XXVIII. Ma Igin, dopo politico sbadiglio, A Cosso allora : Qual tremenda notte ! Udisti? e tuoni e grandine, in periglio I vetri, e strepitar pioggie dirotte ? Cosso rispose: Mai non chiusi il ciglio, Ei dieci ore dormi non interrotte) Fuil primo mio pensier vostra eccellenza; Ma in lui conserva noi la provvidenza. XXIX. Cosso a Igino è nemico, Igino a Cosso: Scherniansi entrambi col soave aspetto. Intanto al Greco per le fauci un osso Scorre, e al meschino è il gorgozzuol già stretto. Ursin dai gesti suoi nulla commosso, Disse: Muore; chiamate il cataletto; E col riso da Nice un guardo estorse, Poi colle lodi guasto il vin ch'ei porse. XXX. Spumeggia in bei cristalli e Spagna e Già Sicilia al Tocai cede e Toscana; Ne' lucidi occhi arse, infuocò la guancia, Dicea: Del vino il merto e del convito Mostra eroi: sta in cantina il vero onore. Qui lo stranier mi fe', in francesco, invito A cantar di virtù, d'armi e d'amore. L'intendo, e il laudo : Apollo travestito Lui chiamo, e Muse le raccolte unore. Poi canto armi e virtù: ma ognun, già sazio, Sbadiglia e applaude; io tollero e ringra mm P. A. FIORENTINO. Ma ti resta la sventura; E in quest' ora al duol propizia E al tuo cener prega pace Più non riedon de' tuoi grandi E il coperchio degli avelli Ma la fresca aura notturna Che dal core ascende al ciel. Salve o Roma! Un giorno Iddio Spezzerà la tua catena ; Di pagar si crudo fio Forse degna non sei tu? Sventurata ! la tua pena Forse ai fallo egual non fu? Non rammenti a qual eccesso Il tuo orgoglio è un di venuto ? Non rammenti il mondo oppresso Quante volte fu da te Ricomprato, rivenduto, Ricalcato sotto il pie? Il tuo popolo d'eroi Non rammenti che a l'aratro Ma tu spera... tutto ha fine, Ma ti resta la sventura Ma ti resta il tuo dolor. UNA ROSA. Io posseggo una rosa verginella Unica pompa del materno stelo: Qual maraviglia se n'avvampo e gelo Quando intorno le fischia la procella? Crescer la vidi a l'ombra mia più bella, Piova e rugiada le pregai dal cielo, Di siepe la difesi e le fei velo Al vento iniquo, alla stagion rubella. Sul vespro or la riveggo, e su l'aurora E langue e si rinverde la mia vita Siccom' ella s' accende o si scolora. Ei Numi in cielo han la mia prece udita; Se il sol la uccide, o il turbine la sfiora Sia quello il giorno della mia partita. T. GARGALLO. EUROPA. IDILLIO. FIORIA del tirio Agenore Seco le Grazie scherzano, Del suo men crespo e fulgido Cupido il bel ceruleo Raggio di sue pupille Vivo è il rubin che imporpora Perle son schiette e mitide Tornito il collo annodasi Che ondeggian, qual da zeffiro In sottil veste e candida Quando gli augei salutano Ed altri a schiere volano Per boschi, e piani, e colli; Quando a' concenti flebili Risuonan le campagne Di cento amiche vergini De' vario-pinti fiori, La mira e n' arde Giove. Nel punto stesso vide Corre, e a' suoi pie' sdraiandosi, Con nuovo ardir l'ingenua Tu non temer; tue lagrime, P. GIANNONE. RAUNANZA DI CARBONARI. Dall' Esule, poema (1). Già la notte profonda, tacente, Tutta chiusa nel bruno suo velo (1) L'Esule, poema polimetro in 15 canti di PieBro Giannone non è sogno di poeta; ma storia vivamente colorita dall'amore della patria. I posteri sapran grado all'autore d'aver descritto alcune di quelle scene di carità, di valore e di vendetta taciute o deturpate dalla cortigianeria degli storici. I limiti ristretti della nostra