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Celatamente, e a me giuraron patto
Di bellicose genti, e di tesoro. [atto,
Poi ciascun d'essi ogni pensiero, ogni
E quella, che il poter, l'ingegno, e l'arte,
Somma ad entrambi autoridade han fatto,
Tutta converse in ricompor le sparse
Voglie, e quetar l' invide gare, e gli odi
Fra l'altre signorie di nostra parte:

E quelle, forti de' ristretti nodi,
Quasi a ceppo comun ramose braccia,
A se congiunse per diversi modi.

Sebben fortuna ad amendue me faccia Ancor secondo di possanza e gloria, Nè l'ala a simil vol ben si confaccia : Pur la recente di quel di memoria, Quando per me Montecatin sentio Tanto grido levarsi di vittoria;

Merito e grazia m'acquistò tal ch'io Quanto per loro oprar là si dispose Fede ho quà giù di conseguir pel mio.

Come verrà (questo ad ogni uom s'ascoEd or tu, per altezza d'intelletto, [se, Quarto sarai nelle secrete cose),

Come verrà, che all'arduo mio concetto lo giunga, e veggia di cotal semenza Tempo a cogliere omai quel che m'aspetto;

Subitamente e fuor d'ogni credenza
Muoverò l'arme impetuoso, e mia
Sarà prima Pistoia e poi Fiorenza.
Segnale a Cane, ed a Matteo ciò fia:
Allor contra colui, di guerra esperto
Men che d'ogni arte frodolente e ria,
Contra il guelfo maggior, contra Ro-
berto (1),

Tutti, in un punto, di ciascun paese
Trarrem precipitosi a viso aperto.

Segno a cotante e non pensate offese Mal starà fermo quel superbo in campo, Cui l'odio oculto si farà palese.

Che se muova Filippo indi al suo
scampo... (2)

Dante racceso negli affetti suoi,
Qui fia Cesare, disse, a fargli inciampo.
Cesare? or quale? a lui Castruccio; e poi:
No, l'un l'altro fra lor struggansi intanto;
A noi guardia fia l'alpe, e all' alpe noi.

Non si tosto ebbe detto, che del santo
Ostel s'aperse lentamente il fosco
Uscio, donde fuor venne in sacro manto
Un, che disse: Fratei, pace sia vosco :
Poi mosse ad una croce, ivi sorgente

(1) Re di Napoli.

(2) Re di Francia, fautore de' Guelfi.

In sull' entrar del tortuoso bosco.

Allor que' duo, già vinti da un' ardente Brama di ragionar libero e chiaro, Pieni amendue d'alto pensier la mente, Pel selvaggio cammin si dilungaro.

CANTO QUARTO.

FACEAN ritorno al solilario albergo Mentre sul balzo oriental parea Quella che ha l'ombre innanzi, e il sole a tergo.

Lieto Castruccio a l'Alighier dicea! Del ciel furaggio quel pensier, che in prima Tua sapienza ricercar mi fea.

In me si largamente da la cima
Dell'intelletto tuo luce discese
Che mia speranza omai certa s'estima.

Magnanimo signor, Dante riprese,
A' gran disegni tuoi contro non mova
Quell'avversaria delle sante imprese,

O alquanto il ciel de la sua grazia piova, E qui le genti per età lontane Il nome tuo benediranno a prova. Quando grave una voce: o menti umane, Voi nel tempo futuro edificate, Nè certo fondamento è la dimane!

[te

L'un ver l'altro, a quel suon, maravigliaVolser le ciglia, e tacquero, e fer sosta, Prestando orecchio il cavaliero, e 'l vate.

Quella continuò: cangia proposta Tu che la speme a tanto ergi secura; Troppo da lungi la gran meta è posta. Oh quanta etade io passar veggio oscura, E calda ancor di civil odio insano Su la tua derelitta sepoltura!

Ecco più chiaro secolo ed umano; Ecco più degna ai cor fiamma s' apprende, Ecco uscire un guerrier di Vaticano.

