, ma nullo l' offenda.
Il processo, e il gastigo, che sia
Specchio agli altri dell' empia genia,
È dovuto al maggior tribunal. -
D'uno in altro trapassan tai grida,
È già in ceppi la man parricida.
Una gondala già l' ha condotto
In Vinegia nel cupo ridotto
Dove al sol dato il varco non è.

De' suoi giudici tratto in presenza,
Sclama: Or via, proferite sentenza.
Reo m' accuso, non cerco difesa;
L'avrei pur, ma da voi non intesa.
Quel ch' io a lui, faccia un altro con me.

Consiglier non avesti o compagno?

Qual dal fatto speravi guadagno?
-L'odiai come suol nostra gente;
Veder volli quel volto insolente

Qual sembrasse cangiando color.

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Negro, ei spesso, con voce di scher

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Mi chiamava,» tizzone d'inferno! »
Questa fascia vo' al collo serrarti,
Tra me dissi, tal nero vo' farti
Che non abbia la Nubia il maggior.

Eil fei tale. O signori, se visto
Dopo morto l' aveste quel tristo!
Ma che giova? Non egli v' offese,
Non n' udiste il comando scortese,
Non la sferza di lui vi piagò.

Impassibili voi giudicate,
Genti ignote assolvete o dannate;
È la colpa tradotta nel Foro,
Ma del tempo e dell' alma il lavoro
Lento, arcano vedersi non può.

Giudicate, punite, son pronto;
Men è dura la morte che affronto
Della vita vassalla, infelice,
Onde già della mia genitrice
M' era forza la tinta scontar.-

Più non disse; e già il bruno corteo,
Che al patibolo è scorta del reo,
Messo è in ordine, e canta sommesso.

Accalcate di popolo spesso

Son le vie per cui deve passar.

VII.

Annina, indi a più di, trova il monile, Che nel fatal giardin perduto avea, Da carta involto, dove in rozzo stile Questa breve scrittura si leggea : Quindi innanzi non fia, Donna gentile, Chi levi a minacciarti la man rea. Tel giura il Moro. - Ebb'ella appena letto, Che le mancò la vista e l'intelletto.

IL CAVALLO

D'ESTREMADURA.

BATTE il pian d' Estremadura Indomabile un destrier; Triste è il regno, e n'han paura Duci, prenci e cavalier.

- Chi gli ponga freno e sella,
Pur ch' ei sia di nostra fè,
Sarà sposo d'Isabella,
Sarà genero del re. -

Così va di terra in terra
Proclamando un banditor;
Da sei mesi son ch'egli erra,
Ne comparve il prode ancor.

Di Granata e di Castiglia
Le contrade visitò,
Vide Cadice e Siviglia,
Tago e Duro valicò.

D'Oviedo e di Pamplona
Trascorrea le piazze invan,
E la Murcia e l'Aragona
E il bel suolo catalan.

Ma un oscuro di Biscaglia,
Ricco sol del proprio cor,
Si proferse alla battaglia
Col selvaggio corridor.

Ai magnati parve strano
Quel coraggio, e lo bellår:
- Se non hai la striglia in mano
L'arte tua non potrai far.-

Non rispose, ma contenne
La giusta ira dentro sè;
Ed attese finchè ottenne
D'esser tratto innanzi al re.

Quivi giunto, tal ragiona;
Ma pria il capo si scopri :
- È egli ver, sacra corona,

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