raccolta ci permisero solo lo stralciare da esso poema una raunanza di carbonari in un antro degli Appennini dove recasi l'esule Edmondo eroe del poema. Il lettore straniero nel soddisfare alla curiosità che il nome di carbonaro suol destare verserà, speriamo, una lagrima sui mali dell'Italia. (L' Editore.) I cerulei deserti del cielo È silenzio. E da voce vivente Van, per torsi da' ferri e dall'onte, Consultando l'ardito pensier. Una larva che i volti ne copre Ma consiglia, ma stimola all' opre, Ma il periglio ne rende minor. Fuori d'essa dardeggian gli sguardi Di quel vivo intensissimo lume, Che fra cento altri popoli il Nume Solo a quelli d'Italia donò. No! sospinto da petti codardi Mai raggiar cosi vivo non può. Dello speco raddoppia l'orrore Un parato com' ebano bruno, Degli accorsi s'addatta ciascuno Bruno e stretto alle membra il vestir. Ahi! quel mesto, quel morto colore Della patria disegna il servir. Son parecchi; ma tacito, immoto Stassi ognuno in gran cerchio seduto, D'ogni terra d'Italia venuto Dove il chiama speranza ed amor: E fra tanti un sedile è sol voto, Per altezza di tutti il maggior. Ma nel mezzo del cerchio a un istante, Del dolor, della morte nell' atto Sovra il segno del nostro riscatto L'Uomo-Dio dalla terra appari; E su lui di gran luce fiammante A quel segno ciascuno abbandona Vedi costui che l'alma anneghittita Mostra nel volto, e nelle luci immote Quasi stupisca di sentir la vita! Questo clima felice invan lo scuote: Giace la fibra inerte e senz' acume, Che ne sentirlo, nè gioir ne puote. Ve' come le pure aure, il puro lume Beve del nostro cielo, e il pian ridente Calca e spegne la sete al maggior fiume! Vedi come d'un avido impudente Sguardo divora l'insubre donzella, Che sen dilunga pallida e fremente! Ah! tu fuggi a buon dritto, o vergin belIl teutono insolente in lui ravvisi Al ceffo ed alla barbara favella. [la: Mentre su corpi di lombardi uccisi Ei siede e'l sangue versa e beve il pianto Degli ancor vivi dal timor conquisi, E l'onta appresta alle lor figlie intanto; Lunge dal suol ch'ei spoglia, erran gemendo Quei che l'Italia amar d'un amor santo; La comune viltà maladicendo O disdegnosi precorrendo il fato Spandono il sangue per la Grecia antica Che per la patria lor non han versato. Ne sperano al coraggio, alla fatica, Al valore, a' perigli ed alla morte, Nemmeno il suon d'una parola amica. Ma l'alma nel partir dal petto forte Ne de' fati ha qui fin lo sdegno atroce, Abi! l'oro che l'Italia all' Austria diede, El'Austria all' infedel, di Cristo a scorno, Prezzo d'itale teste esser si vede! Ma scena anche più rea mirati intorno D'altri, sepolti in tetro carcer duro, Le perdute anelanti aure del giorno. Per quanto l'omicida aere impuro Veder ti lascia, invan ricerchi in essi Leve traccia trovar di quel che furo. Del fatal segno della morte impressi, Indica in lor la debil vita appena I faticoso ansar de' petti oppressi. E se talora, per cangiar di pena, Cercan mover le membra estenuate, Fremi al sordo fragor della catena. Ahi! quel sol che gemendo invan cercate Più non conforterà, gente infelice, Neppur le vostre salme inanimate; Chè vivo e morto uscir di là non lice! Ma qual colpa del barbaro straniero Aggrava sovra voi la destra ultrice? Oimè, la patria amaste, amaste il vero! Delitto è questo che non mai perdona Chi su la muta Insubria or tien l'impero. E quel