Per quanto Italia si dilata e stende Bramoso dal Tarpeo lo sguardo ei volve, Poi d'arte armato e di valor giù scende.

Ma un'ombra, che nel gran manto s'involA mezzo il corso trionfal l'arresta. [ve L'opra dell'empio innanzi sera è polve!

Tacque; e i duo che venian per la fo

resta,

Giunti colà, donde quel suon procede; Parean tacendo dir: che cosa è questa? Videro allor dell' alta croce al piede

Il fraticel che in pria pace lor disse,
D'un icognito ardor, che lo possiede,
Acceso il volto venerando, e fisse
In alto le pupille, immoto starsi,
Qual se parlar l'Onnipossente udisse.
Intanto, a la sua voce, ecco gli sparsi
Accorrer consapevoli fratelli,
E quivi intorno a lui tutti affoltarsi.

Uscendo il buon rettor di mezzo ad elli, Mira, a Dante gridò, come il ciel pregia Gli umili spirti, e si compiace in quelli.

Questo santo romito, a cui non fregia Altro che fede e carità la mente, Spesso dell'avvenir Dio privilegia.

E se vicina allor cosa, o presente, D'una secreta sua virtù lo sproni, Ivi spande il profetico torrente.

O dolce padre, che colà ragioni, Ripiglio l'ispirato, a tal che fia Tra breve un nome che in eterno suoni, Vien qua, vien qua, chè per la lingua mia Al penitente tuo viver votivo Conforto il ciel non aspettato invia.

Quel pargoletto, che di vita privo Piangi, mercè de la fedel nutrice (Sappilo, e godi, e Dio ringrazia) è vivo.

Fia di casta donzella oggi felice, Che, spente l'ire, i tuoi nimici a lui Disposeranno e di cotal radice

Verrà pianta, onde fia germe colui Che, dopo cinque secoli, di questa Notte dirà con non vil carme altrui.

Oh come il veggio, oh come manifesta M'è nel cospetto quell'età si tarda! Oh quanta un vivo Sol luce le presta!

Un Sol, cui stupefatto il mondo guarda,
Tutta di bel disio, tutta di speme
Fa che la gente si ravvivi ed arda.

Qui ferve, dopo lui, più largo seme
Di gentilezza, di saver, d'onore,
E d'agghiacciati venti ira non teme.

Qui tien mansuetudine ogni core, Dolce negli atti, e ne' sembianti amica; E parla caritade, e spira amore.

Ma fortuna vegg' io, sempre nimica,
Come dentro le molli anime allenti
Il santo ardor de la gran fiamma antica.
Del fior vegg' io de le novelle menti
Poche seguir quel benedetto raggio,
Sol per cui si rallignano le genti.

Altri l'intera dell'uman legnaggio
Felicitate di lontan saluta,
E per lei vagheggiar torce il viaggio.

Parte, anelando all' arduo ver, perduta

Sovra l'ali fantastiche, la traccia, Torna di nebulose aure pasciuta.

Parte gl'ingegni d'allettar procaccia Dietro all'arte che il Figlio di Maria [cia. Sgombró del tempio, divampando in facO intenzion, forse benigna e pia, Indarno, indarno che riesca aspetti A meta liberal cupida via.

Rendete il vital cibo agl'intelletti, Non ismarrite la verace stella, Rinnovellate di fortezza i petti.

Ve' come sorge maestosa e bella
Più da lungi una donna, che con voce
Formidabile esclama: ancor son quella!

E cinta di virtude ecco un feroce
Con la destra rispigne ingordo mostro,
Con la sinistra man leva una croce.

O immortal segno del trionfo nostro,
Lume sull' onde tempestose immoto,
Io ti veggio, io t'inchino, io mi ti prostro.
E ginocchion gettandosi devoto,
Con la faccia, che a un tratto discolora,
Cadde in sull' erbe senza senso, e moto.

Alto un silenzio, un meditar che adora Le arcane vie di Lui che sè consiglia, Segui d'intorno a quel giacente allora.

Di gioia il duce de la pia famiglia Bagna le guance; l'Alighieri atterra, Castruccio tien nell' Alighier le ciglia.

Aurea consolatrice della terra,
Piovuta all' ime valli era da' monti
La pura luce, che i color disserra.

Già percoteva quelle pensose fronti
Il Sol, che omai l'ispide cime avanza,
E co' suoi raggi, di letizia fonti,
Giù discender parean lena, e speranza.

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O lume d'ogni nobile intelletto, O face eterna di saver profondo Inusitata al mondo,

O spirito che a' rai del primo Sole
Tuo divo raggio ricongiugni, or senti
Come nostra natura a lui si duole;
Grave d'alta pietade alza la testa,
Mostrando al ciel quel che di te le resta.

D'egual lamento ogni gentil favella
Suona, e traendo affanni

Su le piagge divise Italia stassi,

Ch' or, come vedi, alfin sente suoi danni :
Questa misera ancella

(Colpa d'antico mal che in lei s'alligna)
Madre a' pravi intelletti, ai buon matrigna,
Pur si sentía superba di tua luce:
Tu maestro, tu duce

Sul dritto calle de' bei studi in prima
Riconducesti i suoi smarriti passi;
E se ingegno potea riporla in cima
De la gloria che sola oggi le avanza,
Parmi s'avesse in te degna speranza.

Ma tu se' gito a riposata parte
Di nostre cure in bando,
E tuttequante le passate cose
Indi palesemente rimirando,
Guardi quanta e qual parte

Di lor, chiamato dal disio del vero,
Vedesti con l'altissimo pensiero,
Si che forse di tanto or maravigli:
Onde i fermi consigli

Porgevi in terra, e degli antichi savi
Quasi fra l'alme altere e gloriose,
Degno di tanta compagnia, ti stavi;
Ed elle in te dopo mill' anni e mille
Or tutte raccendean l'alte faville.

Peregrinando per lo tempo andato,
Dritte leggi e costumi

Sorger vedevi, e dichinar poi tosto;
Fatti gli error miseramente numi,
E d'ignoranza nato

Furor nel sangue suo disío far pieno,
E franca tirannia, rotto ogni freno,
Di miseria gravar regni ed imperi :
Tolta a' vani pensieri

Filosofia ti disvelava a un tempo
Di tutte cose lo perchè riposto,
Schiarando le caligini del tempo;
Quindi 'l passato e l'avvenir fea speglio,
Piangendo il male e meditando il meglio.
Qual torrente cui nullo argin più domi,
Fra le cose mortali

Il tempo rapidissimo si volve;

E l'opre umane incontra lui men frali

Guasta, e famosi nomi

Disperde, e luce d'alti esempli ammorta,
Ed illustri memorie se ne porta,
Di confusion segnando suo cammino,
E tu, spirto divino,

A la foga antichissima rapisti
Parte di quel ch' una ruina involve,
Si che ogni arte gentil d'alteri acquisti
Lieta mandavi ove beltà s' apprezza,
Primo conoscitor d'ogni bellezza.
Maravigliaro le superbe menti,
Che tratto al pregar loro
Udían te nel Britannico Senato
Giudicante il divin greco lavoro:
Ove tal d'argomenti

Nova spandevi e di dottrina immensa
Copia, che quanto fantasia ne pensa
Sono immagini al ver scarse e leggiere :
O Italico savere,

Come di somma riverenza degno
Ti stavi de l' altrui possanza allato!
Ahi vana nostra nobiltà d'ingegno;
O Italia d'ogni ben sempre digiuna!
Nè tanto senno vincerà fortuna?