popolo stesso or v'abbandona Che libero voleste! ed il lamento Di si lung' agonia per lui non suona! Se questi di dolore e di spavento Disumani spettacoli comporti, Sofferente alle oflese, all'ira lento, Maggior lutto anche attendi e più gran torti, Popolo ignavo, sin che invidj il fato E ancor più che non soffri avrai mertato. Cosi de' cor più chiusi il generoso I sensi apriva; e intanto s' avviava Al voto seggio un quarto, e disdegnoso Di rimproveri un suon l'accompagnava : Non s'arresta ei perciò, ma d'una mano Chiede il silenzio e non lo chiede invano. Chè al gesto, al guardo, all'alto porta mento Ansia viva destando e maraviglia, Ma quel ch'udii, sia lode al ciel, ben mostra Quanto assai più di me ciascun lo merta; Sol d'amor dunque e di memoria vostra Vôto il serbarlo ancora è prova aperta : E vorrà Dio ne' suoi decreti ascosi Torre una patria a cor si generosi? Si, questo è il seggio mio: no'l dir fra noi, Fratelli, in me vana cautela or fora; Non son già perso? Ah! per unirmi a voi Saria dolce al mio cor perdermi ancora. E la larva si tolse, ed il profondo Antro suono per cento voci « Edmondo!» « Oh vedi il braccio che la benda in- Ferita è quella, e so chi gliel' apria! »- Metà dell' opra ha chi conosce il male: L'arte qual è di chi l'Italia or tiene! Corruttela e ignoranza il primo anello Ai popoli intrecciar di lor catene. Quindi è fedele il dissoluto e quello Che muto accorre ad incensar l'errore; E chi segue virtù, quegli è ribello. Qual dunque è la nostr'arte? In ognicere Destar la fiamma di virtù sopita; E se muorsi in tentarlo, ah! ben si muore; Chè ciò ne ingiunge chi ne diè la vita. Alto è il proposto, nobile, divino; Ma giungervi si de' per via non trita; Ma sparso di perigli è tal cammino : Morte, siccome a disegnata preda, A chi correrlo vuol rugge vicino. Pur chi fia che di noi s' arresti o ceda? Fratelli, il Giusto non mori del pari Perchè l'error s' abiuri e il ver si creda? Grida il nostro oppressore, e dagli altari Gridar lo fa « Son empj i vostri voti, Contrari alla giustizia, al ciel contrari. Ma noi, noi siamo i giusti a Dio devoti, Da noi debitamente il ver s' adora Nell'osservanza delle leggi immoti. » Ipocrisia nefanda! - Ah, solo allora Vero il detto sarà, che s'odan gli agni Il lupo benedir che li divora! E noi sacri alla patria, e noi, compagni, Per liberarla da si crudi mostri Sordi de' nostri cari ai preghi, ai lagni ; Noi già perduti, perchè il ver simostri Tutto quant'è; noi che scegliam la morte, Perchè sentan la vita i figli nostri ; Noi che rifar cerchiamo un popol forte, Indegnamente ai danni condannato Ed allo scherno di soggetta sorte; Noi gli empj siamo! noi da dispietato Ferro gli spenti! o lunge da quel suolo Dove ciascun de' nostri padri è nato, Costretti a numerar gli anni col duolo, Costretti a mendicar tombe straniere Dove su noi non suoni un sospir solo. L'esilio!.. Ah! non ne può tutta vedere, Chi no 'l provò, l'atroce smania occulta, Per quanto il pinga con parole fiere. Taccio l'offesa troppo spesso inulta, Taccio il disagio, taccio i modi in cui Più che il disprezzo la pietà t'insulta: Ahi testimon di maggior duolo io fui! Duol senza nome è della patria terra Udir lo strazio su le labbra altrui, E meglio si vorrebbe esser sotterra. – Ma l'onta ha seco l'anima orgogliosa Che move agl' infelici una vil guerra. E fama e lode a chi spregiar non osa |