Unica in tanta gloria umil virtude
Che di tua eccelsa via

Tra noi scendevi a far di te delizia
In abito gentil di cortesia;
Bontà, che a l'aspre e crude
Pene, cui spesso uman valore è corto,
Pronta soavitade di conforto

Recavi in atto affettuoso e pio,
Or premi gli astri, e Dio

T'accoglie al sen benignamente, e dice:
Vieni a côr frutto a l'arbor di letizia
Cui le bell' opre son prima radice;
O nobil alma d'ogni merto ornata,
Leva a me gli occhi, indi ti volgi e guata.
Poi vedi giù nel secolo dolente
Lo tuo cammin giocondo
Rider di luce che sarà più bella
Quantunque volte si rinnovi il mondo;
E disdegnosamente

Da' vilissimi pochi il guardo piega
Cui 'l parteggiar si lo intelletto lega,
Che al tuo lume immortal ciechi si fanno.
Ahi stolti che non sanno

Come virtude in generoso core
Di sue vere sembianze si rabbella,
E mal contra virtù pugna furore;
Per lei s'ottien laggiù fama verace,
E non per altro innanzi a noi si piace.

S'egli avverrà, Canzon, che Italia senta Tuo giusto sdegno e il van lamento insieme,

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VERDE e solingo colle

Ch' al mio vate gentil tanto piacesti,
Che vivo e morto riposar qui volle,
Tu che vivo il vedesti

(Quanto t'invidio), e di bei lauri cinto Trar sua vecchiezza a lenti passi e gravi Per queste ombre soavi,

Quando del prisco italico valore
Pensier gravosi e mesti

-O

Qui portava nel volto, ancor dipinto
De la dolcezza che vi pose amore;
Di', qual parte di quest' ombrosa chiostra
Copre l'avanzo de la gloria nostra ?
Ecco, io ti veggio, o solo
E più che gemma prezioso sasso!
Fortunata quest' aura e questo suolo
A cui rivolge il passo
Cupidamente ogni anima bennata
Che qui gode inchinarsi e star pensosa;
E ogni anima amorosa

Che sospir più soavi unqua non spera:
Io veggo Amor che lasso

Si volge a l'urna dolorosa e guata;
La sagra Poesia, cinta di nera

Benda, con mano a' tristi occhi fa velo :
Credo la guardi con pietade il cielo.

E Amor così le dice:
Quivi seder con lagrime e con lutto
A me veracemente, a me s' addice;
Vedi a che m'han ridutto
Diversi tempi e tralignate genti,
Ch'io porto di lascivia abito e nome;
E ben sa'l mondo come

La più gentil fra le gentili cose
Questi mi fece, e tutto

Pudico innanzi a giovinette menti,
Col suo si dolce lamentar, mi pose:
In lui, sommo intelletto e puro core,
I divini pensier spirava Amore.
Ed ella a lui : Ben parmi

Che più a me si convegna il van disio
Qui disfogare e piangere e lagnarmi;
Amor tu'l sai, com'io

Presi l'alme più schive e più selvagge Di mia beltate allor ch' ei mi diè veste Eletta, e si celeste

Dolcezza che suonò per lunga etade : Or donna vil che il mio

Nome si toglie, e i nuovi ingegni tragge
Dietro sua vanita, che beltade,
Vaga di strani fregi uscì del fango:
Ella gode onorata, ed io qui piango.
O cener benedetto,

Or cener muto che una pietra guarda,
E già stanza d'altissimo intelletto;
Ben cred' io che ancor arda,

Volta quaggiù, la tua santissim' ombra Di quell'amor magnanimo e cortese Che ben d'altro l'accese,

Che d'occhi rilucenti e di crin biondo.
O Sol, ch'ogni più tarda

Reliquia hai vinto di barbaric' ombra,
E adorno ancor di gentilezza il mondo,
Or chi ti cela? or che saria mestiero
Di te che apristi ai più superbi il vero.

Canzon, sovra quest'urna

Poni un serto di lauro ed un di mirto;
E la querela affettuosa e il canto
Leva umilmente a quel divino spirto,
A quel sovrano italico decoro,
E lui ringrazia: intanto

Io bacio il suolo, e questa tomba adoro.

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